Riforma Cartabia, reati a querela: sì della Cassazione all’interlocuzione delle Procure

La Cassazione ritorna sugli effetti causati dalla Riforma Cartabia per quanto riguarda i procedimenti per i reati con procedibilità a querela. Con la sentenza 22641 del 24 maggio 2023 viene accolto il ricorso di un uomo che è stato accusato di furto aggravato durante la sua permanenza in comunità per espiazione di una pena.

La V Sezione penale, dopo essersi interrogata riguardo l’esistenza di una condizione di procedibilità valida, ha rilevato che la querela/denunzia agli atti non aveva tutti i requisiti necessari. L’atto, infatti, era stato firmato da un’operatrice che lavorava nella comunità, che si occupava della delega alla presentazione della denuncia del rappresentante legale della Cooperativa sociale e che possedeva l’autovettura rubata, ma senza che la firma fosse autenticata.

La Cassazione ricorda che «in luogo dell’avente diritto, la querela può essere presentata dal suo procuratore speciale, ma la procura speciale che legittima quest’ultimo deve essere rilasciata con le formalità suddette» (33162/2018). Si tratta delle formalità indicate dall’art. 337 del codice di procedura penale, formalità della querela.

Quest’ultimo, al comma 1, dice che la dichiarazione di querela debba essere proposta con le forme stabilite dall’art. 333, comma 2 del codice di procedura penale. A sua volta, questo stabilisce che la denuncia potrà essere presentata per iscritto oppure oralmente, personalmente o dal procuratore speciale.

Al comma 2 dell’art 337 si prevede anche che la querela che viene presentata oralmente potrebbe anche essere sottoscritta, sia personalmente dall’interessato ma anche dal procuratore speciale. La norma di riferimento in questione di tema di procura speciale si trova all’art. 122 del codice di procedura penale, per il quale «quando la legge consente che un atto sia compiuto per mezzo di un procuratore speciale, la procura deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata».

La Cassazione, con la decisione 22658, fa riferimento ad una condanna per furto aggravato, rispetto al quale sussisteva una «mera denuncia» che non si accompagnava ad alcuna richiesta di punizione e che ha accolto il ricorso dell’imputato.

Per la V sezione penale, il «silenzio legislativo esclude uno stringente dovere di svolgere accertamenti, quanto alla sopravvenuta presentazione di una querela, accertamenti che peraltro possono solo indicativamente essere delineati, in assenza di un puntuale percorso normativo».

Ne consegue «che appare ragionevolmente sostenibile la sussistenza di un onere in capo alla pubblica accusa di introdurre atti sopravvenuti che, come detto, valgano a documentare la persistente procedibilità dell’azione penale esercitata».

Continua: «Tutto ciò non esclude che il giudice di legittimità, nel tentativo di porre rimedio alle carenze normative, attivi prassi finalizzate a impedire che ritardi, da parte delle Procure della Repubblica, nella trasmissione delle querele sopravvenute possano condurre ad epiloghi decisori di improcedibilità nonostante la sopraggiunta presentazione di istanze punitive».

«Ma, si ripete, si tratta di modelli organizzativi che, in assenza di puntuali indicazioni normative, rappresentano uno scrupolo istituzionale finalizzato all’avanzamento della tutela garantita dall’ordinamento alle persone offese con riguardo alla facoltà di sporgere querela».

Nel caso in questione, «una interlocuzione con la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pescara ha consentito di accertare che non risulta essere stata presentata alcuna querela, a seguito dell’originaria denuncia». La sentenza, dunque, deve essere annullata senza rinvio.


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Nordio, procedibilità d’ufficio per reati di mafia

Il ddl presentato dal Guardasigilli Carlo Nordio prevede la procedibilità d’ufficio per tutti i reati aggravati dal metodo mafioso oppure da finalità terroristiche. Consente l’arresto in flagranza anche senza querela, nel caso in cui la persona offesa non sia reperibile.

Si prevede la procedibilità d’ufficio per tutti quei reati procedibili a querela nei quali troviamo l’aggravante della finalità di terrorismo oppure di eversione della democrazia. O, ancora, l’aggravante determinata dall’aver commesso il fatto basandosi su un vincolo associativo mafioso, oppure per agevolare l’attività delle associazioni mafiose.

La procedibilità d’ufficio avverrà anche per i reati per lesione personale, quando vengono commessi da una persona sottoposta a misure di prevenzione personale, sino ai tre anni successivi al termine di tale misura.

Inoltre, troviamo modifiche anche in materia di arresto in flagranza, che sarà obbligatorio nel caso in cui manchi la querela e se la persona offesa non risulti reperibile. Nei casi in cui la querela dovrà essere presentata nella sua forma semplificata, le autorità che procedono con l’arresto saranno tenute a rendere le informazioni alla persona offesa (art. 90-bis c.p.p.).


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Incidenti stradali, droghe e alcol: nessuna via d’uscita per la revoca della patente

Guidare dopo aver assunto alcol o sostanze stupefacenti e provocare incidenti stradali fa automaticamente scattare la revoca della patente. Inoltre, non si può in alcun modo sostituire la pena detentiva e quella pecuniaria con i lavori socialmente utili.

Un automatismo analogo fu introdotto grazie alla legge 41/2016 per quanto riguarda tutte le ipotesi di lesioni stradali colpose e di omicidio stradale. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha ridimensionato il tutto con la sentenza 88/2019, secondo la quale la sanzione amministrativa fissa non è ragionevole, e comunque non compatibile con i principi di proporzionalità e uguaglianza.

La revoca della patente, da allora, scatta in maniera automatica, ma soltanto se le lesioni o la morte della vittima sono state causate da un guidatore sotto effetto di alcol superiore a 1,5 g/l e/o sostanze stupefacenti. In qualsiasi altro caso sarà il giudice a disporre la revoca o la sospensione della patente di guida.

Nonostante la Consulta abbia riconosciuto le «connotazioni sostanzialmente punitive» della revoca della patente di guida, rimarrà comunque una sanzione amministrativa. Per questo, secondo la sentenza 21369/2020 della Cassazione, la sanzione non è negoziabile: la misura della revoca, dunque, non potrà essere sostituita con la sospensione, dato che ciò non è previsto dalle legge (Consiglio di Stato 4136/2019).

Si auspica un intervento per consentire al prefetto, in caso di esito positivo della messa alla prova, di irrogazione della sospensione della patente, al posto della revoca obbligatoria, in tutti i casi di incidenti privi di feriti, anche se causati da un conducente che ha assunto droghe e/o alcol.

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Riforma Cartabia, reati a querela: le precisazioni della Suprema Corte

Riforma Cartabia, reati a querela: le precisazioni della Suprema Corte

Il reato di “Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone”, art. 659, comma 1 del codice penale, è diventato procedibile a querela grazie alla Riforma Cartabia. La Corte, dunque, dovrà esaminare i ricorsi agli effetti penali.

Questo è quanto ribadito dalla Suprema Corte, sentenza 16570 del 19 aprile 2023. Si stabilisce che non ricorre il difetto di querela, come richiesto dall’art. 3 del DL 150/2022, poiché, per quanto riguarda il reato per il quale si procede, sono rimaste ferme costituzioni di parte civile. Una delle parte civili, inoltre, ha presentato le proprie conclusioni durante l’udienza.

Infatti, secondo un principio delle Sezioni Unite, «la sussistenza della volontà di punizione da parte della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere riconosciuta dal giudice anche in atti che non contengono la sua esplicita manifestazione».

Dunque, «può essere riconosciuta anche nell’atto con il quale la persona offesa si costituisce parte civile, nonché nella persistenza di tale costituzione nei successivi gradi di giudizio». Di conseguenza, comportamenti e atti si possono ritenere equivalenti a querela se la proposizione dell’ultima è diventata necessaria alle disposizioni normative sopravvenute durante il giudizio (Cassazione 40250/2018 e DL 10 aprile 2018, n.36).

Oltre a ciò, la Cassazione aggiunge che a tale principio deve essere collegata una «consolidata elaborazione giurisprudenziale». Si cita la sentenza 5193/2019, che si riferisce ad una condanna per appropriazione indebita aggravata, procedibile a querela successivamente alla sentenza di primo grado. In relazione a quest’ultima la Corte rileva che la sussistenza di tale condizione di procedibilità si poteva desumere dalla riserva di costituzione di parte civile da parte della persona offesa.

Si chiarisce anche che la parte civile è legittimata ad impugnare ogni sentenza di proscioglimento e che ha interesse specifico ad impugnare una sentenza di assoluzione poiché se essa diventa irrevocabile «ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile per le restituzione e i risarcimento del danno».

«Deve ritenersi consentito», quindi, «che la parte civile proponga appello avverso una sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado in relazione a reato in quel momento già prescritto per ottenerne la riforma agli effetti civili in sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, e che il giudice, in accoglimento del precisato gravame, decida in conformità con tale richiesta».

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Una commissione per limitare le cause giudiziarie contro medici e strutture sanitarie

Martedì 18 aprile sono cominciate le riunioni della commissione creata dal ministero della Giustizia, finalizzate alla limitazione e alla riduzione delle cause giudiziarie che vengono presentate contro i medici.

L’obiettivo, spiega il ministro Nordio, non è la depenalizzazione degli errori medici, ma attuare una modifica alle leggi attuali, evitando dunque gli aspetti negativi delle cause giudiziarie che riguardano la sanità, come l’intasamento dei tribunali, ma anche la “medicina difensiva”, ovvero, la prescrizione di un grande numero di visite ed esami per minimizzare eventuali rischi medici.

Per Nordio «Il malato è la prima vittima della medicina difensiva, diventata una zavorra per l’operatore sanitario, che ha il diritto di lavorare con tranquillità».

Adelchi d’Ippolito presidente della commissione

La commissione si compone di esperti di diritto penale e di medicina. Il presidente è l’ex procuratore aggiunto a Venezia con delega all’antiterrorismo, Adelchi d’Ippolito, in pensione dall’anno scorso. La Commissione avrà un anno per analizzare approfonditamente tutte le leggi attuali, studiando le proposte di modifica, che verranno attentamente valutate da Parlamento e governo.

Dunque, l’obiettivo non è soltanto lo studio del fenomeno, ma un investimento concreto. Dice d’Ippolito: «I medici italiani, e gli operatori sanitari in generale, sono vittime di una vera e propria aggressione giudiziaria. È sbagliato credere che delle norme severe ci restituiscano medici più attenti. Anzi, accade esattamente il contrario: un dottore impaurito tende a fare troppo o troppo poco, e in entrambi i casi non va bene».

Troppe cause accumulate nei tribunali

Secondo Anaao-Assomed, in Italia, ogni anno vengono presentate 35.600 cause giudiziarie nei confronti di medici e di strutture sanitarie. Visti i lunghi tempi della giustizia, tantissime cause si sarebbero accumulate nei tribunali, attendendo di essere discusse. Soltanto il 2% delle cause si conclude con l’effettiva condanna del medico.

Demoskopika, che tutti gli anni pubblica un’indagine svolta nei confronti del SSN, stima che nel corso del 2019, le spese legali destinate a contenziosi, liti o sentenze sfavorevoli sostenute direttamente dal sistema sanitario italiano ammontavano a 203,5 milioni di euro, registrando un aumento del 7% rispetto all’anno precedente.

Al Sud, le spese pagate sono state più alte rispetto al Nord, con 128,1 milioni di euro contro 29,7 milioni di euro. Al centro risultano pagati 45,7 milioni di euro. Tali dati dimostrano come i provvedimenti che sono stati introdotti nel corso degli ultimi anni non hanno affatto risolto i problemi presenti.

Come ultimo tentativo troviamo la Gelli-Bianco del 2017, che andò a modificare la legge Balduzzi. In poche parole, la Gelli-Bianco sostiene che il medico che causa morte o lesioni personali ad un paziente non può essere ritenuto responsabile a livello penale se ha seguito in maniera corretta le linee guida.

Viene giudicato colpevole, tuttavia, se l’errore è causa di un’imperizia oppure in assenza di linee guida apposite. La legge attuale, quindi, lascia più possibilità per presentare denunce contro i medici.

La commissione appena costituita dovrà studiare un metodo di intervento alternativo rispetto alla legge attuale, che non preveda la completa depenalizzazione degli errori medici, una cosa «impensabile» secondo Nordio.

Medicina difensiva

Ma la più grande preoccupazione riguarda le conseguenze di tali cause sull’intero SSN. Ci sono alcuni studi, infatti, che certificano che la paura di venire coinvolti in un procedimento giudiziario spinge i medici alla prescrizione di più visite ed esami rispetto a quelli necessari.

Nel 2014 è stato realizzato un sondaggio su un campione di 1.500 medici ospedalieri: il 58% ha dichiarato che pratica la medicina difensiva, mentre il 64% dice che la pratica riduce tantissimo il rischio di errore. Il 69% considera la medicina difensiva qualcosa di limitante per l’esercizio della professione, mentre il 93% pensava che la pratica sarebbe aumentata sempre più nel corso degli anni.

Le conseguenze economiche dell’eccessiva premura medica

Ma la medicina difensiva avrebbe anche conseguenze economiche. Esami e visite dovute all’eccessiva premura dei medici costituiscono il 10% dell’intera spesa sanitaria, ovvero, parliamo di 10 miliardi di euro all’anno.

La pratica causa anche l’eccessivo allungamento delle liste d’attesa e, in generale, dei tempi d’attesa per visite ed esami. Recenti studi sulla gestione dei sistemi sanitari attestano che una delle soluzioni al problema è proprio chiedere a specialisti e medici di famiglia di fare meno prescrizioni, favorendo la cosiddetta “appropriatezza prescrittiva”.

Gli obiettivi della commissione

Dunque, visite ed esami inutili dovrebbero essere evitati. Per risolvere il problema si dovrebbe analizzare sistematicamente il sistema di visite ed esami, individuando l’esatto tasso di prescrizioni di medici e specialisti in base alla patologia.

La commissione osserverà anche la legislazione francese, che predilige il risarcimento economico per l’azione legale. Il paziente, in poche parole, ha diritto ad ottenere un indennizzo nel caso in cui rinunci a fare causa: in tal modo, sa di essere risarcito senza pesare eccessivamente sui tribunali.

Una soluzione possibile avanzata da d’Ippolito è l’introduzione di provvedimenti nei confronti di chi presenta denunce “temerarie”, ovvero tentativi di risarcimento anche in assenza di errore medico. Per il presidente della commissione, non si può soltanto spingere i tribunali all’archiviazione delle denunce temerarie velocemente, ma anche condannare coloro che le presentano.

In un’intervista al Corriere del Veneto d’Ippolito dice: «Chi presenta accuse clamorosamente infondate nei confronti del medico, dovrà rispondere della temerarietà della propria querela, ad esempio versando una pena pecuniaria».

«Nessuna impunità sarà garantita ai camici bianchi, perché la legge è uguale per tutti. Ma è evidente che questo problema va risolto: quella medica è una professione diversa da gran parte delle altre, sia per la rilevanza che riveste per i cittadini che per la misura con la quale finisce con l’incidere sulle finanze dello Stato», conclude.

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Giustizia: il Papa cambia le norme penali e l’ordinamento giudiziario del Vaticano

Giovedì 13 aprile 2023

Papa Francesco ha deciso di riscrivere le norme che riguardano il processo penale e l’ordinamento giudiziario dello Stato della Città del Vaticano.

Con un Moto Proprio pubblicato mercoledì 12 aprile 2023, il Pontefice ha introdotto delle modifiche riguardo la normativa penale, di fronte al moltiplicarsi di vicende che «richiedono una definizione sollecita e giusta in ambito processuale», che causa «un crescente carico di lavoro per gli organi giudiziari».

Con le modifiche introdotte da Papa Francesco si punta alla semplificazione dei meccanismi, mantenendo e migliorando «la funzionalità del sistema». Tra le varie novità troviamo:

  • un inquadramento preciso delle funzioni requirenti e inquirenti dell’Ufficio del Promotore di Giustizia;
  • possibilità di aggiungere un supplente nel collegio di 3 magistrati, se uno dei membri abbandoni il ruolo;
  • la possibilità che lo stesso Papa nomini un presidente del Tribunale vaticano aggiunto se quello in carica si trova nell’anno delle sue dimissioni;
  • l’abrogazione della presenza “full time” di almeno un giudice all’interno del collegio giudicante.

L’ultima novità è stata introdotta con la Legge CCCLI del 16/03/2020, con la quale il Papa andava a promulgare un ulteriore ordinamento giudiziario. Si sostituisce il primo comma così: «Il potere giudiziario nello Stato della Città del Vaticano è esercitato, a nome del Sommo Pontefice, per le funzioni giudicanti dal tribunale, dalla Corte di appello e dalla Corte di Cassazione; per le funzioni inquirenti e requirenti, dall’Ufficio del Promotore di Giustizia».

Un’ulteriore specifica introdotta dal Motu Proprio fa riferimento al fatto che «i magistrati sono nominati dal Sommo Pontefice e nell’esercizio delle loro funzioni sono soggetti soltanto alla legge». Essi «esercitano i loro poteri con imparzialità, sulla base e nei limiti delle competenze stabilite dalla legge».

Viene abrogato il comma 2 dell’art.6, che stabiliva la presenza full time di uno dei magistrati ordinari «senza avere rapporti di lavoro subordinato né svolgere attività libero-professionali con carattere continuativo». D’ora in poi, tutti potranno assumere ulteriori incarichi, e nessuno dovrà svolgere obbligatoriamente le proprie funzioni a tempo pieno.

Nel comma 3 dell’art.6, invece, era previsto che «il Tribunale giudica in collegio di tre magistrati, designati dal presidente del Tribunale tenendo conto delle loro competenze professionali e della natura del procedimento».

Invece, con il Motu Proprio, il presidente del Tribunale dovrà tenere in considerazione anche «la data di cessazione dei giudici in relazione alla prevedibile durata del processo. Nel rispetto del principio di immutabilità del giudice e per assicurare la ragionevole durata del processo, il presidente può nominare un componente supplente, il quale partecipa ai lavori del collegio e può giudicare nei casi di impedimento o di cessazione dalle funzioni di un magistrato».

Modifiche anche all’articolo 10. Viene aggiunto, infatti, che «il Papa, nel corso dell’Anno giudiziario in cui il presidente è tenuto a rassegnare le dimissioni, può nominare un presidente aggiunto, il quale coadiuva il presidente nell’esercizio delle funzioni», svolgendo «funzioni vicarie» e presiedendo «i collegi nei giudizi di prevedibile durata ultrannuale, subentrando nella carica al momento della cessazione del presidente».

Riguardo il Promotore di Giustizia, viene stabilito che potrà presentare al Tribunale una «richiesta di sentenza di non luogo a procedere» nel caso in cui ritenga che «ricorrano le condizioni per la concessione del perdono giudiziale», oppure se il fatto «possa essere ritenuto di lieve entità in ragione delle modalità della condotta, della personalità dell’imputato, del danno cagionato alla persona offesa o del pericolo causato».

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Riforma Cartabia: il governo cambia la Legge Severino

Martedì 11 aprile 2023

È arrivata una modifica da parte del Ministero dell’Interno: con la Riforma Cartabia viene ufficialmente modificata la legge Severino. Chi in passato ha patteggiato una pena sino a 2 anni, dunque, potrà candidarsi alle elezioni.

In sostanza, chi ha patteggiato una pena sino a 2 anni, evitando in tal modo la condanna definitiva all’interno di un processo ordinario, potrà candidarsi alle prossime elezioni. Questo è quanto stabilito da una recente circolare del ministero dell’Interno, che contiene un parere del Dipartimento per gli Affari interni e per gli Enti locali.

La legge Severino, risalente al 2012 e nata al fine di mettere un freno alle infiltrazioni criminali e alla corruzione, d’ora in poi sarà meno stringente. Tutto questo per un motivo tecnico: la riforma Cartabia, nata con il Governo Draghi, ha stabilito che gli effetti non penali derivanti da una condanna non debbano essere applicati in caso di patteggiamento.

Con la legge Severino, che fu approvata sotto il governo Monti nel 2012, si stabilì che coloro che avevano ricevuto una condanna superiore a 2 anni «per delitti non colposi», non avrebbero potuto candidarsi alle elezioni per 6 anni.

Ma con la Riforma Cartabia, per il governo, coloro che patteggiano non hanno diritto a perdere la possibilità di candidarsi. Leggiamo nel parere come l’incandidabilità «perde i suoi effetti», e quindi i condannati che hanno patteggiato «non incorrono più in una situazione di incandidabilità, potendo così concorrere alle prossime elezioni».

Tale modifica ha valore retroattivo, e per questo potrà essere applicata già dalle prossime elezioni. Ma la modifica riguarda soltanto alcuni casi: per esempio, se il giudice decide di applicare una pena accessoria, quale l’interdizione dai pubblici uffici, resta l’incandidabilità nonostante il patteggiamento.

Si tratta della stessa identica legge che ha condotto, nel 2013, al decadimento di Silvio Berlusconi dalla sua carica di senatore, in quanto condannato a 4 anni per frode fiscale.

Nel passato, anche il Guardasigilli aveva criticato la legge anticorruzione. Nel 2021 aveva sostenuto i referendum della Lega finalizzati alla sua abrogazione, definendola «incostituzionale e inopportuna», dichiarando inoltre che era nata «per ragioni di demagogia politica e nata male come tutte le norme che nascono con questa motivazione».

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Caso Cospito: Nordio non ha intenzione di revocare il 41-bis

Durante la riunione del Consiglio dei ministri di ieri sera, Carlo Nordio, il ministro della Giustizia, ha comunicato la sua posizione ufficiale sul caso Alfredo Cospito. Nordio, infatti, non ha intenzione di revocare il regime 41-bis all’anarchico, attualmente in sciopero della fame da 104 giorni.

È attesa anche una sentenza della Corte di Cassazione, ma non arriverà prima del 7 marzo. Se Cospito non interromperà lo sciopero della fame, probabilmente non sopravvivrà fino a quel giorno.

Durante il suo intervento, Nordio ha «ricordato le ragioni che hanno determinato l’autorità giudiziaria a proporre e confermare il regime detentivo di cui all’articolo 41-bis per Alfredo Cospito».

Inoltre, sottolinea che «la Corte di Cassazione è chiamata a prendere una decisione in merito nel prossimo mese di marzo». Tuttavia, «per la parte di propria competenza, il ministro della Giustizia ritiene di non revocare il regime di cui all’articolo 41-bis».

Nordio ha deciso che è sufficiente l’intervento che ha portato al trasferimento di Cospito al carcere Opera di Milano, dove verrà ricoverato a causa del suo stato compromesso di salute. Il governo Meloni, dunque, è coerente con la sua linea: «Non scendiamo a patti con chi usa la violenza».

Le reti di supporto

Piantedosi, il ministro dell’Interno, ha portato l’attenzione sulla «rete di supporto nei confronti del detenuto», ovvero gruppi di anarchici che nel corso degli ultimi giorni hanno protestato, in Italia ma anche all’estero.

Tale “rete di supporto”, afferma Piantedosi, «si è manifestata in plurimi episodi di atti vandalici o incendiari e in manifestazioni di piazza, anche violente». Per questo si è assistito ad «un innalzamento dell’attenzione e delle misure necessarie» per affrontare eventuali rischi.

Per il ministro degli Esteri Tajani, è necessario il «rafforzamento del sistema difensivo della rete diplomatica italiana all’estero, reso necessario dalle ostilità manifestate nei confronti di sedi di ambasciate e consolati». Ribadisce anche «la volontà di non scendere a patti con chi usa violenza e minaccia come strumento di lotta politica».

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Riccardo Noury, il portavoce di Amnesty International, questa è una posizione sbagliata. «Se si passa dal non ci faremo intimidire al non cederemo di fronte alle minacce si perdono completamente di vista i diritti umani di Alfredo Cospito».

I diritti «non passano in secondo piano, anche nel caso in cui siano rivendicati attraverso azioni come quelle degli ultimi giorni, che sono da condannare. Queste azioni possono indebolire le campagne, ma non i diritti», conclude Noury.

Le condanne di Cospito

Cospito ha 55 anni, e fa parte della Fai-Fri, ovvero la Federazione anarchica informale – Fronte rivoluzionario internazionale.

La sigla è identica a quella della Federazione anarchica italiana; tuttavia, quest’ultima condanna la violenza indiscriminata in quanto metodo di lotta, mentre la Federazione anarchica informale è a favore della lotta armata contro lo Stato.

Nel 2013 Cospito ha ricevuto una condanna di dieci anni e otto mesi per aver ferito, con colpi di pistola alle gambe Roberto Adinolfi, dirigente dell’Ansaldo.

Era già in carcere quando fu accusato di aver posizionato, nel 2006, due pacchi bomba davanti ad una scuola dei carabinieri in provincia di Cuneo. L’esplosione non causò feriti o morti. Per tale attentato ricevette una condanna di 20 anni di carcere, e fu inserito in un circuito penitenziario ad alta sicurezza.

Il 41-bis

Nel 2022, dopo sei anni di carcere, il ministero della Giustizia ha preso la decisione di sottoporlo al 41-bis. Per il suo avvocato la decisione è stata presa «senza che fosse intervenuto alcun fatto nuovo».

Per il ministero della Giustizia, invece, Cospito doveva essere sottoposto necessariamente al 41 bis, visti i «numerosi messaggi che, durante lo stato di detenzione, ha inviato a destinatari all’esterno del sistema carcerario; si tratta di documenti destinati ai propri compagni anarchici, invitati esplicitamente a continuare la lotta, particolarmente con i mezzi violenti ritenuti più efficaci».

Cospito ha intrapreso lo sciopero della fame anche perché esiste la possibilità che la sua pena venga trasformata in ergastolo ostativo. Infatti, l’anarchico è stato condannato a 20 anni di carcere per strage comune, ma la Corte di cassazione ha ritenuto che il reato in questione riguardava la strage politica (art. 285 del Codice Penale).

La strage politica è più grave, prevede l’ergastolo ed è anche un reato ostativo. L’avvocato Flavio Rossi Albertini ricorda che per le stragi di Capaci e di via D’Amelio e per la strage di Bologna venne applicato l’art 422, ovvero strage comune.

Per l’avvocato, dunque, non è adeguato ritenere Cospito responsabile di atti più gravi rispetto a stragi mafiose e terroristiche, come quella alla stazione di Bologna che provocò 85 morti.


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Praticanti Avvocati: sì all’iscrizione all’albo con procedimento penale pendente

La pendenza di un procedimento penale non ostacola l’iscrizione all’albo dei praticanti. Soprattutto se i fatti sono risalenti nel tempo, e l’intero procedimento fatica ad arrivare ad una conclusione.

Questo è quanto stabilito lo scorso 30 settembre dal CNF con la sentenza n. 157. A rigore, nemmeno una condanna penale comporta l’automatica inibizione dell’iscrizione all’Albo.

Il Collegio ha, dunque, accolto il ricorso di un aspirante legale contro la decisione del Coa di Roma, quando nel febbraio 2021 aveva rigettato l’istanza di iscrizione.

11 anni fa, quando si stava per laureare in giurisprudenza, l’aspirante legale frequentava lo studio di un avvocato specializzato in sinistri stradali e infortunistica. L’avvocato, un amico di famiglia, gli propose «di partecipare ai suoi affari, anticipando capitali e prospettando futuri guadagni».

Le vittime degli incidenti, tuttavia, si resero conto delle discrepanze tra le somme versate secondo gli accordi sottoscritti e le somme che invece venivano erogate dalle compagnie assicurative. Per questo, avviarono un procedimento penale.

Il CNF, nell’accogliere il ricorso, afferma che «non vi sono elementi tali da valutare, con disvalore, la condotta complessiva del richiedente negli anni successivi all’episodio di cui al procedimento penale (tuttora) pendente».

L’ordinamento professionale forense «non prevede una autonoma inibizione dell’iscrizione nei confronti di coloro che abbiano un procedimento penale in corso. Tanto più quando si tratta di episodi risalenti nel tempo».

Un’interpretazione rispettosa dell’art.27 della nostra Costituzione e dell’articolo 17 del Rdl n. 578/1933 «non può che consentire al soggetto richiedente la possibilità di dimostrare, nel corso della pratica forense, che egli è in possesso delle qualità necessarie per esercitare con decoro la professione».

Conseguentemente, «la valutazione del requisito della condotta irreprensibile, necessario ai fini dell’iscrizione all’albo avvocati e al registro dei praticanti, doveva essere compiuta dal C.O.A. in modo autonomo ed indipendente anche rispetto all’esito dell’eventuale procedimento penale che possa aver coinvolto l’interessato».

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Avvocato, utilizzi l’intuito o la ragione?

Avvocato, sai cos’è il gaslighting?

Il gaslighting è una tecnica con cui un soggetto (o un gruppo di persone) cerca di avere maggior potere. Per esercitarlo sceglie una vittima, per manipolarla e portarla a dubitare della realtà.

E’ una tecnica lenta, tant’è che la vittima non si rende conto di vivere un lavaggio del cervello. Il termine prende spunto dal film Gaslight, dove un uomo manipola tantissimo la moglie, al punto da spingerla a credere di essere impazzita.

I soggetti che utilizzano tale tecnica manipolatoria distorcono in modo volontario le informazioni per cercare di affermarsi e per mettere in discussione la salute mentale e l’autostima della vittima.

La violenza psicologica e il gaslighting non corrispondono, in sé, a dei reati, ma sono collegati ad alcune forme di reato, come maltrattamenti familiari, stalking, minaccia e violenza privata. Impariamo a riconoscerlo per aiutare i nostri clienti e noi stessi.

Manipolatori patologici

Ci sono molti libri che forniscono le basi per conquistare la fiducia delle altre persone, costruire nuove relazioni, convincere gli altri a pensarla come te, aumentare la popolarità, rendere più gradevoli i rapporti sociali e aumentare il proprio potere di persuasione.

C’è una differenza, ovviamente, tra chi legge questi libri e un manipolatore patologico. Dunque, per proteggersi è sempre bene conoscere le varie tecniche adottate da un gaslighter. Qualcuno potrebbe anche non farlo consapevolmente, approfittando dei benefici che si ottengono nel momento in cui la vittima diviene dipendente da lui.

Se il gaslighter non è consapevole di esserlo, nessuna delle sue azioni può essere giustificata in alcun modo. Per prima cosa, è opportuno interrompere qualsiasi comunicazione con lui.

Chi è il gaslighter

Il gaslighter è un manipolatore, un narcisista. È una persona intuitiva, calcolatrice, che legge in anticipo le mosse delle sue vittime, che vuole annientare in tutti i modi creando un rapporto di assoluta dipendenza.

Indossa sempre una maschera, facendo credere a tutti di essere lui la vera vittima del mondo. Vive in un perenne stato di recitazione, dove non rivela mai il suo vero sé. A causa della sua auto-alienazione, il gaslighter non è più capace di provare interesse o empatia verso gli altri. Nessuno lo può salvare, se non sé stesso.

Alcuni esempi

Un esempio potrebbe essere il rapporto tra un genitore iperprotettivo o autoritario e il figlio. Il genitore, in questo caso, non consente al figlio di sviluppare a pieno la sua personalità, utilizzando diverse tecniche, tra cui il senso di colpa, l’eccessiva protezione e la deresponsabilizzazione.

In questi casi i genitori lasciano i figli in un limbo, dove non ci sono responsabilità e dove vivono in maniera subordinata rispetto al genitore. Il rapporto con il genitore si basa sulla paura e sul senso di colpa, e non sull’educazione e sull’amore.

Il gaslighting può caratterizzare altre tipologie di relazione, come amore e amicizia, generando un rapporto di dipendenza che esclude l’affetto.

I campanelli d’allarme

Ci sono dei campanelli d’allarme per riconoscere questi manipolatori patologici:

  • utilizzano costantemente piccole bugie, primo indizio di una relazione non sana, tossica. Spesso, anche se le riconosciamo, non diamo loro il giusto peso;
  • un gaslighter nega sempre l’evidenza, anche quando la vittima è la vera vittima, oppure cerca di cambiare versione dei fatti per instillare il dubbio;
  • il manipolatore è una persona molto gelosa, che non concede all’altra persona di vivere la propria vita. Ma quando riguarda se stesso, si concede tutte le libertà del mondo.

Le tappe del gaslighting

Affinché il processo di manipolazione sia funzionale, il gaslighter conduce la vittima attraverso 3 fasi:

  • durante la prima fase la comunicazione passa attraverso una fase di distorsione, al fine di confondere la vittima andando ad alternare momenti positivi e momenti negativi. In una relazione amorosa, il gaslighter all’inizio sarà innamorato e affascinante, portando l’altra persona a vivere situazioni fantastiche, condite, però, da silenzi ostili o da dialoghi destabilizzanti. In questo modo la vittima sarà profondamente disorientata;
  • la seconda fase è quella della difesa, dove la vittima è tutto sommato lucida e non ancora abbastanza sottomessa per capire che c’è qualcosa che non quadra. Tuttavia la confusione che è stata instillata dal manipolatore è tale che la vittima sentirà di dover portare a termine una missione, quella di provare a cambiare il carnefice. Ovviamente, la missione fallisce, e la vittima cade ufficialmente nella trappola del manipolatore;
  • l’ultima fase, invece, è quella della depressione. Qui il manipolatore controlla completamente la vittima, credendo che tutto ciò che dice l’abusante sia vero, piegandosi alla volontà dell’altro.

Dopo di che, la manipolazione raggiunge il suo apice. La violenza, che sia fisica e/o psicologica, diviene cronica, tant’è che la vittima vede il gaslighter come un salvatore.

Altri esempi

  • È utilizzato spesso dalle persone sociopatiche, dato che dispongono di ben poca empatia e sono abili nel raccontare bugie;
  • Viene utilizzato dai mariti violenti che lo utilizzano contro le mogli per nascondere violenze e abusi;
  • Capita che, in alcuni casi di adulterio, il manipolatore utilizza questa tecnica per portare l’altra persona ad un crollo emotivo, talvolta sino al suicidio;
  • Un esempio famoso è quello della famiglia Manson, che entrava nelle case senza rubare, ma lasciando tracce del loro passaggio al fine di seminare inquietudine.

Per concludere

Se si sente la necessità di registrare le conversazioni e gli eventi che accadono per essere sicuri di non essersi inventati le cose è un chiaro sintomo di essere vittima di gaslighting. Si potrebbe provare confusione, sentirsi privi di valore, stanchezza, vergogna, dipendenza, idealizzazione, ansia, isolamento, depressione e trauma psicologico.

È sempre bene chiedere aiuto, a persone amiche o a professionisti. Tuttavia, dato che tale tecnica potrebbe distruggere completamente la percezione della realtà, dovremmo pensare a raccogliere delle prove per sentirci più sicuri: teniamo un diario, registriamo le conversazioni e facciamo fotografie.

Per difendersi e ricostruire la propria identità potrebbe volerci del tempo. Ricordiamoci, però, che non siamo mai responsabili del comportamento abusivo di un gaslighter. Impariamo a riconoscere e ad ascoltare di nuovo i nostri pensieri e i nostri sentimenti, e creiamo un percorso di recupero dal trauma.

Infine, ricostruiamo le relazioni con gli amici e la famiglia.

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