Separazione delle carriere, iter veloce e “canguro”: la riforma verso il referendum

Procede a ritmo sostenuto l’iter parlamentare della riforma costituzionale che introduce la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Approvata dal Consiglio dei ministri a fine maggio 2024, la proposta ha attraversato rapidamente le prime tappe alla Camera, per poi approdare in Senato a gennaio 2025, mantenendo inalterato il testo originario.

Il provvedimento, indicato dal governo tra le priorità di legislatura, ha seguito un percorso caratterizzato da tempi accelerati e da una serie di scelte procedurali non comuni per una revisione della Carta. Tra queste, l’applicazione del cosiddetto “canguro” in commissione, una tecnica regolamentare che consente di far decadere numerosi emendamenti attraverso l’approvazione di uno solo di essi, e l’invio del testo in Aula senza relatore, nonostante i lavori in commissione non fossero ancora completati.

Rispetto alla media di circa 356 giorni necessari per approvare una legge ordinaria, le prime due letture di questa riforma si sono concluse in tempi più brevi. L’obiettivo è concludere l’intero iter entro ottobre 2025, così da consentire, come previsto dalla procedura costituzionale, il ricorso al referendum confermativo privo di quorum nel 2026.

Il passaggio alla Camera e al Senato avviene in copia conforme: il testo approvato in una Camera non può essere modificato nell’altra. Un’impostazione che punta a garantire celerità, ma che ha limitato la possibilità di intervento da parte delle forze politiche, sia di opposizione sia di maggioranza.

Parallelamente all’iter parlamentare, il dibattito pubblico e istituzionale intorno alla riforma rimane acceso. In particolare, il Consiglio Superiore della Magistratura e le associazioni di magistrati hanno espresso osservazioni sul possibile impatto del provvedimento sull’assetto ordinamentale della giustizia.

Il calendario dei lavori parlamentari prevede che la riforma possa concludere il proprio percorso di approvazione entro la fine dell’anno. In questo caso, il referendum confermativo potrebbe essere calendarizzato per il 2026, aprendo così la strada a un’importante consultazione popolare in vista della successiva scadenza elettorale politica.


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Digitale, il mercato cresce ma mancano le competenze: Italia a rischio frenata

Il mercato digitale italiano continua la sua corsa, ma la carenza di competenze rischia di diventare il vero freno alla trasformazione tecnologica del Paese. Secondo i dati contenuti nel Libro Bianco sull’evoluzione del lavoro nell’era dell’Intelligenza Artificiale, presentato da Assinter Italia, il valore del comparto digitale ha toccato quota 39,3 miliardi di euro nel 2024, con una crescita del 2,9% rispetto all’anno precedente. A trainare il settore sono stati in particolare Intelligenza Artificiale, Cloud Computing e Cybersecurity.

La diffusione dell’IA è in rapido aumento: oggi è adottata dal 32,5% delle grandi imprese, dal 14% di quelle medio-piccole (50-99 addetti) e dall’8,2% delle aziende con almeno dieci dipendenti. Anche le misure di sicurezza informatica risultano in forte crescita, con il 75,9% delle aziende dotate di almeno dieci addetti che hanno implementato sistemi di protezione dei dati.

Ma accanto a questa espansione tecnologica, emerge con forza il problema di una forza lavoro non adeguatamente formata. Solo il 46% degli italiani in età lavorativa possiede competenze digitali di base e appena il 22% raggiunge livelli avanzati, in settori chiave come IA, cybersecurity e cloud computing.

Un dato significativo riguarda il numero di professionisti italiani che hanno inserito competenze in Intelligenza Artificiale sui propri profili LinkedIn, cresciuto di 17 volte dal 2016, a fronte di un incremento del 415% nelle assunzioni in ambito AI nello stesso periodo. Tuttavia, la formazione specializzata non tiene il passo: i laureati ICT rappresentano appena il 6% del totale, e soltanto il 16% dei corsi di laurea attivati per l’anno accademico 2024/2025 è dedicato a materie digitali.

Le imprese sono alla ricerca di circa 920mila professionisti digitali, di cui il 67% con profili altamente specializzati: analisti software, ingegneri informatici, data scientist, progettisti di sistemi e tecnici della sicurezza informatica. La domanda riguarda anche chi sappia abilitare nuove tecnologie come cloud, big data analytics, Internet of Things e software per la gestione dei dati aziendali.

A complicare il quadro contribuisce il declino demografico, che riduce la disponibilità di forza lavoro qualificata mentre la richiesta di competenze digitali continua a salire. Particolarmente critica è la situazione nell’IT & Data Management, dove il numero di giovani che scelgono percorsi Stem (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) è troppo basso. L’Italia, infatti, è fanalino di coda in Europa per iscritti a corsi ICT in rapporto alla popolazione.

Secondo l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, il 78% delle aziende fatica a trovare nuovo personale, e il 45% denuncia maggiori difficoltà rispetto al passato. Le cause principali sono la carenza di competenze tecniche (57%), di soft skill (29%) e la discrepanza tra le condizioni offerte dalle aziende e le aspettative dei candidati.

La risposta a questo scenario richiede un piano nazionale di reskilling e upskilling, sottolineano gli autori del Libro Bianco. L’obiettivo è colmare il divario con percorsi di formazione continua accessibili e personalizzati, sostenuti da partnership tra pubblico e privato. Accanto ai percorsi universitari e agli ITS Academy, che comunque registrano una lenta crescita, è fondamentale coinvolgere soggetti privati della formazione digitale, capaci di offrire soluzioni rapide e su misura per le esigenze del mercato.

Oltre alle competenze tecnologiche avanzate, la trasformazione digitale valorizza anche le capacità umane: pensiero critico, problem solving, adattabilità e collaborazione interfunzionale saranno sempre più determinanti nei contesti lavorativi guidati dall’Intelligenza Artificiale.

Per affrontare la sfida e governare la transizione digitale, gli esperti indicano come essenziale un approccio integrato: politiche pubbliche mirate, investimenti aziendali nella formazione continua e un sistema educativo flessibile e aggiornato. Solo così sarà possibile trasformare il potenziale di crescita del digitale in una reale opportunità occupazionale e di sviluppo per il Paese.


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ROMA, 8 luglio – “I dati del Rapporto dell’Unione europea sullo Stato di diritto smentiscono plasticamente le argomentazioni da cui nasce la riforma costituzionale in corso d’esame al Senato. I magistrati italiani, come dimostrano peraltro i dati resi noti oggi, sono autonomi e indipendenti, ed è proprio la riforma Nordio invece a mettere a rischio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”. Così la Giunta esecutiva centrale dell’Anm.
“Mentre il governo impegna le proprie energie su una riforma costituzionale che nulla ha a che fare con l’efficienza della giustizia, l’Italia rischia di perdere le risorse del Pnrr a causa dei mancati investimenti per ridurre la durata dei processi civili. E questo nonostante l’enorme sforzo dei giudici italiani a cui non vengono date le risorse sufficienti per fare il proprio lavoro”, conclude la nota.


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Marketing invisibile, il futuro è qui: come farsi scegliere dalle intelligenze artificiali

C’era una volta il clic. Oggi, invece, le scelte degli utenti avvengono sempre più spesso senza aprire alcun sito, senza visualizzare pagine, senza passare per il classico funnel di conversione. È l’intelligenza artificiale a rispondere direttamente alle domande, selezionando contenuti, interpretandoli e restituendoli in forma sintetica, immediata e spesso invisibile agli occhi dei vecchi sistemi di misurazione del traffico online. Un cambio di paradigma che impone ai brand di ridefinire il concetto stesso di presenza digitale.

Secondo il report “Goodbye Clicks, Hello AI: Zero-Click Search Redefines Marketing”, l’80% degli utenti utilizza regolarmente riepiloghi generati dall’IA per almeno il 40% delle proprie ricerche. E in 6 casi su 10 la ricerca si conclude senza che venga cliccato nulla.

Il funnel è superato: conta solo la risposta
Per decenni il marketing digitale ha ruotato intorno alla SEO, puntando a conquistare la vetta dei risultati di Google per generare traffico e conversioni. Ora, però, quel modello sta cedendo il passo a un sistema in cui le informazioni sono elaborate direttamente dai modelli linguistici generativi, che offrono agli utenti risposte immediate attingendo a molteplici fonti.

Questo significa che i contenuti dei brand devono essere costruiti non solo per le persone, ma soprattutto per le intelligenze artificiali, che decidono cosa mostrare, come riassumerlo e con quale tono restituirlo. Il sito web, una volta fulcro della strategia digitale, diventa una fonte secondaria rispetto al contesto in cui l’IA interpreta e seleziona le informazioni.

Le tre regole per farsi “scegliere” dall’IA
La buona notizia è che esistono strategie concrete per restare visibili e influenti in questo nuovo scenario:

  1. Scrivere per l’intelligenza artificiale: i contenuti devono essere chiari, ben strutturati, ricchi di domande frequenti e coerenti con le intenzioni di ricerca degli utenti, facilitando il lavoro dei modelli generativi.
  2. Diversificare i formati: non basta più il testo. Video, podcast, immagini, infografiche e contenuti interattivi aumentano le possibilità di essere rilevati e utilizzati dall’IA nei suoi output.
  3. Ripensare le metriche: contano sempre meno clic e visualizzazioni. Il vero valore sta nella presenza nei risultati generati dalle IA, nella capacità di incidere sulle conversazioni digitali e nell’influenza esercitata sul percorso decisionale degli utenti.

Da SEO a TX: il marketing diventa conversazionale e adattivo
Se fino a ieri bastava parlare di User Experience, oggi la sfida si chiama Total Experience (TX), un approccio integrato che tiene conto dell’esperienza di clienti, dipendenti, utenti e dei touchpoint digitali e conversazionali. In un contesto in cui ogni assistente vocale, chatbot o smartwatch può diventare il primo contatto tra utente e brand, l’esperienza deve essere coerente, fluida e personalizzata su ogni canale.

Si afferma così il concetto di Multiexperience (MX): un ecosistema in cui interazioni su web, app, chatbot, voce e realtà aumentata si intrecciano, gestite da interfacce intelligenti e adattive. L’obiettivo non è più “esserci” ovunque, ma dialogare nel modo giusto con le intelligenze artificiali che fanno da filtro e interpreti tra brand e pubblico.

Il marketing del futuro parla AI
In questo scenario, l’intelligenza artificiale non è più uno strumento, ma un nuovo interlocutore da conquistare. Le aziende devono ripensare il modo di progettare contenuti e relazioni digitali: non più solo per le persone, ma anche per le macchine che le consigliano e le influenzano ogni giorno.

È il tempo del marketing invisibile, dove a fare la differenza non sono i clic, ma la capacità di essere compresi, selezionati e raccontati dalle AI.


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Reati sessuali su minori, per l’avvocato scatta anche la sanzione disciplinare

ROMA — La violazione della legge penale da parte di un avvocato, specie se legata a reati sessuali su minori, non produce solo conseguenze giudiziarie, ma assume anche rilievo disciplinare, incidendo direttamente sulla sua permanenza all’interno della comunità forense. Lo ha ribadito il Consiglio Nazionale Forense con la sentenza n. 485 del 31 dicembre 2024, rigettando il ricorso di un legale condannato in via definitiva per prostituzione minorile e detenzione di materiale pedopornografico.

Dignità e decoro oltre il processo penale
Nel motivare la propria decisione, il CNF ha chiarito che il comportamento dell’avvocato non costituisce soltanto un illecito penale, ma integra anche una violazione grave dei principi etici che regolano la professione forense, così come sancito dall’articolo 9 del Codice Deontologico Forense.

“Chi esercita la professione forense — sottolinea il CNF — è tenuto a rispettare i valori di dignità, probità e decoro non solo nell’attività professionale, ma anche nella vita privata e sociale.” La condotta tenuta dall’incolpato è risultata lesiva non solo dell’affidamento che la collettività ripone nella categoria, ma anche del patrimonio morale e valoriale dell’intera avvocatura.

Il principio affermato nella sentenza
Secondo il CNF, infatti, qualunque comportamento contrario ai principi di lealtà e correttezza — tanto nell’ambito dell’esercizio della professione quanto nella vita personale — incide sull’immagine pubblica dell’avvocato e sulla fiducia che i cittadini devono poter riporre nella categoria. Ecco perché, rilevata l’estrema gravità delle condotte e il disvalore sociale dei reati commessi, la sospensione di tre anni dall’esercizio della professione è stata ritenuta pienamente proporzionata.

Nessuna attenuante possibile
Nel respingere il ricorso, il CNF ha escluso che potessero trovare applicazione attenuanti o riduzioni di pena disciplinare, sottolineando come il coinvolgimento di una minore e la reiterazione delle condotte rendessero inconciliabile la prosecuzione, anche temporanea, dell’attività forense del soggetto.


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Cassazione: impugnazione inammissibile se inviata alla Pec sbagliata

In tema di impugnazioni penali trasmesse per via telematica, la Corte di Cassazione conferma una linea di assoluto rigore. Con la recente sentenza n. 24604/2025, destinata al Massimario, i giudici supremi hanno ribadito che è inammissibile l’appello depositato tramite posta elettronica certificata (Pec) se inviato a un indirizzo diverso da quello indicato nel provvedimento del Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati (Dgsia), come previsto dall’art. 87-bis, comma 1, del Dlgs 150/2022.

Il caso e la decisione della Corte
La vicenda prende le mosse dal Tribunale di Palermo, che ha dichiarato inammissibile un atto d’appello trasmesso via Pec l’ultimo giorno utile, ma non indirizzato alla casella ufficiale per il deposito delle impugnazioni, specificata nel provvedimento diramato dalla Dgsia e pubblicato sul Portale dei Servizi Telematici del Ministero della Giustizia.

Il difensore aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della norma, lamentando una presunta violazione dei diritti di difesa e dei principi del giusto processo. La Corte di Cassazione ha però respinto l’eccezione, giudicandola manifestamente infondata.

Perché la Cassazione ha detto no
Secondo la Suprema Corte, la disciplina sul deposito telematico in materia penale, così come definita dall’art. 87-bis Dlgs 150/2022 (introdotto dall’art. 5-quinquies della legge 199/2022), prevede espressamente specifiche ipotesi di inammissibilità. Tra queste, il caso in cui l’atto sia trasmesso a un indirizzo Pec non riferibile all’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato, secondo quanto stabilito dal Dgsia.

Tale previsione — spiega la sentenza — non confligge con i principi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) né con quelli costituzionali, poiché risponde a finalità di certezza, efficienza e semplificazione dell’attività giudiziaria, garantendo una rapida gestione dei flussi in ingresso presso le cancellerie.

Un’esigenza di efficienza e tutela del giusto processo
La ratio della norma è chiara: evitare disguidi e ritardi nell’incardinamento degli atti giudiziari, consentendo ai cittadini e ai difensori di avere la certezza che i propri atti arrivino correttamente a destinazione e siano tempestivamente lavorati dagli uffici competenti.

Il sistema del deposito telematico, sebbene ancora in regime transitorio, prevede modalità precise, il cui rispetto è condizione essenziale per la validità dell’impugnazione. E se è vero — osservano i giudici di legittimità — che la giurisprudenza europea stigmatizza formalismi eccessivi, è altrettanto vero che una regola chiara sugli indirizzi Pec consente di tutelare tanto il buon andamento della giustizia quanto il diritto delle parti a un processo rapido e ordinato.

Nessuno spazio per il “raggiungimento dello scopo” fuori legge
Infine, la Corte ha escluso che possa trovare applicazione il cosiddetto favor impugnationis, ovvero la possibilità di considerare ammissibile un atto che, pur trasmesso in modo irregolare, abbia comunque raggiunto il suo scopo. Richiamando l’orientamento delle Sezioni Unite, la sentenza precisa che tale principio non può autorizzare forme di deposito alternative rispetto a quelle previste dal legislatore.


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Pubblica amministrazione, via al maxi-reclutamento “giovane”: 91mila nuovi ingressi e stop agli over 67

ROMA — Una Pubblica amministrazione più giovane, digitale e orientata al merito. È questa la direzione impressa dal Governo alla macchina dello Stato, che nei primi sei mesi del 2025 ha pubblicato ben 9.000 bandi di concorso per l’assunzione di 91mila nuovi dipendenti pubblici. Una cifra destinata a far lievitare il numero complessivo di assunzioni nel triennio 2023-2025 a quota mezzo milione.

Una massiccia campagna di reclutamento che guarda in modo dichiarato ai giovani, preferibilmente under 40, con competenze specifiche nell’intelligenza artificiale e capacità di lavorare per obiettivi. Requisiti ormai imprescindibili in un’amministrazione che punta a trasformarsi attraverso la digitalizzazione e i nuovi modelli organizzativi previsti dalla riforma del merito promossa da Palazzo Vidoni.

Giovani al centro, meno spazio agli ultra-sessantasettenni
Parallelamente, molte amministrazioni centrali stanno ridimensionando la possibilità per i dipendenti più anziani di restare in servizio fino ai 70 anni, opzione che la legge di Bilancio per il 2025 consente, ma entro il limite massimo del 10% delle facoltà assunzionali e solo con performance eccellenti.

L’obiettivo è duplice: da una parte tamponare temporanee carenze di organico, dall’altra affiancare ai neoassunti figure esperte in grado di trasmettere competenze e know-how, ma solo laddove davvero necessario. Un cambio di passo netto rispetto al passato, dove le proroghe di servizio erano più frequenti.

Il Ministero della Giustizia, ad esempio, ha deciso di autorizzare il trattenimento in servizio soltanto in uffici con gravi carenze e solo per funzioni non altrimenti copribili, riducendo la proroga a un solo anno — fino a 68 anni — in vista delle nuove assunzioni già programmate dal 2026.

La tendenza coinvolge anche altri dicasteri:

  • Il Ministero dell’Agricoltura ha escluso del tutto la possibilità di trattenere personale oltre i limiti di età.

  • Ministero dell’Interno e Ministero dell’Università e della Ricerca non prevedono alcuna proroga per dirigenti e funzionari oltre i 67 anni.

  • L’Inps ha fissato al 2% il tetto massimo di trattenimenti, riservandolo solo alle elevate professionalità e per un periodo limitato.

Una PA con età media di 50 anni
Oggi il personale della Pubblica amministrazione ha un’età media di oltre 50 anni e solo il 5% degli statali ha meno di 30 anni. I numeri delle nuove assunzioni sono destinati a cambiare questo scenario, anche grazie alla forte adesione dei giovani ai concorsi pubblici: sul portale “inPA” sono registrati circa due milioni di candidati, oltre la metà under 40.

Le previsioni parlano chiaro: entro il 2025, con le nuove immissioni in ruolo, il totale delle assunzioni nel pubblico impiego raggiungerà quota 500mila unità.

Tutor esperti accanto ai nuovi assunti
La manovra autorizza comunque le amministrazioni a trattenere in servizio dipendenti con valutazione di performance ottima o eccellente, ma solo con il consenso degli interessati e per esigenze specifiche di tutoraggio o copertura di attività insostituibili.


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Tentato matricidio, niente carcere preventivo per il minore senza esame del contesto familiare

Anche nei casi più drammatici, il diritto penale minorile resta improntato alla finalità rieducativa e alla tutela del recupero. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24512/2025, intervenendo sul delicato caso di un minorenne accusato di tentato matricidio all’interno di una comunità di assistenza sociale.

La Suprema Corte ha censurato la decisione del giudice cautelare che aveva disposto la custodia preventiva in carcere senza aver svolto un adeguato approfondimento del contesto familiare e socio-ambientale in cui il reato era maturato. La Corte ha ricordato che la valutazione della misura cautelare per i minorenni deve fondarsi non solo sulla gravità del fatto e sulla pericolosità sociale attuale, ma anche sulle prospettive di recupero e sulla possibilità di misure meno afflittive, come la detenzione domiciliare presso familiari idonei.

Nel caso concreto, il giovane aveva agito in un contesto familiare compromesso: entrambi i genitori erano stati privati della potestà genitoriale e la madre, vittima del tentato omicidio, era stata responsabile di maltrattamenti continuati ai danni del figlio e degli altri due fratelli, anch’essi ospitati nella stessa comunità. Il ragazzo nutriva rancore verso la madre, ritenendola responsabile anche dell’allontanamento dal padre, situazione che aveva generato un forte disagio emotivo e relazionale.

Secondo la Cassazione, queste circostanze avrebbero potuto incidere sulla valutazione della pericolosità attuale del minore, considerato che la violenza era maturata all’interno di un ambito familiare disfunzionale, ormai superato, e non necessariamente replicabile in altro ambiente.

Errore del giudice di merito, ha osservato la Suprema Corte, non aver preso in adeguata considerazione l’offerta avanzata da alcuni parenti disponibili ad accogliere il minore in casa, e non aver verificato se tale soluzione potesse garantire le esigenze cautelari attraverso una detenzione domiciliare.

La sentenza ribadisce un principio fondamentale: ogni misura cautelare, specie se limitativa della libertà personale, deve essere proporzionata al rischio concreto e attuale e non può essere più gravosa del necessario. Nel caso dei minori, ciò significa tener conto in modo prioritario delle possibilità di recupero e reinserimento sociale, anche attraverso il coinvolgimento di parenti o strutture idonee alternative al carcere.

Per questo motivo, la Cassazione ha disposto il rinvio al giudice cautelare per una nuova valutazione, invitando a considerare attentamente la proposta di accoglienza familiare e a motivare in modo puntuale sull’impossibilità, ove sussistente, di applicare una misura meno afflittiva rispetto alla detenzione.


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Abuso d’ufficio, la Consulta dà il via libera all’abrogazione: nessun vincolo dalle convenzioni internazionali

È legittima l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. A sancirlo, in via definitiva, è la Corte costituzionale, che con la sentenza n. 95/2025, depositata il 3 luglio 2025, ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate da ben quattordici giudici italiani, tra cui la Corte di cassazione. Il cuore del dibattito ruotava attorno alla compatibilità della cancellazione del delitto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, in particolare quelli derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione — nota come Convenzione di Mérida.

La Corte ha chiarito che l’obbligo di utilizzare la lingua italiana negli atti processuali, previsto dall’articolo 122 c.p.c., non riguarda gli atti prodromici al processo — come le procure alle liti — e ha sottolineato come nessuna norma della Convenzione di Mérida imponga agli Stati firmatari di tipizzare espressamente l’abuso d’ufficio come reato nel proprio ordinamento penale. La stessa convenzione, infatti, prevede solo obblighi generali di prevenzione e repressione della corruzione, lasciando ampia discrezionalità agli Stati sulle specifiche figure di reato da configurare.

Ammissibili, invece, sono state considerate le questioni proposte dai giudici rimettenti in riferimento all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, che vincola il legislatore nazionale al rispetto degli obblighi internazionali. Ma, entrando nel merito, la Corte ha escluso che l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio rappresenti una violazione di tali obblighi, poiché né la Convenzione di Mérida né altri trattati ratificati dall’Italia impongono l’obbligo di configurare come reato simili condotte.

Rigettate anche le censure fondate sugli articoli 3 e 97 della Costituzione, con cui i giudici rimettenti denunciavano un presunto squilibrio nella tutela penale e un vuoto normativo nella protezione dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione. In linea con una consolidata giurisprudenza, la Consulta ha ribadito l’inammissibilità di questioni volte a ottenere un intervento “in malam partem”, ossia a espandere la punibilità, ricordando che la materia penale è riservata alla discrezionalità del legislatore.

Nelle motivazioni, la Corte ha inoltre evidenziato come valutare se i vuoti di tutela lasciati dall’abrogazione siano bilanciati dai benefici della riforma sia una questione di esclusiva responsabilità politica del legislatore, non sottoponibile al sindacato di legittimità costituzionale, se non in presenza di specifiche violazioni di norme costituzionali o obblighi internazionali, che nel caso di specie non sono state ravvisate.

Con questa pronuncia, la Consulta chiude così uno dei capitoli più controversi della recente riforma della giustizia penale varata con la legge n. 114 del 2024, confermando che la scelta di eliminare l’abuso d’ufficio dall’ordinamento resta legittima sul piano costituzionale e internazionale, e ribadendo il limite invalicabile tra il controllo di costituzionalità e la funzione legislativa.

Resta ora alla politica — come la stessa Corte sottolinea — il compito di valutare se, e come, garantire in modo diverso la tutela penale dell’imparzialità e del buon andamento amministrativo senza ricorrere a fattispecie vaghe o di difficile applicazione.


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Procura alle liti in lingua straniera? È valida: lo chiariscono le Sezioni Unite civili

Un importante chiarimento in materia di diritto processuale civile arriva dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che con la recente sentenza n. 17876/2025 hanno definito i confini applicativi dell’obbligo di utilizzare la lingua italiana nei procedimenti giudiziari.

La questione riguardava la validità di una procura speciale alle liti rilasciata all’estero, redatta in lingua straniera e priva di traduzione ufficiale. A sollevare l’eccezione di nullità era stata un’erede nel contesto di un procedimento successorio, contestando la validità della procura conferita da un altro partecipante alla lite, autenticata da un notaio della Florida.

Le Sezioni Unite hanno stabilito che l’obbligo dell’uso della lingua italiana sancito dall’articolo 122 del Codice di procedura civile si riferisce esclusivamente agli atti processuali propriamente detti, ovvero quelli formati nel e per il processo. Gli atti prodromici, come la procura alle liti o la nomina dei rappresentanti processuali, non sono soggetti a tale vincolo.

La Corte ha sottolineato come imporre la traduzione in lingua italiana di una procura rilasciata all’estero — in assenza di una specifica previsione normativa — costituirebbe un ostacolo ingiustificato al diritto di agire in giudizio, in violazione del principio di tassatività delle cause di nullità previsto dall’art. 156 c.p.c. e delle garanzie di accesso alla giustizia.

Secondo il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte, quindi, la traduzione della procura e dell’atto di certificazione non costituisce requisito di validità, sia che si tratti di legalizzazione, sia in base alle Convenzioni internazionali di L’Aja (1961) e di Bruxelles (1987).

A disciplinare la questione resta l’art. 123 c.p.c., che prevede la facoltà per il giudice di disporre la nomina di un traduttore giurato nel caso in cui occorra esaminare documenti redatti in lingua straniera. Tale facoltà non è obbligo: il giudice può evitare di ricorrervi se è in grado di comprendere il documento o se non vi sono contestazioni sul suo contenuto o sulla traduzione allegata dalla parte.

La decisione della Corte rappresenta un approdo interpretativo coerente con i principi di efficienza del processo e di garanzia dell’effettivo esercizio del diritto di difesa. Una lettura moderna delle regole procedurali, attenta a evitare formalismi privi di reale tutela e in linea con l’esigenza di fluidità nei rapporti processuali transnazionali.

In conclusione, le Sezioni Unite hanno precisato che:

«In materia di atti prodromici al processo, quale la procura speciale alle liti, la traduzione in lingua italiana e l’attività certificativa non costituiscono requisito di validità, e la loro mancanza non determina nullità dell’atto».


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