WhatsApp vietato sui dispositivi governativi USA: la sicurezza nazionale supera la comodità digitale

Negli Stati Uniti il Congresso ha preso una decisione netta e senza precedenti: WhatsApp non potrà più essere utilizzato sui dispositivi governativi. Entro il 30 giugno 2025, l’app dovrà essere rimossa da ogni telefono, tablet o strumento istituzionale in dotazione al personale pubblico. Non si tratta di un invito alla prudenza o di una raccomandazione, ma di un divieto motivato da ragioni di sicurezza nazionale.

Dietro questa misura, che potrebbe sembrare tecnica, si nasconde un tema molto più ampio: la sovranità digitale. Il messaggio lanciato è chiaro e forte, rivolto non solo alle agenzie governative ma a tutto il mondo pubblico: non fidatevi di piattaforme che non potete controllare completamente. La privacy oggi è una questione che si intreccia strettamente con il potere e la sicurezza dello Stato.

Il divieto si basa ufficialmente su una valutazione del Chief Administrative Officer del Congresso che evidenzia diverse criticità di WhatsApp: mancanza di trasparenza nella gestione dei dati, assenza di crittografia a livello di storage e un generale rischio elevato per l’utilizzo da parte del personale istituzionale. In sostanza, si applica il principio di precauzione: se non si può dimostrare che una piattaforma è sicura, viene esclusa.

Meta, la società proprietaria di WhatsApp, ha replicato sottolineando che la crittografia end-to-end della piattaforma garantisce un livello di sicurezza elevato, spesso superiore ad altre app autorizzate come iMessage o Microsoft Teams. Tuttavia, per le istituzioni americane non è solo una questione tecnica, ma di fiducia istituzionale. WhatsApp appartiene a un gruppo con un modello di business basato sull’estrazione massiva di dati e con una lunga storia di contenziosi in tema di privacy.

Il paradosso è che tra le app consentite ci sono soluzioni che non offrono crittografia end-to-end di default o sono integrate con sistemi cloud esterni, con problemi di interoperabilità e sicurezza. La scelta, dunque, non è soltanto tecnologica ma risponde a un criterio di sovranità: si preferiscono piattaforme che possano essere controllate e gestite all’interno dell’ecosistema governativo statunitense.

La questione della sovranità digitale è centrale. Controllare le infrastrutture tecnologiche significa controllare anche una fetta rilevante del potere e della sicurezza nazionale. Le comunicazioni dei decisori pubblici devono viaggiare su canali trasparenti, tracciabili e affidabili, senza dipendere da attori esterni difficilmente verificabili.

In Europa, il tema viene affrontato con minore urgenza. Il GDPR ha fissato regole stringenti per la protezione dei dati personali, ma nelle pubbliche amministrazioni è ancora diffuso l’uso di app come WhatsApp o Telegram per comunicazioni informali e urgenti, con server esterni all’Unioni, gestiti da soggetti privati extra-UE, creando una zona grigia di rischi. In Italia, non esiste alcun divieto formale sull’uso di WhatsApp negli enti pubblici, ma la prassi è molto diffusa, nonostante i richiami del Garante Privacy sul rispetto del principio di accountability.

Il GDPR stabilisce che ogni trattamento di dati personali deve essere lecito, limitato nelle finalità, sicuro e trasparente. Se un’app non garantisce questi requisiti, non dovrebbe essere utilizzata, indipendentemente dall’assenza di una normativa specifica che ne vieti l’uso.

Tra le alternative scelte dal Congresso americano figurano app con crittografia end-to-end, open source o integrate negli ecosistemi di proprietà, come Signal, iMessage, Wickr e Microsoft Teams, con pregi e limiti. Anche in Europa esistono soluzioni affidabili come Threema Work, Tchap, Element e Nextcloud Talk, ma sono poco adottate nelle PA.

Il problema non è solo tecnico ma culturale: manca una strategia chiara e sistemica per la comunicazione digitale istituzionale. Troppe amministrazioni scelgono la comodità invece della sicurezza e del controllo.


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Il pignoramento immobiliare non cancella l’assegnazione dei canoni: la Cassazione chiarisce i diritti dei creditori

La Corte di Cassazione ha di recente ribadito un importante principio in materia di esecuzioni immobiliari, con la sentenza n. 17195 del 2025. La decisione riguarda la gestione dei canoni di locazione di un immobile sottoposto a pignoramento, in presenza di crediti già assegnati a favore di un altro creditore.

Nel caso esaminato, una Banca aveva avviato una procedura esecutiva immobiliare nei confronti di una società in nome collettivo e di alcune persone fisiche, con l’intervento di vari altri creditori. L’immobile oggetto dell’esecuzione era locato a una società a responsabilità limitata e i canoni d’affitto relativi erano già stati assegnati in precedenza a favore di una Cassa Rurale, che vantava un credito su tali somme, comprese quelle non ancora scadute.

Il custode giudiziario nominato nell’ambito della nuova procedura sosteneva di poter riscuotere i canoni. Tuttavia, la Cassa Rurale si oppose a questa pretese, sottolineando che i crediti erano già stati oggetto di un’ordinanza di assegnazione e non facevano più parte del patrimonio del debitore esecutato. Il Tribunale di Trento ha dato ragione all’opposizione, ritenendo che i canoni non potessero essere oggetto di nuova espropriazione.

La Terza sezione civile della Cassazione ha confermato tale orientamento, precisando il criterio di prevalenza tra i creditori in situazioni simili. Il principio cardine è che l’effetto traslativo del credito relativo ai canoni locatizi ha effetto immediato con l’adozione dell’ordinanza ai sensi dell’articolo 553 del codice di procedura civile. Di conseguenza, un successivo pignoramento dell’immobile – previsto dall’articolo 555 c.p.c. – riguarda l’immobile ormai privo dei frutti civili rappresentati dai canoni, che sono stati già trasferiti al creditore assegnatario.

In altre parole, il pignoramento successivo dell’immobile non può incidere sui canoni già assegnati, né legittima l’adozione di provvedimenti che incidano su tali somme all’interno della nuova procedura esecutiva. La Corte ha sottolineato che un’eventuale ordinanza del giudice che tenti di attribuire nuovamente tali canoni o di coinvolgerli nella nuova esecuzione sarebbe da considerarsi abnorme, in quanto riguarda un bene che è già fuori dal patrimonio oggetto della procedura.

La sentenza chiarisce, quindi, che l’assegnazione dei crediti da canoni locatizi ha efficacia immediata e definitiva, facendo venir meno ogni potere degli altri creditori di pignorare o agire su tali somme una volta trasferite.

Il principio di diritto espresso dalla Cassazione recita che l’ordinanza che assegna i canoni determina il trasferimento immediato del credito al creditore assegnatario, che ne diventa titolare esclusivo. L’immobile, pur continuando a essere oggetto di pignoramento, non comprende più quei frutti civili, i canoni appunto, e nessun provvedimento della nuova esecuzione può modificarne la titolarità o disporne diversamente.


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Responsabilità condominiali, la Cassazione chiarisce: chi commette l’illecito risponde, a prescindere da chi abbia iniziato

Quando più condomini contribuiscono a una situazione illecita su una parte comune dell’edificio, la responsabilità può ricadere su ciascuno di essi, senza che rilevi chi abbia dato inizio alla condotta dannosa. A ribadirlo è la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17237 depositata il 27 giugno 2025, intervenendo su una controversia condominiale legata alla riduzione della luce naturale nel vano scala di un condominio.

Il caso aveva avuto origine dalla contestazione di un condomino che lamentava la diminuzione della luminosità di una finestra affacciata sulla scala condominiale. Secondo quanto emerso, un vicino aveva installato dei pannelli che oscuravano parzialmente la vetrata, successivamente integrati da altri elementi in cartongesso collocati da un ulteriore condomino. La Corte d’appello, intervenuta in secondo grado, aveva accolto solo parzialmente le doglianze, ritenendo che l’intervento successivo non avesse aggravato in maniera significativa la situazione, considerato che la chiusura era già stata operata dal primo condomino.

La questione è quindi approdata in Cassazione. Il ricorrente ha sostenuto che il giudice di merito avesse errato nel valutare irrilevante il contributo successivo alla situazione di oscuramento, trascurando il principio giuridico per cui, in presenza di più comportamenti illeciti concorrenti, ciascun autore è responsabile per l’intero danno, a prescindere dall’ordine cronologico con cui le condotte siano state poste in essere.

Accogliendo il ricorso, la Suprema Corte ha sottolineato come in ambito condominiale – così come nelle obbligazioni solidali previste dal codice civile – la responsabilità per il danno prodotto alla cosa comune ricada indifferentemente su ciascuno degli autori delle condotte illecite. Il principio è stato formalmente enunciato: “anche in tema di rapporti condominiali, del fatto illecito di un condomino che si aggiunga a quello di altro condomino nei confronti della cosa comune può essere chiamato a rispondere indifferentemente l’uno o l’altro, senza che debba aversi riguardo alla priorità nella commissione del fatto”.

La Corte ha richiamato precedenti consolidati che regolano la solidarietà tra più responsabili di un danno, richiamando gli articoli 2043 e 2055 del codice civile. Il primo stabilisce l’obbligo di risarcimento a carico di chi commette un fatto doloso o colposo; il secondo disciplina i casi in cui più soggetti contribuiscono al medesimo evento dannoso, prevedendo la responsabilità solidale di tutti gli autori verso il danneggiato.

Nell’occasione, i giudici di legittimità hanno accolto anche ulteriori motivi di ricorso relativi all’omessa valutazione di aspetti del regolamento condominiale e alla realizzazione di modifiche agli infissi senza le necessarie autorizzazioni.

La decisione, oltre a definire la responsabilità concorrente dei condomini in casi analoghi, riafferma il principio secondo cui la tutela della cosa comune e il rispetto delle regole condominiali non possono essere vanificati dalla frammentazione delle condotte illecite nel tempo o tra più soggetti.


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Giustizia, scontro istituzionale sulla relazione della Cassazione sul decreto Sicurezza

Roma, 1 luglio 2025 – Scontro istituzionale tra il ministero della Giustizia e la magistratura in seguito alla pubblicazione di una relazione tecnica dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, dedicata al recente decreto Sicurezza. Il documento, di natura giuridica, solleva numerose perplessità sul piano costituzionale e applicativo, attirando la reazione del guardasigilli Carlo Nordio, che ha chiesto chiarimenti sulla diffusione del testo e avviato un’istruttoria per verificare le modalità di divulgazione.

La relazione, elaborata dall’organo della Suprema Corte incaricato di supportare l’interpretazione giurisprudenziale, analizza nel dettaglio il provvedimento approvato dal governo e già convertito in legge, evidenziando criticità relative alla mancata sussistenza dei requisiti di urgenza e alla possibile violazione di principi costituzionali, in particolare riguardo al diritto di manifestazione, di sciopero e alla libertà personale.

Secondo il ministro della Giustizia, la questione non riguarda tanto il merito delle osservazioni, quanto la loro circolazione. Nordio ha disposto che il suo dicastero acquisisca formalmente il documento e verifichi se il regime di pubblicità seguito sia conforme alle procedure ordinarie. Una posizione che ha provocato la ferma replica dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), che ha difeso il carattere tecnico e pubblico delle relazioni del Massimario, sottolineando come esse rappresentino un contributo al dibattito giuridico e non un atto politico.

Il confronto tra le parti riflette una tensione più ampia tra il potere esecutivo e quello giudiziario. Il governo accusa la magistratura di voler condizionare l’indirizzo legislativo, mentre l’Anm denuncia tentativi di limitare il ruolo critico e tecnico dei magistrati nella valutazione delle norme. Sul punto sono intervenuti anche esponenti della maggioranza parlamentare, come il senatore Maurizio Gasparri, che ha definito il documento una provocazione e ribadito la necessità di riformare profondamente il sistema giudiziario.

Nel merito, la relazione formula una lunga serie di rilievi. Viene evidenziata, tra le altre cose, l’eterogeneità dei contenuti del decreto e la carenza di motivazioni straordinarie che ne giustifichino l’urgenza. Criticità sono state individuate anche in relazione ad alcune nuove norme penali introdotte, giudicate potenzialmente lesive dei diritti fondamentali e a rischio di violare il principio di proporzionalità previsto dalla Costituzione.

La vicenda rischia di riaprire il dibattito sulla collocazione e sui poteri reciproci delle istituzioni nell’ordinamento democratico. Le relazioni del Massimario, seppur prive di valore vincolante, possono infatti orientare il lavoro dei giudici e costituire un punto di riferimento per eventuali future pronunce di legittimità costituzionale. Per questo motivo il loro ruolo viene considerato strategico, non solo in sede giuridica ma anche nel confronto tra istituzioni.

Lo scontro si inserisce in una stagione già segnata da tensioni sul fronte giustizia, dalle polemiche sulla separazione delle carriere alla riforma del Consiglio superiore della magistratura. La relazione continuerà a circolare e alimenterà inevitabilmente il dibattito politico e istituzionale, in attesa di chiarimenti ufficiali e di eventuali nuove prese di posizione.


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Tribunale online, al via la seconda fase di sperimentazione: nuovi servizi e Roma tra le sedi pilota

Roma, 1° luglio 2025 – Prosegue il percorso di digitalizzazione della giustizia con la seconda fase di sperimentazione del ‘Tribunale Online’, la piattaforma realizzata dalla Direzione generale per i servizi applicativi – Dipartimento per l’innovazione tecnologica del Ministero della Giustizia, con il supporto dei fondi del PON Governance 2014-2020, in coerenza con le priorità del PNRR.

Avviata il 1° marzo 2024, la sperimentazione del Tribunale Online ha reso possibile il deposito telematico delle istanze in alcuni procedimenti di volontaria giurisdizione, come l’amministrazione di sostegno, la gestione di eredità giacente e la nomina del curatore.

Dal 1° luglio 2025, l’offerta di servizi si amplia ulteriormente con nuove tipologie di istanze disponibili online, tra cui la nomina del cancelliere o del notaio incaricato dell’inventario, l’autorizzazione alla vendita dei beni ereditari, l’istanza di proroga per l’inventario e le autorizzazioni del giudice tutelare per gli atti di straordinaria amministrazione.

Contestualmente, cresce anche la rete dei Tribunali coinvolti nella sperimentazione: alle sette sedi giudiziarie già attive – Catania, Catanzaro, L’Aquila, Marsala, Napoli Nord, Trento e Verona – si aggiunge il Tribunale di Roma.

Il portale, accessibile da qualsiasi dispositivo e dotato di un’interfaccia semplice e intuitiva, è composto da una sezione pubblica informativa e da un’area riservata, dove i cittadini – previa autenticazione digitale (con SPID, CIE o CNS) – possono presentare online alcune istanze di volontaria giurisdizione e monitorarne lo stato di avanzamento.

Con questa seconda fase, la piattaforma si arricchisce di nuove funzionalità, offrendo ai cittadini la possibilità di svolgere un numero crescente di attività in modo sempre più semplice, rapido e digitale. Nei prossimi mesi, il Tribunale Online continuerà ad evolversi con l’introduzione di ulteriori servizi e strumenti pensati per migliorare e ampliare l’esperienza d’uso, con l’obiettivo di estenderlo progressivamente a tutti i Tribunali sul territorio nazionale, per una giustizia sempre più accessibile e vicina alle persone.


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Global tax, l’intesa al G7 mette in bilico le web tax europee

Bruxelles, 1 luglio 2025 – Il recente accordo siglato al G7 sulla minimum global tax riapre tensioni tra Stati Uniti e Unione Europea in tema di tassazione digitale. Se da una parte le istituzioni comunitarie confermano che le norme europee sui mercati e i servizi digitali resteranno intatte, dall’altra il nuovo quadro fiscale potrebbe rendere molto più difficile portare avanti i progetti di tassazione specifica sui colossi tecnologici, a livello sia nazionale che comunitario.

Al centro della questione c’è la minimum tax globale al 15%, concepita per contrastare l’elusione fiscale delle multinazionali che spostano i profitti verso paradisi fiscali. Nata nell’ambito dei lavori OCSE e approvata in linea di principio già quattro anni fa, questa imposta avrebbe dovuto colpire soprattutto i giganti del digitale, che da anni realizzano enormi profitti in Europa e nel mondo pur mantenendo la sede fiscale in paesi a bassa imposizione.

La novità introdotta nell’intesa raggiunta tra i Paesi del G7, tuttavia, prevede una significativa esenzione per le aziende americane, in particolare per quelle tecnologiche, sulla base della tassazione già applicata negli Stati Uniti attraverso il regime GILTI (Global Intangible Low-Taxed Income). Una deroga che, pur non modificando formalmente le normative UE — come il Digital Markets Act e il Digital Services Act, orientati a regolare concorrenza e tutela degli utenti più che il prelievo fiscale — rischia di svuotare di forza politica e negoziale la proposta di una web tax europea.

Da anni Bruxelles discute infatti la possibilità di introdurre una tassa unificata a livello UE sui servizi digitali, sulla scia delle imposte già attive in Italia, Francia, Spagna, Austria e Regno Unito. Misure che, nate per garantire equità fiscale e finanziare servizi pubblici essenziali, si trovano ora a rischio di dismissione o sospensione, poiché il nuovo assetto internazionale riduce lo spazio d’azione degli Stati membri in questo ambito.

La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha ribadito che una fiscalità equa resta una priorità strategica per l’Europa e che è essenziale per sostenere servizi fondamentali e attrarre investimenti. Tuttavia, l’accordo raggiunto dal G7 complica i piani europei, rendendo più difficile non solo il mantenimento delle attuali digital services taxes nazionali, ma anche l’avvio di una web tax comunitaria in grado di riequilibrare la concorrenza fiscale con i giganti del digitale.

A complicare ulteriormente il quadro, il commissario europeo al Commercio, Maros Sefcovic, è atteso a Washington per riprendere i colloqui sui dazi e tentare di mediare su questioni ancora aperte nel dialogo economico transatlantico. Un confronto reso più delicato proprio dall’intesa fiscale del G7, che priva Bruxelles di una delle leve negoziali più incisive.

Resta ora da capire come si muoveranno i singoli governi nazionali, stretti tra la necessità di garantire entrate fiscali e il rispetto dei nuovi equilibri internazionali. Quel che è certo è che la questione fiscale digitale resta una delle partite più complesse e decisive nella ridefinizione delle relazioni economiche tra Europa e Stati Uniti e, più in generale, nella governance della globalizzazione economica nell’era digitale.


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Logistica e appalti, l’intelligenza artificiale ridefinisce i confini della legalità: crescono i rischi di irregolarità nella gestione dei contratti

Negli ultimi anni il settore della logistica è diventato uno degli ambiti più esposti al rischio di irregolarità nella gestione dei contratti di appalto e subappalto, soprattutto a causa della frammentazione della filiera produttiva e del frequente ricorso a esternalizzazioni massive. Una situazione già complessa, alla quale oggi si aggiunge un nuovo elemento di criticità: l’introduzione di sistemi digitali avanzati e di intelligenza artificiale utilizzati direttamente dai committenti per monitorare e gestire le attività affidate in appalto.

Se da un lato queste tecnologie consentono di efficientare i processi produttivi e migliorare l’organizzazione del lavoro, dall’altro rischiano di compromettere i presupposti giuridici che garantiscono la legittimità degli appalti. Secondo la normativa vigente — in particolare l’articolo 1655 del codice civile e l’articolo 29 del decreto legislativo 276/2003 — perché un appalto sia considerato genuino, è necessario che l’appaltatore disponga di una propria autonomia organizzativa, assuma il rischio d’impresa e detenga i poteri diretti di gestione, organizzazione e controllo sui lavoratori impiegati.

Il problema emerge quando i sistemi di gestione digitale e le piattaforme di monitoraggio installate o controllate dal committente interferiscono con questi poteri, indirizzando e condizionando direttamente le attività degli appaltatori. In questi casi si crea il rischio concreto che si configuri un appalto privo di autonomia gestionale o, peggio, una somministrazione illecita o fraudolenta di manodopera, con tutte le conseguenze giuridiche e sanzionatorie previste dalla legge.

Il settore ha già da tempo avviato una serie di contromisure per contrastare l’illegalità diffusa negli appalti logistici, come l’adozione di protocolli di legalità, sistemi di reverse charge, linee guida condivise e il cosiddetto progetto “cruscotto”, un sistema documentale certificato per la verifica della regolarità degli operatori logistici. A ciò si è aggiunto, con il rinnovo del contratto collettivo nazionale di settore nel dicembre scorso, l’introduzione di un sistema di qualificazione della filiera, pensato per selezionare imprese affidabili e garantire un equilibrio tra efficienza produttiva e rispetto delle normative in materia di lavoro, previdenza, fisco e sicurezza.

Tuttavia, questi strumenti, per quanto fondamentali, non sono ancora sufficienti a contrastare il rischio crescente legato alla gestione digitale centralizzata. Diverse pronunce recenti della magistratura e degli organi ispettivi hanno infatti messo in evidenza come l’utilizzo da parte del committente di sistemi tecnologici in grado di determinare modalità e tempi di esecuzione delle attività possa incidere direttamente sull’esercizio dei poteri datoriali, rendendo illegittimo l’appalto per mancanza dei requisiti essenziali richiesti dalla legge.

Il rischio maggiore si manifesta proprio nei contratti che, dietro una apparente legittimità formale, celano situazioni di interposizione di manodopera, somministrazione irregolare o utilizzo di società filtro, fenomeni che la giurisprudenza sta sempre più spesso riconducendo a responsabilità penali, a partire dalla rilevazione di fatturazioni per operazioni inesistenti collegate a pseudo-appalti.

Il combinato tra tecnologia, esternalizzazione e rapporti di forza nella filiera logistica rende quindi imprescindibile un intervento di regolamentazione chiaro e aggiornato. È necessario definire limiti e condizioni per l’utilizzo di sistemi digitali e intelligenza artificiale all’interno dei processi produttivi in appalto, distinguendo nettamente tra strumenti che restano sotto il controllo dell’appaltatore e quelli gestiti dal committente.

Solo attraverso una disciplina puntuale e il rafforzamento dei controlli sarà possibile garantire che le innovazioni tecnologiche, invece di rappresentare un nuovo strumento per aggirare norme e tutele, diventino un’opportunità per migliorare l’efficienza produttiva nel pieno rispetto dei diritti dei lavoratori e delle regole di legalità economica.


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Nuove regole per carriera e merito nella pubblica amministrazione: via libera definitivo dal Governo

Roma, 30 giugno 2025 – Cambia il sistema di progressione e valutazione del personale nella pubblica amministrazione. Con il via libera definitivo del Consiglio dei ministri, il disegno di legge sul merito e sulla leadership per i dirigenti pubblici è pronto a fare il suo ingresso in Parlamento.

Il provvedimento introduce nuovi criteri per la misurazione della performance e per lo sviluppo professionale dei dipendenti pubblici, puntando a premiare i risultati raggiunti e non più soltanto l’anzianità di servizio. Sarà possibile ottenere un incremento retributivo progressivo collegato direttamente al merito, estendendo il sistema anche a Regioni, Province e Comuni, incluse le autonomie speciali.

Tra le principali innovazioni c’è l’apertura di percorsi di carriera riservati ai funzionari, che potranno concorrere per una quota del 30% dei posti disponibili da dirigente di seconda fascia ogni anno. La selezione avverrà attraverso bandi pubblici riservati a chi avrà maturato almeno cinque anni di servizio nella propria area o due anni in quella di elevata qualificazione.

Le candidature saranno esaminate da una commissione composta da sette membri, tra dirigenti interni, esperti esterni e un dirigente generale di altra amministrazione. La procedura di selezione prevede colloqui individuali, valutazioni delle attività svolte e prove pratiche, con un’attenzione specifica alle capacità di leadership e gestione dei gruppi di lavoro.

Il nuovo incarico dirigenziale avrà durata triennale e potrà essere rinnovato una sola volta. Al termine del primo mandato, un’ulteriore commissione valuterà i risultati conseguiti per confermare o meno il ruolo.

Nella stessa seduta, il Consiglio dei ministri ha inoltre approvato un emendamento al decreto fiscale che prevede un contributo straordinario di 500 euro destinato alle famiglie che, dopo 18 mesi di assegno di inclusione, non riceveranno più il sussidio tra luglio e ottobre 2025. Stanziati complessivamente 250 milioni di euro per coprire l’intervento a favore di circa 500 mila nuclei familiari.

Approvata anche la proroga della copertura Inail per studenti e personale scolastico, a tutela della sicurezza negli ambienti educativi.


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Precari della giustizia in piazza: senza stabilizzazioni a rischio il funzionamento dei tribunali

Si è svolta ieri una giornata di mobilitazione davanti ai principali palazzi di giustizia pugliesi. A Bari, Lecce, Foggia e Taranto centinaia di lavoratori del settore giudiziario hanno partecipato ai sit-in promossi a livello nazionale da Cgil, Uil e Usb per chiedere al Governo garanzie sul loro futuro occupazionale.

A preoccupare sono i circa 12mila contratti a tempo determinato attivati in tutta Italia per rafforzare l’organico degli uffici giudiziari grazie ai fondi del PNRR. Tra questi, in Puglia, sono 600 i funzionari – molti dei quali inseriti nell’ufficio del processo – che vedranno scadere il proprio rapporto di lavoro il 30 giugno 2026.

Secondo i sindacati, le intenzioni del Governo punterebbero a stabilizzare solo una parte di queste figure, una scelta che rischierebbe di compromettere il funzionamento della macchina giudiziaria. L’introduzione di questi profili professionali, infatti, ha permesso negli ultimi anni di ridurre sensibilmente i tempi dei procedimenti e di recuperare buona parte dell’arretrato.

La protesta ha coinvolto non solo i lavoratori, ma anche i magistrati, che hanno espresso il loro sostegno all’iniziativa. Diverse presidenze di tribunale e dirigenti amministrativi hanno manifestato la necessità di mantenere operative le strutture dell’ufficio del processo anche oltre la scadenza dei contratti, evidenziando come questa modalità organizzativa sia ormai diventata parte integrante e irrinunciabile dell’attività giudiziaria.

In parallelo alla richiesta di stabilizzazione, le organizzazioni sindacali sollecitano l’avvio di un confronto per aggiornare gli accordi integrativi interni, fermi da oltre un decennio, e per valorizzare adeguatamente il personale, sia a tempo determinato che a tempo indeterminato.

Il timore diffuso è che, in assenza di interventi concreti, il sistema giudiziario possa tornare a rallentare drasticamente, vanificando gli sforzi compiuti grazie al contributo dei funzionari precari e rischiando di compromettere il diritto dei cittadini a un servizio giustizia rapido ed efficiente.


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Diffamazione e reati minori: la parte civile potrà appellare anche dopo il proscioglimento

Un importante chiarimento arriva dalle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione con la sentenza n. 23406 del 23 giugno 2025. Al centro della decisione, un nodo interpretativo sorto dopo la riforma Cartabia, riguardante il diritto della parte civile di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento del Giudice di pace per reati di minore gravità.

La vicenda trae origine da un procedimento penale celebrato davanti al Giudice di pace di Torino. L’imputato era accusato di diffamazione per aver affermato che un dirigente di una società fosse sottoposto a procedimento disciplinare. Il giudice aveva assolto l’imputato «perché il fatto non sussiste». Contro tale decisione la parte civile — il soggetto diffamato, anche in qualità di rappresentante della società coinvolta — aveva proposto appello, rivendicando il diritto al risarcimento dei danni civili derivanti dal reato.

Il Tribunale di Torino aveva però sollevato un dubbio interpretativo, considerando che, a seguito della riforma introdotta con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, le sentenze di proscioglimento per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa — come appunto la diffamazione — sono diventate inappellabili per l’imputato e il pubblico ministero. La questione era se questa inappellabilità valesse anche per la parte civile.

La Quinta Sezione penale della Cassazione, rilevando un contrasto giurisprudenziale sul punto, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite. Il quesito di fondo era: la parte civile che non ha chiesto la citazione a giudizio può comunque appellare, ai soli effetti civili, la sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di pace per un reato di questo tipo?

La risposta delle Sezioni Unite è stata netta: sì, la parte civile mantiene tale facoltà. Il principio espresso dalla Suprema Corte è che le modifiche normative introdotte non hanno inciso sulla possibilità per la parte civile di impugnare le sentenze di proscioglimento, ai soli fini della responsabilità civile, ai sensi dell’art. 576 del codice di procedura penale.

La ratio è chiara: l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento per i reati minori, prevista dall’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., riguarda solo il pubblico ministero e l’imputato, non la parte civile, il cui diritto a tutelare le proprie ragioni in sede civile rimane integro. Un orientamento, questo, coerente anche con la sentenza della Corte costituzionale n. 173 del 2022, che aveva già dichiarato l’illegittimità di norme che ostacolavano la domanda risarcitoria della parte civile in casi di particolare tenuità del fatto.


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