Il carcere come strumento di rieducazione: realtà o utopia?

Un muro di indifferenza

La carcerazione non comporta la perdita dei diritti, anzi: una persona che si ritrova in tale contesto necessita di maggior tutela. In tale contesto, trovandosi sotto la completa responsabilità dello Stato, quest’ultimo dovrebbe garantire dignità, benessere e salute.

Il carcere dev’essere un luogo di rieducazione, per mettere in sicurezza la nostra società. Se ciò non avviene, quello che resta sono soltanto parole vuote e un muro di indifferenza, che non ci permette di osservare le cose da diversi punti di vista.

Giovani vs anziani

Ogni anno, in Italia, migliaia di persone tra i 18 e i 34 anni transitano negli Istituti Penitenziari. Una tale consistenza di giovani nelle carceri italiane dovrebbe indurci a riflettere attentamente alla strada da intraprendere per contrastare il fenomeno.

In molti hanno studiato gli effetti negativi dell’esperienza in carcere, come ansia, depressione e autolesionismo. Nelle carceri, inoltre, esiste un vero e proprio “trattamento penitenziario” attuato dai più anziani nei confronti dei giovani detenuti.

I giovani, infatti, entrano a contatto con questi soggetti criminali che sembrano dimostrarsi sensibili alle necessità psicologiche, personali e logistiche dei nuovi arrivati, anche se il loro fine è avere facile presa su personalità molto fragili, da sfruttare ai fini della delinquenza.

La detenzione prepara al reinserimento sociale

L’obiettivo, invece, dovrebbe essere trasformare l’esperienza della detenzione da luogo in cui studiare il crimine a momento di riflessione umana e di crescita personale.

Bisognerebbe evitare che i soggetti più giovani finiscano per restare intrappolati nel circuito della devianza, insieme a soggetti che continuano ad entrare e ad uscire dal carcere. Bisognerebbe disegnare differenti canali d’accoglienza, attivando circuiti di inserimento differenziati in base alla tipologia di reato commesso.

Un’applicazione sempre più ampia delle misure alternative di detenzione potrebbe contenere questi fenomeni, offrendo percorsi concreti di risocializzazione a migliaia di soggetti.

Gestione partecipata del carcere

Una cosa fondamentale è far comprendere ai detenuti più giovani che non ci si aspetta da loro soltanto una reintegrazione all’interno del sistema sociale, ma che ci sia anche una nuova base per costruire un miglior sistema sociale.

Un clima di serenità e fiducia favorisce la comunicazione e l’espressione spontanea di pensieri, idee e sentimenti. Bisogna concorrere all’acquisizione e al recupero della dimensione sociale del detenuto, delle sue possibilità, dei suoi diritti e della sua dignità.

Importante anche promuovere la partecipazione attiva dei soggetti detenuti, affinché giungano alla gestione partecipata del carcere. Non devono più essere soggetti passivi, ma protagonisti della vita che si svolge all’interno delle mura.

Fondamentale educare, informare, sensibilizzare, per modificare un comportamento individuale che si ritiene sia stato causa di condotta antisociale.

La duplice funzione del carcere

Il carcere racchiude in sé un duplice mandato: quello della custodia e quello del trattamento. Deve essere orientato, dunque, verso l’interazione adeguata dei due aspetti, delineando una configurazione istituzionale tesa ad una gestione corretta dei problemi che riguardano i giovani reclusi.

Dovremmo incamminarci verso un carcere con una fisionomia trattamentale, non soltanto custodiale. Creare un luogo dove ogni operatore partecipa attivamente alla soddisfazione dei bisogni e delle necessità dei giovani detenuti, che dovranno diventare coscienti e consapevoli della propria soggettività, gestendo responsabilmente la propria detenzione e il rientro nella società.

Dovranno essere in grado di autodeterminarsi e riscoprire le proprie potenzialità, senza ricorrere a mezzi illeciti.

Guardare al futuro

Il carcere equivale alla società. Dunque, come può la società non sentirsi chiamata in causa? Come può non essere consapevole che il suo interesse è quello di occuparsi di quello che avviene o che non avviene all’interno del carcere?

Volenti o nolenti, esiste un dopo, che noi tutti auspichiamo che sia positivo. Ma tale positività dipende da un percorso costruttivo, solidale e non indifferente.

La ricostruzione dell’individuo nella sua relazione con la società è una scommessa di solidarietà sociale. Più vicini ci poniamo al condannato – che prima di tutto deve essere visto come essere umano – più efficacemente si potrà attivare il processo di valorizzazione della sua individualità.

La pena non deve infliggere tormento o vendetta per il male commesso dal condannato. Non deve guardare al passato, ma al futuro, in ottica di prevenzione, affinché la persona non commetta altri crimini.

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Portale Servizi Telematici: accesso agli atti dei procedimenti penali

 

Portale Servizi Telematici: accesso agli atti dei procedimenti penali

Da lunedì’ 14 novembre in tutte le Procure della Repubblica è attiva la funzionalità di accesso agli atti dei procedimenti penali da parte dei difensori mediante il portale del Processo Penale Telematico. La funzionalità è riservata ai soggetti iscritti nel Registro degli Indirizzo Elettronici (ReGindE) con il ruolo di avvocato.

Sarà possibile accedere al servizio cliccando sulla sezione “servizi”, che si trova sulla home page del PST. Successivamente bisognerà cliccare su “Area Riservata” ed infine, previa autenticazione, si potrà accedere al servizio Portale Deposito atti Penali – deposito con modalità telematica di atti penali.

I difensori, dopo aver effettuato il login, dovranno selezionare il procedimento di interesse dall’elenco dei procedimenti autorizzati, cliccare su “Deposita Atto Successivo” e richiedere l’atto in “richiesta di accesso”.

Sul portale esiste anche un servizio di consultazione dei registri di Cancelleria in forma anonima, disponibile anche sotto forma di app gratuita disponibile per tutti i sistemi operativi. Il servizio non richiede iscrizione a autenticazione (accedendo ai registri di cancelleria in forma anonima non si può accedere alle sezioni documentali).

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Il dramma del suicidio nelle carceri italiane


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Il dramma del suicidio nelle carceri italiane

Il 2022 si preannuncia essere l’anno con il più alto numero di suicidi in carcere dal 2009. Da gennaio ad oggi sono già avvenute 77 morti per suicidio.

Il 4 ottobre, gli attivisti di Antigone hanno tenuto un sit-in davanti al tribunale di Palermo. «Basta morti in carcere. Si è fatta una campagna elettorale nel silenzio perché nessuno dei leader nazionali ha toccato questo tasto, nonostante fosse un periodo molto caldo per i suicidi in carcere».

Il tema della salute mentale

Michele Miravalle, dell’osservatorio nazionale di Antigone, rivela: «Ci sono stati casi di suicidio pochi mesi prima dell’uscita dal carcere». Inoltre, la maggior parte delle persone erano in attesa di giudizio e ed erano affette da patologie psichiatriche.

Il problema della salute mentale in carcere «è forse la grande emergenza del carcere di oggi in Italia. Il 40% delle persone detenute fa uso sistematico di psicofarmaci», continua Miravalle. Il carcere «non ha strumenti per affrontare molte di queste situazioni perché c’è un’emorragia di personale professionale sanitario e di operatori di salute mentale che sistematicamente mancano e quindi, spesso, si ricorre allo psicofarmaco senza poter fare null’altro».

Le richieste alle istituzioni

Il tema della salute mentale era tra quelli trattati durante il sit-in di Palermo. «Chiediamo di evitare la detenzione per i soggetti fragili, identificati come malati psichiatrici o con gravi problemi psicologici».

Hanno chiesto anche di «creare le condizioni affinché i detenuti in attesa di giudizio possano scontare a casa il periodo che li vede lontani dalla condanna» e «un intervento svuota-carceri che metta fuori i ragazzi dai 20 ai 30 anni che sono negli istituti penitenziari per reati minori», che rappresentano la seconda fascia d’età nei casi di suicidio.

L’inadeguatezza dello Stato e delle carceri

Il suicidio di una persona che è stata privata della propria libertà rappresenta il fallimento del ruolo punitivo e riabilitativo del nostro Stato. Se uno Stato non riesce ad impedire la morte di un condannato, dovrebbe perdere le funzioni che ne giustificano la potestà punitiva.

I suicidi delle persone detenute provocano sempre scalpore e indignazione. Le loro storie sono testimonianze dell’ultimo step di vicende personali drammatiche, che nella carcerazione raggiungono il loro culmine.

Dopo notizie di questo genere, è evidente l’inadeguatezza delle carceri nell’affrontare i disagi delle persone che si trovano al loro interno per scontare una pena. Anzi, spesso la carcerazione diventa uno shock letale per le persone più fragili, incapaci di adattarsi alla drammaticità della situazione che devono affrontare.

La fragilità nelle nostre prigioni

Il nostro paese ha i più bassi tassi di suicidio. Ma da alcuni dati diffusi dall’OMS è emerso come in Italia, il divario tra l’incidenza del suicidio tra le persone incarcerate e quelle libere, sia il più alto in tutta Europa. La distanza ci porta inevitabilmente a ragionare sulla qualità delle nostre prigioni e sull’efficacia dei programmi di prevenzione.

Da non sottovalutare nemmeno gli episodi di autolesionismo e di tentato suicidio. La popolazione detenuta, infatti, si compone sempre più da soggetti fragili ed emarginati. La rivendicazione dei propri diritti, di conseguenza, viene sostituita dai corpi feriti e dalle condotte autolesioniste come richieste di supporto e attenzione.

Una telefonata allunga la vita

Il mondo del carcere si sta riprendendo dalla pandemia in maniera più lenta rispetto alla società. I progetti di volontariato sono andati avanti a singhiozzo e alcuni si sono interrotti definitivamente. Risulta evidente come il carcere rappresenti un luogo di abbandono e di solitudine, oggi più che mai.

La scorsa estate Antigone ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”. Spiega Miravalle: «Ovviamente le telefonate non sono risolutive del problema, ma sono un importante strumento di prevenzione».

È recente la circolare del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che affida ai direttori delle carceri le decisioni nelle autorizzazioni dei colloqui telefonici o delle videochiamate. L’intervento, tuttavia, dovrà essere stabilizzato dal nuovo governo.

Il Dap «ha scelto una strada abbastanza prudente suggerendo ai direttori di avere un’applicazione meno restrittiva del regime delle telefonate che era stato allargato durante il Covid e che noi auspicavamo diventasse legge. Non siamo ancora a quel punto, ma è un primo risultato di percezione di un disagio che va affrontato».

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La tutela ambientale nel diritto penale

Tutelare la vita e la salute umana significa tutelare anche la salute dell’ambiente. In generale, la presa di coscienza sulla necessità della tutela dell’ambiente progredisce sempre più. Questa evoluzione storica ci porta a comprendere che ci troviamo di fronte ad un nuovo diritto umano, in quanto la salute dell’ambiente è collegata, inevitabilmente, a quella degli esseri umani.

Nell’art. 37 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea troviamo la necessità di tutelare l’ambiente come diritto fondamentale. Anche la risoluzione n. 48/13 approvata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha riconosciuto il diritto ad un ambiente sano, pulito e sostenibile come diritto fondamentale dell’uomo.

Il valore dell’ambiente non si relaziona soltanto con il diritto alla vita, ma anche con il diritto alla salute sociale ed economica dei cittadini.

Breve storia della tutela ambientale in Italia

Con la sentenza 127/1990, la Corte Costituzionale affermò che il limite di inquinamento non poteva superare «quello rappresentato dalla tollerabilità per la tutela della salute umana e dell’ambiente in cui l’uomo vive: tutela affidata al principio fondamentale di cui all’art. 32 della Costituzione, di cui lo stesso art. 41, secondo comma, si richiama».

Dunque, da tempo l’ambiente è riconosciuto come un autentico valore costituzionale, previsto dagli articoli 9 e 32, anche se la materia ambientale verrà inserita nel Testo Costituzionale soltanto con la legge costituzionale 1/2022.

Questo non vuol dire che prima, in Italia, non ci fosse alcuna forma di tutela ambientale. Senza dubbio, tale legge costituzionale è nata grazie alle maggiori attenzioni degli ultimi anni nei confronti dei cambiamenti climatici, specialmente quelli avvenuti come conseguenza dell’azione umana.

Leggiamo dai lavori preparatori della legge costituzionale 1/2022 che «l’80% dei disastri naturali, che hanno già duramente colpito e continuano a colpire, anche il nostro Paese, è legato ai cambiamenti climatici».

La necessità di tutelare il nostro ambiente comincia a partire dalla Conferenza della Nazioni Unite sull’Ambiente Umano, tenutasi a Stoccolma nel 1972. Una conferenza che segna l’inizio della coscienza ambientale a livello istituzionale.

L’ordinamento italiano, prima di allora, non “snobbava” la tutela della salute dell’ambiente, che inizialmente era inteso come decoro urbano. Tuttavia, analizzando gli interventi specifici in materia nel Codice Civile del 1942 ci troviamo di fronte alla settorialità degli interventi legislativi e al grande apporto della Giurisprudenza Costituzionale in materia ambientale.

Il legislatore italiano tutelava l’ambiente come valore unitario in maniera puramente incidentale. Le discipline erano settoriali, come la legge sull’inquinamento dell’aria e delle acque. Ma un grosso evento ha mosso la coscienza del Legislatore.

Il disastro di Chernobyl, avvenuto il 26 aprile 1986, portò alla nascita del Ministero dell’Ambiente. È proprio qui che si esplicita il collegamento tra lo stato dell’ambiente con la tutela della vita umana, dove si stabilisce anche che i cittadini possono e devono esercitare un controllo sociale anche attraverso osservazioni alla P.A.

Il cittadino diviene, dunque, protagonista della tutela della sua salute. Con la legge 308/2004 si conferirà al governo una delega per procedere alla “codificazione” del Diritto ambientale in Italia. Si arriverà ad unificare la disciplina ambientale con il decreto legislativo 152/2006 “Testo Unico Ambientale”.

Ambiente e tutela penale

Come naturale conseguenza della tecnologia scientifica e industriale, si è resa necessaria una tutela sempre maggiore dell’ambiente.

La mancanza di un’adeguata disciplina di tutela penale a livello ambientale ha consentito che la criminalità organizzata cominciasse ad intendere l’inquinamento come nuova frontiera di guadagno, facendo nascere in tal modo le ecomafie.

Nel 2008 i paesi membri sono stati invitati a legiferare sulla tutela penale dell’ambiente, invitandoli ad elencare le violazioni ambientali punibili come reati all’interno dell’UE. Nell’incipit della direttiva si legge che «attività che danneggiano l’ambiente, le quali generalmente provocano o possono provocare un deterioramento significativo della qualità dell’aria, compresa la stratosfera, del suolo, dell’acqua, della fauna e della flora, compresa la conservazione delle specie» esigono importanti sanzioni penali.

Tali attività comprendono i reati di tipo ambientale ma anche il trattamento illecito di rifiuti. I paesi dell’Unione Europea, dunque, sono tenuti ad applicare sanzioni penali proporzionali, persuasive ed efficaci in caso di reato ambientale, commesso intenzionalmente o per grave negligenza.

Nel reato ambientale vengono puniti anche il concorso, l’istigazione e il favoreggiamento. Nel 2015, il legislatore recepisce la necessità di rafforzamento della tutela, ed inserisce nel Codice Penale gli ecodelitti (legge 68/2015).

Una visione antropocentrica dell’ambiente

Nella nostra cultura giuridica, la tutela dell’ambiente è vista da un punto di vista personalista, ovvero di tutela del singolo all’interno di una comunità. Tale prospettiva si traduce in un principio antropocentrico, tipicamente occidentale.

Per esempio, la Legge tedesca del 1990 sulla responsabilità per danno ambientale prevede che «l’inquinamento colpisce tutti coloro che vengono costretti a vivere in una situazione di degrado ambientale». Per questo, «ciascuno è leso individualmente in quanto l’ambiente è una condizione di vita della persona».

Tale modalità di tutela dell’ambiente è direttamente contrapposta alla visione latino-americana, che opta per il riconoscimento della soggettività giuridica alla natura, ed è frutto di un processo inverso a quello europeo.

Secondo l’art. 71 della Costituzione dell’Ecuador, la natura ha «il diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, delle sue strutture, delle sua funzioni e dei suoi processi evolutivi».

Per concludere

Non ci sono dubbi: è assolutamente necessario tutelare l’ambiente in quanto diritto umano, poiché collegato direttamente alla tutela della vita e della salute. Ma non dobbiamo sottovalutare il ruolo del cittadino in tutto questo.

Vigilare sull’ambiente non è soltanto responsabilità del legislatore o della P.A, ma è un diritto e un dovere del cittadino. Quest’ultimo deve avere riguardo della propria condizione ma anche della condizione dell’ambiente in cui vive.

Basandoci sulla struttura dell’art. 52 della nostra Costituzione, la difesa dell’ambiente è un dovere sacro del cittadino, in quanto è proprio da esso, dalla “Madre Terra”, che deriva la propria vita.

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Il programma Le Iene è responsabile di istigazione al suicidio?

Nell’epoca della digitalizzazione, capita sempre più spesso che le storie d’amore nascano nel mondo virtuale. Ci si incontra online, iniziando ad intrattenere dei rapporti che potrebbero evolversi in qualcosa di concreto e reale.

Ma non è sempre così: in molte situazioni, la persona con cui stiamo chattando non è chi crediamo che sia. Scoprire l’inganno, anche a distanza di anni, potrebbe innescare delle reazioni drammatiche, che portano ad esiti tragici.

Questo è quello che è successo a Daniele, un ventiquattrenne di Forlì, che nel 2021 ha deciso di uccidersi dopo aver scoperto che dietro alla sua fidanzata virtuale, Irene, si nascondeva un uomo di 64 anni, Roberto Zaccaria.  Oltre a spacciarsi per la ragazza, Zaccaria ha finto anche di essere un’amica di lei (Claudia) e suo fratello (Braim).

La famiglia del ragazzo ora chiede giustizia, perché convinta che il suicidio sia avvenuto a causa della truffa subita. La Procura, invece, ha richiesto l’archiviazione del caso.

Daniele scopre l’inganno

Daniele e Irene si sono scambiati più di 8mila messaggi nel corso di un anno. Parole dolci, progetti di vita insieme tra matrimonio e figli: tutto senza mai incontrarsi nel mondo reale.

Daniele credeva di stare insieme ad una ragazza bellissima di 20 anni. Ma dopo un po’ di ricerche online scopre che le foto della ragazza appartengono ad una modella di Roma. Quindi chiede subito spiegazioni alla fidanzata, che, colta in fragrante, non esita a metter un punto alla relazione.

Il 24enne capisce di essere stato ingannato per lungo tempo. Il mondo gli cade addosso, e decide di togliersi la vita il 21 settembre 2021, lasciando ai familiari una lettera d’addio.

Le Iene entrano in scena

La Procura di Forlì ha ritenuto Zaccaria colpevole del reato di sostituzione di persona, convertendo la condanna in sanzione pecuniaria di 825 euro e archiviando l’ipotesi secondo la quale la condotta dell’uomo avrebbe spinto il giovane al suicidio.

La decisione non è piaciuta alla famiglia di Daniele, che ha deciso di rivolgersi al programma Le Iene per avere più giustizia. Matteo Viviani, volto storico del programma, ha raggiunto il truffatore con le telecamere, per metterlo di fronte alle proprie responsabilità.

L’uomo, apparentemente turbato, ha risposto che «era uno scherzo, non volevo che finisse così». Una giustificazione che era già stata respinta dall’avvocata Sabrina Mancini, che rappresenta la famiglia di Daniele, che sottolinea come il ragazzo «gli aveva detto che voleva suicidarsi, ma a nostro parere l’indagato non ha fatto nulla per evitare questa tragedia».

La gogna mediatica

Matteo Viviani, nel servizio, ha posto delle domande parecchio pressanti a Zaccaria, che cercava di allontanarsi mentre spingeva la carrozzina dove sedeva la madre disabile.

Nel servizio delle Iene il volto di Zaccaria è stato oscurato, ma l’uomo è stato riconosciuto lo stesso. Il giorno dopo, infatti, a Forlimpopoli, città dove viveva Zaccaria, erano apparsi alcuni manifesti con il volto dell’uomo con scritto “Muori e vai all’inferno”.

L’uomo è stato contattato successivamente dal Resto del Carlino, dichiarando: «Sono stanco, mi stanno rovinando la vita». Zaccaria non ha retto alla gogna mediatica, e lo scorso 6 novembre ha deciso di uccidersi: è stato ritrovato morto nella sua casa, a causa di un mix letale di farmaci.

“Una tragedia nella tragedia”

Zaccaria, tramite l’avvocato Pier Paolo Benini, qualche giorno prima del suicidio aveva inviato una diffida a Mediaset per non mandare in onda il servizio. Per il legale, «dal programma si evince chiaramente malgrado i pixel del volto che molte immagini sono state mandate in onda senza il consenso di Roberto Zaccaria».

Non è la prima volta che il programma viene accusato di utilizzare metodi aggressivi e di sottoporre le persone alla gogna mediatica. Secondo il web, la responsabilità del suicidio è da attribuire a Le Iene, e sono in molti a chiedere che il programma venga cancellato.

Il programma ha replicato alle polemiche e alle accuse durante la trasmissione dell’8 novembre, che ha contato 1.228.00 telespettatori, con uno share del 9,5%. Viviani ha dichiarato: «Sicuramente continueremo a occuparci di catfishing perché imparare a riconoscere il problema è un passo per evitarlo».

Teo Mammucari, conduttore del programma, ha spiegato: «Una tragedia nella tragedia, sono giorni che non parliamo d’altro. Questo tema merita riflessioni profonde che continueremo a condividere con voi». Secondo il programma, altri ragazzi hanno avuto rapporti virtuali con “Irene”.

Viviani ha continuato: «Il catfishing è un fenomeno molto più ampio e pericoloso di quello che si può immaginare e le vittime sono sempre i soggetti più deboli, quelli che dovrebbero essere maggiormente tutelati. La domanda è: abbiamo gli strumenti per proteggere le persone più a rischio? Nel nostro ordinamento è previsto il reato di sostituzione di persona, ma siamo sicuri che sia sufficiente?».

Che cos’è il Catfish

Il termine Catfish (pesce-gatto) è stato utilizzato per la prima volta in un docufilm del 2010, diventato successivamente una serie tv/reality trasmessa in Italia su MTV, dove gli autori aiutavano le vittime a smascherare le reali identità che si nascondevano dietro ai profili falsi.

Navigando in Internet e chattando sui vari social network, occorre prestare molta attenzione a non imbattersi su profili falsi. Di solito, questi profili utilizzano nickname particolari, hanno poche informazioni personali e rendono discutibile la veridicità dell’account.

L’attivazione di un profilo falso potrebbe sembrare uno scherzo innocente, ma in realtà non sono pochi i casi in cui gli utenti denunciano di aver subito delle molestie da parte di soggetti che si nascondono dietro a false identità.

Reato di sostituzione di persona

Secondo Ansa, un account su tre è fake. Per la Cassazione «l’attivazione di un profilo fake è reato punibile con la reclusione fino ad un anno». Utilizzare questi profili significa realizzare reato di sostituzione di persona, come disciplinato dall’art. 494 del codice penale:

«Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno.»

Costituisce reato sia la creazione di profili falsi con immagini riferibili ad un’altra persona, sia l’attivazione di un profilo falso per molestare gli interlocutori.

I motivi del Catfish

Non si sanno ancora i motivi per cui Zaccaria si è finto Irene per più di un anno. Di solito, le persone scelgono questa strada per:

  • insicurezza: alcune persone si sentono “brutte”, o “non abbastanza brave”, e si sentono più a loro agio se usano immagini di altre persone, “attraenti” e “degne”;
  • malattie mentali: alcune forme di malattia mentale spingono una persona a provare ansia nel rivelare il proprio sé, creando un alter ego come unico modo per comunicare con gli altri;
  • estorsione di denaro;
  • vendetta, magari nei confronti di partner precedenti, per umiliarli o danneggiare la loro reputazione;
  • molestie: qualcuno crea più di un account falso, al fine di massimizzare l’impatto emotivo del catfishing;
  • esplorare le preferenze sessuali.

Le conseguenze psicologiche

Essere vittime di catfishing potrebbe rivelarsi estremamente dannoso per la salute mentale, soprattutto nei casi in cui si è investito molto nell’amicizia o nella relazione d’amore con la persona nascosta dietro il profilo fake.

Le vittime potrebbero trovare molte difficoltà nel fidarsi ancora di qualcuno, influenzando negativamente tutte le loro future relazioni personali e professionali.

Secondo il dottor Davide Algeri, psicologo e psicoterapeuta milanese, «cadere in queste trappole è facile perché tendiamo a fidarci delle persone, quando conosciamo qualcuno non stiamo a fare tante dietrologie. Ma quando una persona fa tante domande e racconta poco di sé tutta questa gratuità di attenzioni dovrebbe far accendere qualche spia».

Continua: «Un fattore di protezione può essere lavorare sulla propria autostima. La paura di rimanere soli, la tendenza a svalutarsi o costruire il proprio valore sul fare per gli altri sono tutte fragilità su cui i manipolatori possono fare leva. Prendersi cura di sé aiuta a rafforzare le proprie difese emotive, sia online che offline».

Vittima e carnefice

La vicenda de Le Iene ci dovrebbe spingere a soffermarci e a riflettere su ogni gesto, pensiero, o clic di tastiera, che nel web diventa un’arma di distrazione delle masse e di distruzione dei singoli.

Daniele e Roberto, vittima e carnefice, non hanno retto al peso dello stesso identico meccanismo perverso, seppur con ruoli diversi. Nella piazza virtuale tutti i drammi si fondono: sono lì, e ci richiedono il conto. Soprattutto quando divengono assolutamente reali.

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Nordio: Venezia è la sede più sofferente di tutto il Paese

«Ce la metteremo tutta per venire incontro a Venezia e per risolvere i problemi della sede giudiziaria più singolare e sofferente d’Italia». Queste le parole del neo-ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha deciso di visitare il palazzo di giustizia lagunare, per discutere dei gravi problemi che affliggono gli uffici giudiziari della regione Veneto.

Ad attenderlo c’erano Salvatore Laganà, presidente del Tribunale, Federico Prato, procuratore generale, Domenico Taglialatela, presidente della Corte d’appello e Federica Santinon, presidente dell’Ordine degli avvocati.

Ipotesi reclutamento regionale dei magistrati

Il ministro Nordio ha dichiarato che il ministero sta già lavorando per trovare altre soluzioni alla carenza di personale di cancelleria e di magistrati. Verrà presa in considerazione anche la possibilità di utilizzare la Legge speciale per Venezia al fine di trovare specifici meccanismi di intervento.

Afferma Nordio durante l’incontro pubblico con gli uffici giudiziari di Venezia: «Per la criticità legata ai trasferimenti dei magistrati e del personale in altre regioni, l’idea di un reclutamento a livello regionale potrebbe essere proficua per farli rimanere in sede».

«Vi sono difficoltà di carattere normativo e costituzionale che cercheremo di affrontare. La possibilità di applicare la Legge speciale per Venezia è un problema che non era mai venuto in mente, nemmeno a me, per un reclutamento più sollecito, e ci penseremo».

Venezia è la sede più sofferente di tutto il Paese

«La mia visita non è soltanto un tributo emotivo a un luogo dove ho esordito, ma è il riconoscimento che la sede di Venezia è la più sofferente e disagiata dell’intero Paese, con tratti così specifici che erano ampiamente noti».

Prosegue il ministro della Giustizia: «Forse sono il primo ministro che provenga dalla magistratura con l’esercizio della Procura, per di più in questa città. Ci sono i problemi di giustizia penale e quelli di Venezia, da quelli più banali come il trasporto dei fascicoli per via acquea, che ha sorpreso la mia amica Marta Cartabia, rimasta allucinata perché non aveva la più pallida idea di come funzionasse. Io un’idea ce l’ho, non è pallida ma è consolidata».

La visita prosegue a Treviso 

La visita del ministro Nordio prosegue al Tribunale di Treviso. «Mi è arrivata una cartolina verde per una raccomandata, in cui mi si avvisava di essere stato eletto alla Camera. Ore di lavoro per una lettera. Perché una notifica ottocentesca?».

«A noi interessa ora far funzionare la giustizia in modo efficiente, la lentezza dei nostri processi ci costa un 2% di Pil, significa 40 miliardi all’anno. A Treviso le condizioni sono intollerabili, il Veneto è più in sofferenza degli altri».

Prosegue: «Il Veneto non ha mai avuto un ministro della giustizia, tantomeno un magistrato. Purtroppo troppe volte i precedenti governi hanno volato troppo alto. Per me c’è un eccesso di burocrazie intollerabile».

La questione migranti

A Treviso il ministro Nordio si pronuncia anche sulla questione migranti: «La selezione dei migranti non è fatta in base ai loro interessi ma a quelli degli scafisti che li portano. I poveri tra i poveri, vecchi, malati e moribondi, rimangono lì. Quelli che vengono in Italia possono permettersi di pagare dai 2 ai 5 mila euro a queste organizzazioni che li trasportano».

«Noi li prendiamo», prosegue, «non perché siamo buoni ma perché siamo rassegnati. Per quanto riguarda la gestione dei migranti il trattato di Dublino è chiarissimo: la gestione deve essere fatta dallo Stato di primo accesso. Se una nave straniera in acque internazionali accoglie dei migranti, lo Stato di primo accesso è quello di bandiera di quella nave».

La vera soluzione «sta nell’accordarci con gli amici della Ue, che proprio secondo il trattato di Dublino chi viene soccorso in acque internazionali approda nello stato di bandiera della nave, e deve essere gestito da quello Stato. Curato dal porto più vicino, se necessario, ma poi portato nel territorio nello Stato di primo approdo. Sarebbe bene in ambito internazionale invocare questi accordi di Dublino, non accordi politici di nuova costruzione».

Ribadisce il Ministro che «il comandante di una nave può celebrare matrimoni a bordo, ricevere testamento: è un pubblico ufficiale. Chi accoglie il migrante lo fa nel suo Stato, che è quello della bandiera della nave. Non c’è altra soluzione dal punto di vista giuridico».

Il reato di abuso di ufficio

Conclude Nordio con il tempo del reato di abuso di ufficio, che secondo il Ministro è «richiesta dai sindaci soprattutto di sinistra, e quindi penso che daremo loro ascolto».

La visita di Nordio «non è soltanto un tributo emotivo a un luogo dove ho esordito, ma è il riconoscimento che la sede di Venezia è la più sofferente e disagiata dell’intero Paese».

Nelle prossime settimane seguirà un incontro più operativo e tecnico dei rappresentati della struttura ministeriale con le figure ai vertici degli Uffici giudiziari.

Nel frattempo a Teramo

Nel frattempo a Teramo si sono riuniti tutti i soggetti interessati alla Riforma Cartabia: Giudici, Procuratori della Repubblica, Avvocati, Camere Penali e Università.

Incontro necessario, leggiamo nel documento di chiamata a raccolta del tribunale, in quanto ci troviamo di fronte ad una riforma che «introdurrà rilevantissime modifiche al sistema processualpenalistico, oltre a quella penale».

Spiega Antonio Lessiani, il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Teramo: «E’ un cambio epocale, che contiene aspetti complicati. Sono stati realizzati dei gruppi di lavoro con i magistrati per approfondire materia e linee guida».

La volontà è quella di mettere in atto una prassi virtuosa, che passa dalla citazione in giudizio alla giustizia riparativa, dalla transizione digitale alle sentenze di proscioglimento. Continua Lessiani: «Teramo vuole farsi trovare pronta: l’efficienza del processo, trovare prassi condivise e il modo di applicarle. La Riforma c’è, ora si tratta di applicarla: gli operatori del diritto devono farsi trovare preparati».

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Colombia: l’aborto sarà depenalizzato

Decisione Corte Costituzionale colombiana: depenalizzazione parziale dell’aborto, possibile entro le prime 24 settimane

In questi giorni si parla di una svolta storica per il popolo sudamericano: la Corte Costituzionale cambia la sua mentalità nei confronti dell’aborto. In particolare, decide che sarà possibile richiedere l’interruzione volontaria della gravidanza entro le prime 24 settimane dall’inizio della gestazione. La decisione giunge in risposta al ricorso di cinque organizzazioni per il diritto di scelta delle donne nel 2020.

Stop alla penalizzazione dell’aborto in Colombia: come cambia la situazione per il Paese

Cinque voti in favore su nove: non male come risultato per un paese a maggioranza cattolica e storicamente conservatore. Difatti, fino a pochi giorni fa l’aborto in Colombia si consentiva solamente in circostanze specifiche, così com’erano stabilite in una precedente Sentenza che risale al lontano 2006. Qui, si affermava che l’aborto è consentito alle donne solo nelle tre situazioni che seguono:

  • Stupro;
  • Gravi malformazioni del feto;
  • Serio pericolo per la vita della donna.

Per entrare ancora di più nel merito decisionale della popolazione all’epoca, si pensi che chiunque abortiva o aiutava ad abortire al di fuori di quelle circostanze subiva pene fino a 4 anni e mezzo di carcere. Ora, non è più necessario fornire motivazione per abortire, sempre appunto che sia limitato ai sei mesi di gestazione. Inoltre, la Corte invita sin da subito governo e parlamento ad avviare i procedimenti per modificare la legge e applicare così le nuove disposizioni il prima possibile.

L’importanza di questo cambiamento

gruppi attivisti sottolineano come il diritto all’accesso all’aborto sia un essenziale passo in avanti per molte donne. In particolare, fanno notare come sarà più semplice per quelle donne che vivono ai margini, in stato di povertà e senza strutture ospedaliere adeguate. Tra l’altro, si stima che ogni anno in Colombia:

  • 400mila donne ricorrono a un aborto clandestino;
  • in media 70 di loro muoiono per complicazioni.

Inoltre, ricordiamo che in Italia, per fare un paragone, l’aborto è possibile entro le 12 settimane dall’inizio della gravidanza. Invece, l’aborto risulta ancora illegale nei seguenti Paesi:

  • Haiti;
  • Honduras;
  • Suriname;
  • Nicaragua;
  • Repubblica Dominicana;
  • El Salvador.

Vediamo quindi se il cambiamento colombiano sarà fonte d’ispirazione per altri Paesi, così come lo sono state le svolte in Argentina per i vicini Messico ed Equador nel 2020.

 

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Legali italiani su contenziosi virtuali tra aziende del settore moda e lusso

Oggigiorno, molte aziende commerciali si confrontano con la realtà virtuale e le possibilità che essa racchiude. Per esempio, i marchi della moda e del lusso sviluppano già prodotti e servizi specifici per battere la concorrenza anche nel metaverso. Intuibile è che ciò comporta anche nuovi contenziosi e problemi legali inediti sui quali anche gli avvocati italiani si stanno confrontando.

Avvocati difendono contenziosi NFT dell’alta moda nel metaverso, primi contenziosi in USA

Si parla di metaverso, ma sarebbe meglio parlare di metaversi, dato che ne esistono già di diversi, come ad esempio:

A questi mondi paralleli e virtuali di realtà aumentata già si affacciano le prime grandi aziende, specialmente nel settore della moda. Un esempio fra tutti è Gucci, che crea lo spazio virtuale “Vault” e diverse esperienze su Roblox. Tra queste, citiamo la versione digitale della borsa Dionysus, che è già stata venduta per circa 4.100 dollari.

primi ricorsi legali hanno luogo negli Stati Uniti e si legano agli NFT – non fungible token. Ricordiamo che si tratta di opere digitali unicheimmodificabili e la cui proprietà si certifica attraverso la blockchain. Ognuna di queste opere può potenzialmente essere venduta per cifre molto alte. Vediamo ora due casi d’esempio.

Le battaglie legali per gli NFT di Hermès e Nike

Principalmente, fa scalpore la battaglia legale tra Hermès e l’artista Mason Rotschild. Quest’ultimo viene citato in giudizio per violazione del copyright a seguito della creazione delle “Metabirkin Nft. Si tratta di una serie limitata di 100 modelli che si ispirano alla celebre borsa dell’azienda francese, che tuttavia si dice all’oscuro del progetto.

Perciò, l’artista fa appello al Primo Emendamento: ritiene che la sua creazione si possa comparare alla “Campbell’s soup cans” di Andy Warhol. Ora, la parola spetta ad un giudice di New York.

Altro caso che ruota sempre attorno agli NFT riguarda il contenzioso tra Nike e StockX. Quest’ultima è una piattaforma di rivendita dal valore di 3,8 miliardi di dollari. Al proposito, i legali di Nike sostengono che tale piattaforma vendesse oltre 500 NFT di scarpe Nike senza la loro autorizzazione. Così facendo avrebbero danneggiato il marchio di scarpe tra i più conosciuti al mondo.

L’importanza di registrare il proprio marchio nelle realtà virtuali

Nonostante il mondo NFT e il metaverso siano ancora da scoprire, molti si stanno già interessando ad occupare il proprio spazio anche in tale universo. Ad esempio, notiamo come McDonalds registrava una decina di giorni fa il proprio marchio McDelivery per aprire ristoranti virtuali. Con questi, sarà possibile prenotare i propri pasti, da degustare nel mondo reale.

Invece, per quanto riguarda il mondo della moda, molti avvocati si trovano d’accordo nel sostenere che le battaglie legali tra brand siano già molte. A tal proposito, vediamo quali sono alcuni pareri legali in merito a queste nuove realtà e concorrenze digitali. Innanzitutto, l’esperta in fashion law Daniela Ampollini afferma che:

Qualcosa si muove, sul fronte dei brand. Molti stanno cercando di ampliare o modificare la sfera di tutela del marchio e rivendicare nuove categorie o nuove diciture, come quella dei prodotti virtuali nella classe 9, quella dei software. Altri stanno approntando nuovi servizi per il monitoraggio di ciò che avviene sulle piattaforme, che per ora non sono diverse da un social ma sicuramente molto più complesse”.

A questo parere si aggiunge quello di Riccardo Traina Chiarini, associato nel medesimo studio dell’avvocatessa (Trevisan & Cuonzo):

“Un Nft è un certificato digitale di proprietà del file a esso associato, pertanto il solo fatto di creare un Nft a mio parere non costituisce, di per sé, una violazione. Né, d’altro lato, il solo fatto di creare un Nft conferisce all’immagine digitale a esso associata protezione sotto il cappello del diritto d’autore.”

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Bocciato referendum su responsabilità dei magistrati

Corte Costituzionale ammette i 5 referendum della Lega e ne ferma altri 3

Tre giudizi di inammissibilità e cinque di ammissibilità: questo l’esito del secondo round alla Corte Costituzionale che si esprime sugli 8 referendum in programma. Nello specifico, si promuovono le proposte della Lega mentre si bocciano i quesiti sostenuti da radicali e associazioni. Hanno fatto maggior scalpore le bocciature a cannabis ed eutanasia legale. Ma vediamo ora nello specifico cos’è invece passato.

Bocciato referendum su responsabilità civile magistrati, cannabis ed eutanasia legale, via al dibattito

Indubbiamente, ora il dibattito politico si accenderà sulle tematiche legate all’approvazione dei quesiti del centrodestra. In particolare, tre fra i referendum ammessi sono di importanza rilevante. Ossia, i seguenti.

Innanzitutto, il raggiungimento di una separazione di fatto tra le funzioni di giudice e quelle di pubblico ministero. Si tratta di una battaglia storica del centrodestra che coinvolge in pieno il mondo dell’avvocatura. Infatti, ora sarà obbligatorio scegliere una funzione specifica dopo il superamento del concorso per l’ingresso in magistratura. E quella sarà, sempre.

Inoltre, sarebbero un evento epocale se ricevessero l’approvazione definitiva anche:

La Legge Severino

In particolare, riordiamo che la Legge Severino riguarda la decadenza per i parlamentari condannati definitivamente e per gli amministratori locali, anche in caso di condanna di primo grado. Questa specifica si annullerebbe e dunque si passerebbe alla valutazione compiuta dall’autorità giudiziaria sull’interdizione dai pubblici uffici.

La custodia cautelare

A questo proposito, la custodia cautelare resta possibile solo in questi due casi:

  • Pericolo di fuga;
  • Inquinamento delle prove.

Dunque, si cancellerebbe il pericolo di ripetizione di un altro reato della stessa specie di quello per il quale si sta procedendo. Inoltre, scatta la sanzione con pena superiore a 4 o 5 anni se la misura si eseguirà in carcere.

Inoltre, cederebbe anche la possibilità d’applicazione della misura per il reato di finanziamento illecito ai partiti.

Bocciato referendum su responsabilità civile magistrati, passano due quesiti Riforma Cartabia

Infine, ricordiamo due “minori” quesiti altrettanto ammessi alla Corte Costituzionale nella giornata di ieri. Parliamo di:

  • Voto degli avvocati nei consigli giudiziari;
  • Firme a sostegno delle candidature al Csm.

 

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Rinviata ad aprile l’udienza processo Zaki

Rinviata udienza “decisiva” per Patrick Zaki, imputato per diffusione di notizie false

Patrick Zaki annuncia che il suo processo è rinviato al prossimo 6 aprile. Però, sarebbe stato ieri il giorno della quarta udienza, quella che doveva decidere delle sue sorti: altri 5 anni in carcere o libertà. Dopo 22 mesi di custodia cautelare in carcere, Patrick viene rilasciato l’8 dicembre scorso, ugualmente imputato nel processo a suo carico per “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese”.

Rinvio dell’udienza decisiva per il processo Zaki, in stallo l’ottimismo per la libertà

Patrick Zaki è un attivista per i diritti umani e studente dell’ateneo di Bologna. Ieri poteva coincidere con il giorno della sua libertà ma il processo e l’ultima udienza in agenda subiscono un rinvio. Il contesto è Mansura, sua città natale sul delta del Nilo, in Egitto. Qui, si terrà il procedimento presso il tribunale speciale per le seguenti accuse:

  • Minaccia alla sicurezza nazionale;
  • Incitamento a proteste illegali;
  • Sovversione;
  • Diffusione di notizie false;
  • Propaganda per il terrorismo.

In merito, il portavoce di Amnesty International in ItaliaRiccardo Noury commenta:

“È un’attesa ancora enormemente lunga quella di Patrick per avere finalmente la sua libertà. È una data che ricorre quella del 6 aprile: nel 2020 e nel 2021 c’erano state altre udienze in questa data. Speriamo che sia l’ultimo giorno in cui Patrick si presenterà di fronte a un giudice e fino ad allora c’è da aspettare, da stargli vicino e accompagnarlo in questa lunga attesa di quella che speriamo sia l’ultima udienza”.

Processo Zaki, rinvio udienza ad aprile: libertà o condanna a cinque anni di carcere?

Le persone coinvolte erano per la maggiore ottimiste al proposito della sua libertà, ma la possibilità di una condanna a cinque anni di carcere non è del tutto impossibile. Ricordiamo che Patrick veniva rilasciato l’8 dicembre scorso, pur restando imputato nel processo a suo carico per “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese”.

Nello specifico, secondo la Procura il reato si perpetrava con un suo articolo del 2019. Il contenuto riguardava la persecuzione dei cristiani in Egitto da parte dell’Isis e la discriminazione dalle frange della società musulmana. Ora, sottolineiamo che il massimo della pena per questo tipo di accusa è di cinque anni di reclusione.

Dunque, né Patrick né i suoi legali sembrano preoccupati per le accuse di istigazione al terrorismo che lo tenevano per oltre un anno e mezzo in custodia cautelare. Inoltre, non si da già più peso alle imputazioni sui 10 post Facebook di controversa attribuzione, sebbene formalmente non archiviate. Quindi, per dar vita al processo imperniato sull’articolo sui copti.

 

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