L’Italia è percepita come un Paese meno corrotto

Italia avanza di dieci posizioni nella classifica Transparency International del 2021

Nella classifica dell’anno appena passato sull’Indice di percezione della corruzione dei vari Paesi l’Italia sale di una decina di posizioni. Dunque, il ranking di Transparency International che dimostra qual è la percezione in merito di 180 Paesi posiziona l’Italia al 42esimo posto. Ne consegue che sta crescendo la fiducia internazionale nei confronti del Bel Paese, che rimane tuttavia ancora lontano dalla media dei “colleghi” dell’UE.

Ranking nella classifica mondiale sulla percezione della corruzione

Il 42esimo posto che si guadagna l’Italia corrisponde ad un punteggio di 56 per la classifica di Transparency international14 punti in totale conquista il Bel Paese nel giro di dieci anni, mentre gli altri Paesi dell’UE la distaccano con 64 punti.

A tal proposito, Transparency afferma che il progresso “è il risultato della crescente attenzione dedicata al problema della corruzione nell’ultimo decennio e fa ben sperare per la ripresa economica del Paese dopo la crisi generata dalla pandemia”. Ciononostante, evidenzia che non ci sono stati cambiamenti sconvolgenti a causa del periodo: il livello di percezione della corruzione rimane fermo.

Ecco chi sono i primi in classifica:

  • Danimarca, Nuova Zelanda, Finlandia: 88 punti;
  • Germania: 80 punti;
  • Regno Unito: 78.

Invece, in coda alla classifica si trovano Siria, Somalia, Sud Sudan.

Ora, specifichiamo che l’indice che si va ad elaborare ogni anno si basa sulla percezione del livello di corruzione nel settore pubblico. Inoltre, l’analisi si compie attraverso l’impiego di 13 strumenti di analisi e di sondaggi che si rivolgono a delle persone esperte in materia.

In particolare, secondo l’analisi un punteggio inferiore a 50 rappresenterebbe l’evidenza di importanti problemi di corruzione. E di conseguenza, il rischio è quello di un arretramento della tutela dei diritti umani, la libertà d’espressione e la crisi della democrazia.

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Evasione fiscale e denuncia anonima

È valida la denuncia anonima di uno scontrino o fattura mancati?

Indubbiamente, in materia tributaria le denunce devono apportare la firma personale. Difatti, questa accortezza serve a evitare che le denunce diventino strumento di ritorsione contro i nemici o i concorrenti. Tuttavia, la denuncia anonima di evasione fiscale potrebbe non passare inosservata in alcuni casi specifici. Vediamoli assieme.

Che valore ha la delazione all’Agenzia delle Entrate o alla Guardia di Finanza?

Cosa prevede la legge nei casi di delazione? Nello specifico, ci si chiede se è possibile denunciare alla Finanza uno di questi casi specifici:

  • Negoziante che non emette lo scontrino;
  • Medico o avvocato che non rilascia la fattura al cliente;
  • Rivale commerciale che non dichiara i propri incassi (perciò, falsando la concorrenza).

Ora, specifichiamo che la delazione corrisponde a una denuncia segreta con finalità di un tornaconto personale. Dunque, si invita il giudice o un’autorità pubblica alla conoscenza di un illecito in maniera anonima.

Oggigiorno, in Italia questo genere di denuncia non ha alcun valore. Di conseguenza, né l’Agenzia delle Entrate né la Guardia di Finanza hanno l’obbligo di prendere in considerazione le lettere che non apportano la firma. Effettivamente, a volte è solo conoscendo il nome del denunciante che il denunciato può difendersi in maniera appropriata.

In altri termini, la delazione non costituisce una prova d’evasione. Altrimenti, chiunque potrebbe essere soggetto a sanzioni, magari gravi, a causa di chi agisce nell’anonimato. Quest’ultimo, di certo non si farebbe scrupoli a denunciare il primo che capita, dato che la sua identità resterebbe avvolta nel mistero.

Cassazione in merito alla validità della denuncia anonima di evasione fiscale

In merito, la Corte di Cassazione afferma che con la delazione non si può risalire ad accertamenti fiscali o recuperi d’imposta. Però, tali controlli sono necessari al fine di riscontrare ulteriori indizi, oltre alle semplici testimonianze di uno sconosciuto.

Tuttavia, la denuncia anonima non sempre è inutile. In effetti, qualora ad essa si aggiungono prove circostanziali o documentazione oggettiva che la supporti, può definirsi fonte d’innesco dei controlli. Ossia, essa potrebbe avviare le verifiche ulteriori per mano dell’ufficio.

Indirettamente, anche la stessa legge tributaria riconosce un ruolo alla delazione. Infatti, i casi in questione riguardano gli evasori totali (ovvero, quelli che non presentano la dichiarazione dei redditi). Dunque, per legge gli uffici delle imposte possono recuperare le imposte sulla base di dati e notizie che raccolgono. Quindi, hanno la facoltà di avvalersi anche di indizi che non siano “gravi, precisi e concordanti”.

 

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Rimborso delle spese legali imputati assolti

Via al decreto con criteri e modalità d’erogazione di rimborsi spese legali degli assolti

Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia di concerto con il Ministro dell’Economia e delle finanze Daniele Franco emanano un nuovo decreto. Tale atto definisce i criteri e le modalità di erogazione del Fondo per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti. Dunque, ne si delineano precisamente specifiche e tempi e l’ammontare del fondo è pari a 8 milioni annui.

Rimborso spese legali ad alcuni imputati assolti: ecco il nuovo decreto del Ministero

Innanzitutto, chi è il destinatario del fondo rimborsi? Possono accedere a tale risarcimento le seguenti categorie di soggetti destinatari di una sentenza di assoluzione definitiva pronunciata perché:

  • Il fatto non sussisteva;
  • Non commette il fatto;
  • Il fatto non è reato o la legge non lo prevede come tale.

In particolare, quest’ultima specifica esclude il caso in cui la pronuncia interveniva a seguito della depenalizzazione dei fatti oggetto dell’imputazione.

Invece, chi sono gli esclusiNon possono accedere al fondo:

  • Coloro per i quali anche se alcuni capi d’imputazione li assolvono, altri li condannano;
  • I soggetti che ricevono una sentenza di estinzione del reato per prescrizione o amnistia;
  • Coloro che beneficiano nel medesimo procedimento del patrocinio a spese dello Stato;
  • Chiunque ottenga la condanna del querelante alla rifusione delle spese di lite.

Ciò detto, aggiungiamo che tale rimborso si riconosce nel limite massimo di 10.500 euro. Questa somma si ripartisce in tre quote annuali, a partire dall’anno successivo a quello in cui la sentenza diviene irrevocabile.

Come presentare domanda per rimborso spese legali degli assolti e quali sono i tempi

Chiunque richieda il rimborso (ossia, l’imputato) deve presentare istanza di accesso al fondo esclusivamente tramite piattaforma telematica. A questa si può accedere dal sito giustizia.it con le credenziali SPID di livello due.

Tra gli elementi che dovranno includersi nella richiesta ci sono:

  • Durata del processo, oggetto della sentenza di assoluzione irrevocabile. Questa si calcola dalla data di emissione del provvedimento con il quale si esercitava l’azione penale, alla data in cui sentenza di assoluzione è definitiva;
  • Attestazione che l’importo di cui si chiede il rimborso si versi al professionista legale tramite bonifico. Questo a seguito di emissione della parcella valida per il Consiglio dell’Ordine.

Invece, per quanto riguarda i tempi di emissione, la domanda si dovrà presentare entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello in cui la sentenza è irrevocabile. Tuttavia, per le sentenze irrevocabili nel corso del 2021, le domande potranno presentarsi solo a partire dal prossimo 1° marzo fino al 30 giugno 2022.

I criteri di valutazione delle istanze per il risarcimento delle spese di chi si assolve

Come dicevamo, il fondo non ha valore illimitato, ma pari a 8 milioni annui. Dunque, si darà precedenza a:

  • Quelle istanze dell’imputato irrevocabilmente assolto con sentenza resa dalla Corte di Cassazione (giudice del rinvio). Oppure, all’esito di un processo che dura complessivamente oltre otto anni;
  • Alle istanze rese dal giudice di appello. Oppure, all’esito di un processo che dura più di cinque e fino a otto anni;
  • A quelle rese dal giudice di primo grado. Oppure, all’esito di un processo che dura in tutto fino a cinque anni.

Nell’ambito di ciascun gruppo si darà preferenza alle istanze per processi più lunghi. E, a parità di durata, a quelle con imputati con reddito inferiore. Inoltre, il Ministero effettuerà un controllo di effettiva corrispondenza tra quanto si dichiara e quanto emerge dalla documentazione allegata. Per fare ciò, si avvale del proprio personale o di Equitalia giustizia S.p.A.

Ora, si attende la pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale. Il merito principale per questa innovazione è dell’onorevole Enrico Costa, responsabile giustizia del partito Azione. Infatti, quest’ultimo presentava un emendamento alla Legge di Bilancio e contattava il Ministero affinché emanasse il decreto.

Al proposito, egli commenta:

“è sicuramente importante che la procedura possa partire; tuttavia, a differenza della norma il cui testo era molto snello, mi pare che con il decreto sia stata prevista una eccessiva burocratizzazione per compilare la domanda di accesso al Fondo. Si arriverà al punto che l’imputato assolto dovrà rivolgersi nuovamente all’avvocato e pagarlo per aiutarlo a compilare la richiesta”.

 

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In Tribunale con il Green Pass

Scatta l’obbligo di Green Pass anche per gli avvocati: è quanto prevede l’ultimo decreto

Il nuovo decreto in Gazzetta Ufficiale dal 8 gennaio 2022 prevede nuove misure di contrasto al Covid. Tra queste, si legge dell’obbligo di Green Pass anche per gli avvocati nell’accesso agli uffici giudiziari. Comunque, ne sono esenti i testimoni e le parti del processo. Quindi, vediamo assieme le specifiche nel dettaglio.

Obbligatorio il Certificato Verde anche per gli avvocati in Tribunale, le specifiche del decreto

Innanzitutto, nel decreto si evince che oltre ai magistrati l’obbligo del Green Pass si estende anche a:

  • Difensori;
  • Consulenti;
  • Periti;
  • Altri ausiliari del magistrato, estranei alle amministrazioni della giustizia.

Tuttavia, ricordiamo che le disposizioni non si applicano ai testimoni e alle parti del processo. Difatti, il decreto chiarisce che:

“L’assenza del difensore conseguente al mancato possesso o alla mancata esibizione della certificazione verde Covid-19 non costituisce impossibilità di comparire per legittimo impedimento”.

Inoltre, il Green Pass base è necessario dal 20 gennaio anche in carcere per i colloqui visivi con i detenuti e gli internati negli istituti penitenziari per adulti e minori. A tal proposito, si specifica che l’obbligo di green pass per accedere agli uffici giudiziari va bene esteso agli avvocati purché sia una misura limitata nel tempo e non danneggi i cittadini.

In merito, il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati romaniAntonino Galletti afferma che “gli avvocati non vaccinati proveranno a fare ricorsi, e a far valere le loro ragioni”.  Inoltre, Galletti spiega che l’unico modo per fare ricorso sarà quello di subire le sanzioni e poi impugnarle. Eventualmente, per arrivare a sollevare la questione di legittimità costituzionale.

Infine, ricorda l’esempio dalla giustizia amministrativa: tutti i provvedimenti relativi a ricorsi sul Covid, anche quelli sull’obbligo di vaccino per i medici, sono stati di rigetto. Quanto ai possibili interventi dell’Ordine, conclude il presidente del Coa di Roma, “sarà onere di chi non fa il vaccino trovare un sostituto, valuteremo se mettere in piedi un sistema di sostituzioni che possa aiutare i colleghi”.

 

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Cartabia, proposte concrete per migliorare carceri

Cartabiaun messaggio di ringraziamenti natalizi e proposte concrete per migliorare le carceri

In occasione delle festività natalizie la guardasigilli Marta Cartabia dedica un messaggio a istituti penitenziarimagistrati e al personale degli uffici giudiziari. Qui, riconosce il delicato ruolo che ogni soggetto svolge e tanto più in una situazione storica delicata come la corrente. Inoltre, propone di percorrere con ognuno di loro un percorso di rinnovamento con proposte concrete per migliorare le carceri, che giovi all’intera comunità penitenziaria.

Rinnovare il carcere con soluzioni concrete, questa la proposta della guardasigilli Cartabia

«Il mio è un messaggio di vicinanza, oltre che di riconoscenza. Nella convinzione di poter percorrere al vostro fianco un percorso di rinnovamento che giovi all’intera comunità penitenziaria». Queste le parole della Ministra della GiustiziaMarta Cartabia, in occasione delle festività invernali.

Poi, aggiunge che di recente sono terminati i lavori di una Commissione a cui chiedeva di lavorare in merito a un tema che le sta a cuore. Ovvero, elaborare proposte per il miglioramento della vita quotidiana in carcere. Inoltre, Cartabia rimarca che si tratta di proposte concrete e nate dall’esperienza di chi vive il carcere ogni giorno.

Ovviamente, tali proposte si ispirano “ai valori costituzionali, che sempre dobbiamo tenere nel nostro sguardo. Ogni mattina in cui ricominciamo il nostro lavoro varcando le soglie dei cancelli di detenzione”

La ministra ribadiva il suo impegno per risolvere l’emergenza carcere qualche giorno fa in occasione di un incontro con Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. La Commissione istituita dalla guardasigilli per migliorare le condizioni nelle carceri è capeggiata da Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto Costituzionale.

Al proposito, egli afferma che: “Mi ha chiesto di sospendere lo sciopero della fame per le feste natalizie e mi ha autorizzato di rendere pubblico questo suo auspicio”.

 

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Il 4 novembre scorso, il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto che attua la direttiva UE n. 2018/1673 relativa alla lotta al riciclaggio attraverso il diritto penale. Il decreto introduce diverse novità.

Ecco una panoramica.

LOTTA AL RICICLAGGIO, PROCEDIBILITÀ PIÙ SNELLA

L’art. 9 del codice penale disciplina il delitto comune del cittadino all’estero.
Nei casi previsti da tale articolo, il decreto prevede che non sia necessaria la richiesta del Ministro della Giustizia, l’istanza o la querela della persona offesa anche in caso di reato di ricettazione (art. 648 c.p.) o di reato di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648 ter c.p.).

REATO DI RICETTAZIONE

L’art. 648 del codice penale che disciplina il reato di ricettazione si arricchisce di due nuovi commi che introducono:
– la pena alla reclusione da 1 a 4 anni e multa da 300 a 6000 euro se il fatto riguarda denaro o altri beni che provengono da contravvenzione punita con l’arresto nel minimo a 6 mesi e nel massimo superiore a un anno;
– l’innalzamento della pena nel caso in cui il reato sia commesso svolgendo un’attività professionale.

Il comma 2 viene sostituito con il seguente:

«Se il fatto è di particolare tenuità, si applica la pena della reclusione sino a 6 anni e della multa sino a euro 1.000 nel caso di denaro o cose provenienti da delitto e la pena della reclusione sino a 3 anni e della multa sino a euro 800 nel caso di denaro o cose provenienti da contravvenzione».

Il terzo comma viene modificato in:

«Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l’autore del reato da cui il denaro o le cose provengono non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale reato».

REATO DI RICICLAGGIO

L’art. 648 bis c.p. perde la dicitura “non colposo” presente nel primo comma. Ciò significa che gli estremi del reato di riciclaggio si configurano anche quando, fuori dei casi di concorso nel reato, si sostituisce o si trasferisce denaro, beni o altre utilità che provengono da un delitto colposo.

È poi aggiunto un secondo comma, che introduce tra i reati presupposto del riciclaggio anche quelli di tipo contravvenzionale:

«La pena è della reclusione da 2 a 6 anni e della multa da euro 2.500 a euro 12.500 quando il fatto riguarda denaro o cose provenienti da contravvenzione punita con l’arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi».

L’AUTORICICLAGGIO

Anche l’art 648 ter 1 c.p. che disciplina l’autoriciclaggio perde la dicitura “non colposo” al primo comma. Pertanto, il reato colpisce anche chi commette o concorre a commette un delitto colposo e «impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa».

Il comma due diventa:

«La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni».

È aggiunto poi un ulteriore comma, che indica la reclusione da 1 a 4 anni e la multa da 2.500 a 12.500 euro qualora il fatto riguardasse denaro o cose provenienti da contravvenzione punita con l’arresto nel minimo di 6 mesi e nel massimo superiore a un anno.

RICICLAGGIO E ATTIVITÀ MAFIOSE

Nel caso in cui il denaro, i beni o le altre utilità provenissero da un delitto commesso con le condizioni o le finalità previste dall’art. 416 bis 1, le pene applicate sono quelle previste al primo comma dell’art.648 tre 1 c.p.: reclusione da 2 a 8 anni e multa da 5.000 a 25.000 euro.
L’art.416 bis 1 riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti in caso di reati connessi alle attività mafiose.

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Diritto all’oblio e deindicizzazione per tutelare gli assolti

La riforma del processo penale (legge n. 134/2021), in vigore dal 19 ottobre 2021, ha introdotto ufficialmente il diritto all’oblio, ovvero la cancellazione di tutti i contenuti web relativi ai casi che si concludono con archiviazione, assoluzione o non luogo a procedere.

Il diritto all’oblio è inserito all’art.25 e prevede che in tali casi venga emesso un provvedimento di deindicizzazione di tutti i dati personali di indagati o imputati dai motori di ricerca.

TUTELARE RISERVATEZZA E IMMAGINE

La disposizione mira a evitare gli effetti negativi che il perdurare di tali informazioni potrebbe avere sulla vita di chi è stato coinvolto in indagini o processi ma ne è uscito “pulito”.

Internet consente infatti di poter reperire facilmente informazioni su persone coinvolte in procedimenti. Tali informazioni potrebbero però non essere aggiornate rispetto allo sviluppo degli stessi. Ciò potrebbe intaccare la reputazione e la riservatezza presenti e future delle persone citate.

In un’intervista a La Repubblica del settembre 2019, l’ex Garante della Privacy Antonello Soro riassume così la questione:

«La rete annulla la distanza temporale tra una pubblicazione e la successiva, ospitando senza soluzione di continuità notizie anche risalenti, spesso superate dagli eventi e per ciò non più attuali.»

DEINDICIZZAZIONE E DIRITTO D’INFORMAZIONE

Gestire il diritto all’oblio non è però semplice. La deindicizzazione può infatti scontrarsi con altri diritti, come quello all’informazione.

A tal proposito si è espressa anche la Cassazione con l’ordinanza 15160/2021.
L’ordinanza si riferisce al caso di un articolo di giornale pubblicato sul web in cui un imprenditore veniva associato a dei clan mafiosi locali, in assenza di qualsiasi indagine. La Cassazione ha ritenuto che il diritto di informazione fosse lesivo dell’immagine dell’imprenditore e ha imposto la deindicizzazione dell’articolo.

In ogni caso, sarà compito del Governo bilanciare tutti gli elementi in gioco e rendere effettiva la disposizione attraverso uno specifico decreto legislativo.

DIRITTO ALL’OBLIO, I RIFERIMENTI EUROPEI.

La novità inserita nella riforma del processo penale segue la scia delle disposizioni europee già esistenti, prima fra tutte il GDPR.

In particolare, all’art.17 del Regolamento (UE) 2016/679 si parla di diritto alla cancellazione. Tale diritto permette a un soggetto di chiedere al titolare del trattamento la cancellazione dei propri dati personali e impone a questo di farlo “senza ingiustificato ritardo”.

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Ex spione condannato per due reati

Leggere email della ex e tentare di conoscerne il traffico telefonico è reato

Processo penale per l’ex marito che legge le email della moglie e accede al sito del gestore telefonico per monitorarne il traffico. La Cassazione definisce il reato in questione come violazione della corrispondenza e accesso abusivo ad un sistema informatico. In effetti, si tratta di reato anche se l’imputato è l’effettivo proprietario della Sim e ne conosce le credenziali.

La tutela della riservatezza prescinde da ragionamenti connessi al diritto di proprietà

L’ex marito legge le email della moglie e accede al sito del gestore telefonico della stessa per conoscerne il traffico telefonico. La Corte d’Appello (ai sensi dell’art.81 comma 2 artt. 615 ter e 616 c.p) qualifica il fatto in accesso abusivo a sistema informatico o telematico e violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza. In questo quadro, la pena viene definita in tre mesi di reclusione; quindi, l’imputato ricorre in Cassazione.

I motivi di ricorso sollevati dall’ex marito vanno dall’intervenuta prescrizione alla mancanza di violazione passando per l’eccessiva somma risarcitoria stabilita. In effetti, la Cassazione annulla i reati penali per prescrizione, però dichiara inammissibile per manifesta infondatezza il terzo motivo sollevato dall’uomo. Infatti, l’accesso abusivo ad una casella di posta elettronica protetta da password costituisce -parallelamente- delitto di accesso abusivo del sistema informatico e violazione di corrispondenza.

Nello specifico è in relazione all’acquisizione del contenuto delle email custodite nell’archivio che tale reato concorre con quello di violazione di corrispondenza,. Infine, si tratta di reato anche se l’imputato è l’effettivo proprietario della Sim e ne conosce le credenziali. Infatti, la tutela della riservatezza prescinde da ragionamenti connessi al diritto di proprietà: confermato l’importo di 1.500 euro a risarcimento del danno.

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Negli scorsi giorni l’Upa (Unione praticanti avvocati) ha denunciato il problema della difficoltà delle tracce d’esame. In effetti, tanto l’Upa quanto la Consulta dei praticanti dell’Aiga, sostengono che i quesiti posti non rientrino nelle linee guida ministeriali.

Non solo: le tracce variano da commissione a commissione, il che potrebbe implicare una disparità di trattamento degli esaminandi.

Tracce troppo lunghe e complesse per il poco tempo a loro disposizione

In questa sessione d’esame particolare, caratterizzata dal covid-19, gli aspiranti avvocati si sono dovuti confrontare anche con difficoltà intrinseche alle tracce. In effetti, secondo l’Unione praticanti avvocati, le tracce date agli esami non corrisponderebbero alle linee guida ministeriali. Nella fattispecie, si fa riferimento a ciò che finora è accaduto nelle Corti di appello di Genova, Firenze, Lecce e Salerno.

A tal proposito, il presidente Upa afferma che talvolta si è trattato di tracce attinenti a materie tassativamente escluse dalle linee guida. Perciò, i candidati non si sarebbero affatto preparati in quelle discipline specifiche e peculiari proprio perché sapevano che erano da escludere. Secondo la Consulta dei praticanti dell’Associazione italiana giovani avvocati, a ciò si aggiunge che le tracce siano troppo lunghe e complesse.

In effetti, in questa sessione, è capitato che ai candidati siano proposti quesiti normalmente sottoposti per la redazione degli scritti classici. Tuttavia, in questo caso non si sono potute avere a disposizione le stesse sette ore di tempo, ma solo 30 minuti. In questo quadro, a poco sembrano valere le rassicurazioni del ministro Cartabia sull’importanza fondamentale da assegnare al doppio orale.

 

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IL RIMBORSO DELLE SPESE LEGALI PER GLI ASSOLTI

L’idea del rimborso è arrivata con la proposta da parte di Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione.

L’emendamento Costa alla Manovra 2021 doveva introdurre il nuovo articolo 177 bis al codice penale (Risarcimento economico degli imputati assolti con sentenza penale passata in giudicato):

«nel processo penale, all’imputato assolto con sentenza divenuta irrevocabile perché il fatto non sussiste, perché non ha commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, è riconosciuto un rimborso delle spese legali nel limite massimo di importo pari a 10.500 euro».

Il rimborso sarebbe stato ripartito in tre quote di pari importo, con scadenza annuale, a partire dall’anno successivo a quello in cui la sentenza fosse divenuta irrevocabile. Le somme non avrebbero inciso sul reddito dell’individuo.

I MOTIVI DEL RITARDO

È lo stesso Enrico Costa, sul Sole 24 Ore, a spiegare che al momento non sono ancora arrivate le somme per il rimborso delle spese legali per chi è assolto in via definitiva.
Il motivo? Nonostante l’approvazione della norma a dicembre 2020, semplicemente non è giunto alcun decreto da parte del Ministro della Giustizia e del MEF. I Ministeri avevano due mesi di tempo, ma ne sono passati più del doppio.
Senza decreto i rimborsi non possono essere concessi, anche perché manca la definizione dei criteri e delle modalità di erogazione.

Costa commenta così: «Auspichiamo che il quotidiano, silenzioso e certosino lavoro del Governo si estenda anche a questi atti che, ove ritardati ulteriormente, manderebbero in fumo l’applicazione di norme di civiltà, che non sono bandierine identitarie, approvate dal Parlamento».

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