Like su post razzisti, è istigazione all’odio

Mettere “mi piace” a contenuti di carattere antisemita sui social corrisponde a istigazione all’odio?

Mettere un “mi piace” a un post razzista sui social network è reato di istigazione all’odio (604 bis)? Forse non sempre, ma si sa che leggere il pensiero e la personalità di qualcuno online diventa sempre più facile. Di conseguenza, risulta semplice anche capire il soggetto dietro la tastiera, specialmente considerando tutte le attività a cui si lega. Ecco quindi il caso di specie che coinvolge la Cassazione con la sentenza n. 4534.

Like su post razzisti è istigazione all’odio se l’attività social dell’indagato è specifica

Il primo passo che l’investigazione compie nella verifica della questione è proprio il semplice “like” a post dal chiaro intento razziale. In effetti, il gradimento dimostra non solo quello che un individuo pensa, ma anche che ci tiene che più persone leggano tale post e approvino il suo messaggio. Difatti, ricordiamo che l’algoritmo di Facebook prevede una crescente diffusione del post se più e più persone vanno a interagire con esso.

Successivamente, l’indagine al caso deve proseguire e allargare sempre più gli orizzonti sino a prendere in considerazione l’attività generale del soggetto. Innanzitutto, nel caso in questione l’individuo condivideva idee fondate sulla superiorità della razza sulle piattaforme:

  • Facebook;
  • VKontacte;
  • Whatsapp.

Inoltre, gli investigatori rilevano il rilancio di tali messaggi da diversi account e su diverse altre piattaforme, e tutti riconducevano all’indagato. Per di più, verificano l’avvenire di alcuni incontri fisici con gli “adepti” di tale individuo.

Cosa ne pensa la difesa, il ricorso e la sentenza della Cassazione

Al proposito, la difesa sosteneva che:

  • contatti fisici con chi presumibilmente aderiva all’organizzazione non poteva considerarsi indice valido nel giudizio di un reato di propaganda di idee on line;
  • like sono semplici espressioni di gradimento. Ergo, non potevano dimostrare né l’appartenenza al gruppo né la condivisione degli scopi immorali e illeciti.

Inoltre, la difesa insisteva sul fatto che tali azioni non sfociavano comunque mai nell’antisemitismo né andavano oltre la libera manifestazione del pensiero.

A questo punto, la Cassazione contesta le motivazioni della difesa con la sentenza n. 4534. Infatti, la Suprema Corte fa notare anzitutto che l’adesione e condivisione riguardava proprio contenuti discriminatori e negazionisti. Ossia, dicevano che gli ebrei sono nemici indiscussi e che la Shoah è una semplice invenzione.

Infine, non giudicano scontata la diffusione di tali messaggi sui social network, dove è risaputo sia molto facile divenire virali se lo si vuole. Al proposito, nella sentenza si legge che:

“La funzionalità newsfeed, ossia il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente è, infatti, condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio”.

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