gestione separata INPS

Iscrizione alla Gestione Separata: conta l’attività non il reddito

Per gli avvocati, l’iscrizione alla gestione separata INPS non si basa sul reddito annuo ma sull’esercizio abituale della professione.

Ciò significa che l’iscrizione è obbligatoria anche se non si raggiugne la soglia di reddito richiesta per l’iscrizione a Cassa Forense.

A stabilirlo è la Cassazione con la sentenza n. 4419/2021.

IL CASO

Un tribunale stabilisce che un avvocato non ha l’obbligo di iscriversi alla gestione separata INPS nei periodi in cui reddito prodotto è inferiore ai 5000 € previsti per l’iscrizione a Cassa Forense.

In Corte d’Appello la decisione viene confermata, ma l’INPS ricorre.

Il motivo sollevato dall’istituto è uno: l’idea che avere un reddito inferiore ai 5000 € esenti gli avvocati dall’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata.

La Cassazione ritiene fondato il ricorso.

GESTIONE SEPARATA INPS, ATTIVITÀ E REDDITO

La Cassazione sottolinea che l’obbligo di iscriversi alla Gestione Separata INPS ricade su chiunque eserciti abitualmente un’attività professionale che richieda l’iscrizione a un Ordine o un Albo. Tale obbligo viene meno solo se il professionista è già iscritto a una Cassa di riferimento.

Tale orientamento trova giustificazione nell’.art 2, comma 26 della legge n,. 335/1995 e l’art. 44 del decreto legge n. 269/2003.

Il primo indica che sono obbligati a iscriversi alla Gestione Separata coloro che esercitano “per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo”.
Il secondo indica che tale obbligo riguarda anche coloro che svolgono tale attività di lavoro autonomo, seppure occasionale, il cui reddito annuo prodotto supera i 5000€.

Ne deriva che:

  • “l’obbligatorietà dell’iscrizione presso la Gestione Separata da parte di un professionista iscritto a un albo o elenco è collegata all’esercizio abituale, ancorché non esclusivo, di una professione che dia luogo a un reddito non assoggettato a contribuzione da parte della cassa di riferimento;

  • la produzione di un reddito superiore alla soglia di 5000,00 euro costituisce invece il presupposto affinché un’attività di lavoro autonomo occasionale possa metter capo all’iscrizione presso la medesima Gestione, restando invece normativamente irrilevante qualora ci si trovi in presenza di un’attività lavorativa svolta con i caratteri della abitualità.”

In sostanza, il criterio con cui valutare l’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata INPS è l’esercizio stesso dell’attività professionale.

Dunque, anche l’avvocato che guadagna meno di 5000 € all’anno deve iscriversi se svolge la propria professione in forma abituale, deducibile dall’apertura di una Partita Iva e dall’organizzazione materialmente dell’attività.

Va ricordato che l’iscrizione a un Albo o a un Ordine non rende automaticamente abituale l’attività professionale svolta.

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testimonianze e processo tributario

La validità delle testimonianze nel processo tributario

Il processo tributario è un processo prevalentemente documentale e il giuramento e le testimonianze non sono considerati mezzi di prova. Questo principio è espresso all’articolo 7, comma 4, del Dlgs. 546/92:

1. Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei   limiti   dei  fatti dedotti  dalle parti, esercitano tutte le facolta’ di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e  chiarimenti   conferite   agli  uffici  tributari  ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta.

   2.   Le   commissioni   tributarie,   quando  occorre   acquisire   elementi conoscitivi  di  particolare  complessita’,   possono   richiedere    apposite relazioni  ad  organi  tecnici  dell’amministrazione dello Stato  o  di  altri enti pubblici  compreso   il   Corpo   della   Guardia   di   finanza,  ovvero disporre    consulenza    tecnica.   I   compensi   spettanti   ai  consulenti tecnici non possono eccedere quelli previsti dalla legge  8  luglio  1980,  n. 319, e successive modificazioni e integrazioni.

   3. (Comma abrogato)

   4. Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale.

   5.   Le   commissioni   tributarie,   se    ritengono     illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante  ai  fini  della  decisione,  non  lo applicano,  in  relazione  all’oggetto dedotto in giudizio, salva  l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente.

C’è da chiedersi se ciò sia una violazione del diritto al contraddittorio e al giusto processo.

DIRITTO AL GIUSTO PROCESSO E AL CONTRADDITTORIO

Il riferimento principale quando si parla di giusto processo è l’art.6, comma  della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Mentre la nostra Costituzione, all’art.111, comma 1, recita che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge». Al comma 2 aggiunge che «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata».

A un primo sguardo si potrebbe dunque credere che il mancato riconoscimento delle prove testimoniali nel processo tributario sia in contrasto con i due principi sopra indicati.

IL VALORE DELLE TESTIMONIANZE

La Corte di Cassazione si è espressa a tal proposito riconoscendo alle dichiarazioni rese da terzi, anche se non durante un contraddittorio, un valore indiziario. Tali testimonianze permettono al giudice del processo tributario di giungere alla propria conclusione.

«L’inammissibilità della prova testimoniale non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi, eventualmente raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale, distinguendosi queste dalla tipica prova testimoniale per il loro valore probatorio, che è quello proprio degli elementi indiziari, senza che si determini nemmeno una violazione del principio di parità di armi, potendo il contribuente contestare la veridicità delle dichiarazioni in questione e introdurre a sua volta, nel giudizio di merito, altre dichiarazioni di terzi rese a discarico in sede extraprocessuale (Corte cost. n. 18/2000; Cass. nn. 20032/2011, 10785/2010, 9402/2007, 4423/2003)».

L’inammissibilità delle testimonianze “in contraddittorio” può trovare una spiegazione nella struttura stessa del processo tributario, che richiede celerità di esecuzione. Ma le dichiarazioni raccolte durante la fase istruttoria vanno comunque considerate elementi importanti ai fini del procedimento.

Sempre la Cassazione, con l’ordinanza n. 592 del 15 gennaio 2021, spiega che le dichiarazioni rese da un contribuente alla Guardia di Finanza hanno, ai fini istruttori, il valore di una confessione stragiudiziale ai sensi dell’art. 2735 cod. civile. Tale confessione non rappresenta una prova indiziaria, ma un dato di fatto che non richiede la raccolta di ulteriori riscontri.

Questo valore delle testimonianze può giocare anche a favore del contribuente. Pertanto, il principio del giusto processo espresso dall’art 6 della CEDU è del tutto rispettato anche nel processo tributario nonostante la mancanza di un vero contraddittorio.

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La difficile tutela del segreto professionale e della privacy degli assistiti

Consideriamo il segreto professionale che copre le conversazioni tra cliente e avvocato come un dato di fatto. Eppure, i casi in cui il diritto alla segretezza e alla privacy può essere accantonato non sono così rari.
Si tratta di violazioni o di fattispecie del tutto legittime?

IL CASO DEL CITTADINO NORVEGESE

Un cittadino norvegese al quale è stato sequestrato lo smartphone avverte le autorità che nel dispositivo sono presenti email e chat scambiate con i suoi legali.

Tali conversazioni sono coperte dal segreto professionale e, in un primo momento, le autorità rassicurano il cittadino che quelle informazioni non verranno utilizzate.
Successivamente però la stessa autorità incarica la polizia giudiziaria di esaminare tutti i contenuti dello smartphone. Le conversazioni con i legali vengono eliminate solo al momento della produzione della copia forense dei contenuti del dispositivo.

Il cittadino si rivolge allora alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, sostenendo che il controllo preliminare della polizia giudiziaria viola l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’articolo sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, della casa e della corrispondenza.

La Corte concorda sulla violazione.

SEGRETO PROFESSIONALE E RISPETTO DELLA VITA PRIVATA E FAMILIARE

Gli avvocati sono tenuti a rispettare quanto indicato dal Codice Deontologico in materia di segreto professionale. Due sono gli articoli di riferimento: l’art.13 e l’art.28, di cui riportiamo i testi integrali:

Art. 13 – Dovere di segretezza e riservatezza

“L’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali.”

Art. 28 – Riserbo e segreto professionale

1. È dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell’avvocato mantenere il segreto e il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato.

2. L’obbligo del segreto va osservato anche quando il mandato sia stato adempiuto, comunque concluso, rinunciato o non accettato.
3. L’avvocato deve adoperarsi affinché il rispetto del segreto professionale e del massimo riserbo sia osservato anche da dipendenti, praticanti, consulenti e collaboratori, anche occasionali, in relazione a fatti e circostanze apprese nella loro qualità o per effetto dell’attività svolta.
4. È consentito all’avvocato derogare ai doveri di cui sopra qualora la divulgazione di quanto appreso sia necessaria:
a) per lo svolgimento dell’attività di difesa;
b) per impedire la commissione di un reato di particolare gravità;
c) per allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente o parte assistita; d) nell’ambito di una procedura disciplinare.
In ogni caso la divulgazione dovrà essere limitata a quanto strettamente necessario per il fine tutelato.
5. La violazione dei doveri di cui ai commi precedenti comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura e, nei casi in cui la violazione attenga al segreto professionale, l’applicazione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.

Riportiamo anche il testo dell’art.8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo:

1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o  della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

Come si può notare, Codice Deontologico e Convenzione dei Diritti dell’Uomo viaggiano su binari paralleli. Ed entrambi considerano la possibilità di deroghe.

SEGRETEZZA E  INTERCETTAZIONI

Una delle potenziali zone grigie del nostro sistema sta nelle intercettazioni.

Il codice di procedura penale garantisce che le intercettazioni delle conversazioni tra un cliente e un avvocato, in qualunque formato, non vengano utilizzate. Nonostante ciò, anche in questo caso non mancano le possibili deroghe.
Per esempio, si possono utilizzare le intercettazioni di conversazioni tra i familiari di un indagato/imputato e l’avvocato di questo. Inoltre, perché le intercettazioni siano considerate inutilizzabili è necessario che l’avvocato coinvolto sia effettivamente stato nominato quale difensore, altrimenti si tratterebbe solo di conversazioni di carattere amicale (Cassazione 2018).

IL FUTURO?

L’Avv. Massimo Borgobello conclude il suo articolo “Privacy e segreto professionale dei legali, perché servono regole chiare” son queste parole:
«È tuttavia da chiedersi se l’applicazione concreta della riforma delle intercettazioni telefoniche ed ambientali entrata recentemente in vigore nel nostro ordinamento terrà o meno: certamente, è stata scritta nell’ottica di non incorrere in violazioni dell’articolo 8 della CEDU.
È vero anche che il potere di intercettazione, nel nostro Paese, è molto ampio e le garanzie sono, di fatto, ridotte al minimo nelle ipotesi in cui le intercettazioni siano disposte nei procedimenti per criminalità organizzata.
Abbiamo assistito, nei mesi scorsi, all’emanazione, da parte di numerose Procure della Repubblica di linee guida in materia: i prossimi mesi diranno se, all’atto pratico, vi sarà rispondenza o meno al diritto previsto dall’articolo 8 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo.»

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Quale indirizzo PEC è valido ai fini processuali?

L’unico indirizzo PEC valido ai fini processuali è quello che l’avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 3685/2021.

PEC E DOMICILIO DIGITALE

La Cassazione ha dovuto pronunciarsi su un ricorso tra i cui motivi figurava anche una notificazione invita all’indirizzo PEC del difensore della parte ricorrente, anziché presso il domicilio eletto con il deposito del ricorso. Secondo il ricorrente, tale indirizzo PEC era stato indicato solo per comunicazioni e non per le notificazioni.

La Cassazione rigetta i ricorso e giustifica la decisione basandosi su precedenti orientamenti in materia di notificazione al difensore.
In particolare, si rifà al concetto di “domicilio digitale”( art. 16-sexies, d.l.179 del 18 ottobre 2012, che corrisponde all’indirizzo PEC che l’avvocato comunica al Consiglio dell’Ordine di appartenenza (L. n. 114 del 2014).

Il Codice dell’Amministrazione Digitale (d.lgs. n. 82/2005) definisce il domicilio digitale come «un indirizzo elettronico eletto presso un servizio di posta elettronica certificata o un servizio elettronico di recapito certificato qualificato, come definito dal regolamento (UE) 23 luglio 2014 n. 910 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno e che abroga la direttiva 1999/93/CE […], valido ai fini delle comunicazioni elettroniche aventi valore legale».

Non si tratta solo di un indirizzo PEC ma di un recapito digitale che imprese, professionisti e cittadini indicano alla Pubblica Amministrazione per la ricezione di comunicazioni che, sebbene digitali, hanno piena valenza legale.

INDIRIZZO PEC VALIDO AI FINI PROCESSUALI

Dalla sentenza si evince che:

  • il difensore non ha più l’obbligo di indicare negli atti di parte il suo indirizzo PEC,
  • l’indirizzo PEC dell’avvocato è legato al suo codice fiscale,
  • ll difensore è obbligato a indicare negli atti il proprio codice fiscale. Ciò permette l’individuazione univoca dell’utente SICID, nonché di risalire all’indirizzo PEC tramite il registro INI-PEC,
  • il difensore non può indicare un altro indirizzo PEC diverso da quello comunicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza,
  • la domiciliazione ex lege presso la cancelleria è prevista solo quando non è possibile inviare le comunicazioni o le notificazioni della cancelleria o delle parti private presso il domicilio telematico per cause imputabili al destinatario. Unica eccezione è il giudizio di Cassazione, per il quale la domiciliazione ex lege presso la cancelleria della Corte di Cassazione è possibile se il difensore non ha eletto domicilio nel comune di Roma o non ha indicato il proprio indirizzo PEC;

Per tutti questi motivi, l’unico indirizzo PEC valido ai fini processuali è quello indicato al Consiglio dell’Ordine. Non è possibile riconoscere alcuna validità ad altri indirizzi di posta elettronica.

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Come ottenere il rimborso del contributo unificato

Le modalità per il rimborso del contributo unificato sono contenute nella Circolare n. 33 del 26 ottobre 2007 del Ministero dell’Economia e della Finanza.

QUANDO CHIEDERE IL RIMBORSO DEL CONTRIBUTO UNIFICATO

Il diritto al rimborso del contributo unificato può essere esercitato in caso di versamento :

– di una somma superiore a quella dello scaglione di riferimento;
– avvenuto due volte per errore;
– per un procedimento giurisdizionale esente;
– al quale non è seguito il deposito e l’iscrizione a ruolo dell’atto introduttivo.

Il suddetto elenco non è da ritenersi esaustivo.

L’ISTANZA DI RIMBORSO

Per ottenere il rimborso del contributo unificato è necessario presentare apposita istanza all’ufficio giudiziario. L’istanza va presentata entro il termine di decadenza di due anni, a partire dal giorno in cui è stato effettuato il versamento (articolo 21, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546).

Le richieste di rimborso presentate oltre questo termine non saranno accolte.

Nell’istanza vanno indicati:

  • – nome e cognome, data e  luogo di nascita, il codice fiscale,
  • – residenza, cap ed eventuale domicilio, se diverso dalla residenza,
  • – recapiti (numero di telefono e email),
  • elementi utili all’identificazione del giudizio per il quale è stato versato il contributo unificato (parti, numero di ruolo, ecc.),
  • estremi del versamento e importo,
  • importo richiesto a rimborso,
  • modalità di pagamento prescelta per il rimborso,
  • dichiarazione dell’inesistenza di altre richieste di rimborso relative alla stessa somma.

È possibile richiedere con un’unica istanza il rimborso di più versamenti a patto che siano relativi al medesimo contribuente e allo stesso ufficio giudiziario.

Nel caso l’istanza venga presentata personalmente, l’ufficio giudiziario rilascia un’apposita ricevuta.

ULTERIORI INFORMAZIONI

Nella richiesta devono essere chiaramente identificabili il contribuente, il giudizio di riferimento (ove possibile) e l’ufficio giudiziario competente. A tal proposito vanno fatte alcune precisazioni.

Per i versamenti tramite F23, l’erronea indicazione del codice ufficio o del codice tributo non rappresentano una valida motivazione per ottenere il rimborso del contributo unificato. In tali casi si può provvedere a una rettifica con apposita comunicazione sia all’ufficio giudiziario interessato, sia all’ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate (come indicato nelle risoluzioni 26 maggio 2000, n.73, e 9 agosto 2000, n. 131, del Ministero delle Finanze).

Nel caso dei versamenti semplificati, eseguito presso le ricevitorie abilitate, poiché non è possibile risalire in modo chiaro all’effettivo contribuente, in caso di errore risulta impossibile ottenere il rimborso.

Per maggiori informazioni potete leggere il testo completo della Circolare n. 33 del 26 ottobre 2007 del Ministero dell’Economia e della Finanza. Qui il link al modello di istanza per il rimborso del contributo unificato.

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Ricorrere alla giustizia come mezzo vessatorio e vendicativo non è poi un evento così raro, tant’è chi subisce tali azioni può tranquillamente essere definito vittima di stalking giudiziario.

COS’È LO STALKING GIUDIZIARIO

Lo stalking giudiziario può essere definito come una forma di “atti persecutori, le cui azioni moleste si sostanziano appunto nella reiterazione di pretese risarcitorie in sede civile, ricorsi amministrativi e persino in denunce-querela prive di fondamento ma strumentali esclusivamente a porre il destinatario in uno stato di angoscia o di prostrazione e a vessarlo, determinando nello stesso uno degli eventi alternativi previsti dalla fattispecie incriminatrice di atti persecutori (stalking), ex art. 612 bis c.p..” (Cit.: Avv. Luca Monaco del Foro di Salerno).

Questi atti sono portati avanti da ex coniugi, parenti, vicini di casa, soggetti con i quali si intrattengono relazioni lavorative e quant’altro. Ciò che non cambia è il disagio emotivo di chi li riceve che, oltretutto, deve pure sobbarcarsi oneri economici spesso notevoli nel tentativo di difendersi.

COME RICONOSCERLO

Al momento non esiste il reato di stalking giudiziario separato dal reato di stalking indicato dall’art. 612 bis c.p.

Ancora diversi anni fa la Cassazione, con la sentenza n. 3831/2017, ha timidamente riconosciuto la configurabilità dI un reato a sé. Nella sentenza si legge: “la valutazione di gravità indiziaria non è affermata soltanto sulla proposizione reiterata di denunce ed esposti – la cui concreta valutazione va rimessa all’apprezzamento del giudice di merito concernente i profili fattuali della vicenda – bensì su condotte ben più pregnanti”.

Poi, nel 2020 il Tribunale di Monza ha condannato per stalking giudiziario un avvocato reo di aver mosso più di 200 cause civili e penali verso un suo ex assistito, il quale aveva deciso di interrompere il rapporto professionale.
La vicenda, durata oltre 9 anni, ha portato l’avvocato a a 4 anni di reclusione e 5 anni di interdizione della professione.

Si può dire che gli elementi che caratterizzano lo stalking giudiziario siano due:
– le domande risarcitorie o le denunce presentate sono ripetute;
– le pretese mosse sono chiaramente infondate e strumentali agli interessi dell’attore.

GLI EFFETTI DELLO STALKING GIUDIZIARIO

Lo stalking giudiziario non ha ripercussioni solo sugli individui che lo subiscono, ma anche sulla giustizia nella sua totalità. Le numerosa cause prive di reale fondamento mosse dagli stalker non fanno altro che appesantire e rallentare ulteriormente il sistema, nonché gravare lo Stato di spese inutili.

Diventa dunque importante scoraggiare tali azioni. Ciò comporterebbe “un alleggerimento del carico processuale che grava nei vari Tribunali, a causa di motivi inesistenti e strumentali ad altri fini del tutto illegittimi e sarebbero anche evitati tanti presumibili errori giudiziari che poi a distanza di tempo, magari di dieci anni o più, si scoprono essere tali” [Cit: Prof. Dott. Giovanni Moscagiuro, esperto anche in stalking e cyberstalking].

 

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L’UE approva il regolamento ePrivacy

Dopo un percorso di 4 anni, il Consiglio Europeo ha trovato un accordo sulla versione finale del Regolamento ePrivacy. Si dà dunque il via alla revisione delle norme in materia di tutela della riservatezza connessa all’uso dei servizi di comunicazione elettronica.

Le nuove norme sostituiranno la precedente Direttiva e-Privacy del 2002.

CONTENUTI DEL NUOVO REGOLAMENTO ePRIVACY

I seguenti contenuti sono tratti dall’articolo “Regolamento ePrivacy approvato dal Consiglio UE: gli scenari che si aprono” pubblicato su Agenda Digitale.

Innanzi tutto,  il nuovo Regolamento ePrivacy indica quando i fornitori di servizi hanno l’autorizzazione a trattare i dati delle comunicazioni elettroniche degli utenti o ad accedere ai dati conservati nei loro dispositivi. In questo senso, il regolamento va ad affiancarsi a quanto previsto dal GDPR in materia di protezione dei dati.

Più nello specifico, ecco cosa cambia.

IMPOSTAZIONI PRIVACY

Ai fornitori di software si chiede, ma non si impone, di stabilire di default le impostazioni per la gestione dei cookie. Questa misura vuole combattere il disagio che molti utenti provano davanti ai banner di consenso, senza intaccare il principio del consenso libero.

ANCORA COOKIES

Viene mantenuta la possibilità di limitare l’accesso ai siti in base al consenso all’installazione dei cookies, a patto che all’utente venga sempre concessa una libera scelta fra opzioni reali (a volte la scelta è obbligata).

Al consenso dell’utente vi sono alcune eccezioni: “misurazione dell’audience, prevenzione frodi, installazione aggiornamenti software, in caso di emergenza e per finalità compatibili”.

TRATTAMENTO DEI DATI

Agli utenti che acconsentono al trattamento trattamento dei dati delle proprie comunicazioni elettroniche va ricordato, tramite reminder, che il consenso può essere ritirato. Il remainder va presentato a intervalli di non più di 12 mesi, a meno che l’utente non voglia più riceverli.

SOFT SPAM

È possibile inviare agli utenti comunicazioni di marketing soft spam, sempre rispettando le regole sulla corretta informazione e sulle scelte libere.

Tali comunicazioni non sono più limitate alle sole email, ma si estendono anche “qualsiasi messaggio contenente informazioni quali testo, voce, video, suono o immagine inviato su una rete di comunicazione elettronica che può essere memorizzato nella rete o in strutture informatiche correlate, o nell’apparecchiatura terminale del suo destinatario, compresi SMS, MMS e applicazioni e tecniche funzionalmente equivalenti”.

TRATTAMENTO DEI METADATI

I metadati potranno essere trattati anche se ciò è necessario “ai fini della gestione della rete o dell’ottimizzazione della rete, o per soddisfare i requisiti tecnici di qualità del servizio, o per l’esecuzione di un contratto di servizio di comunicazione elettronica di cui l’utente finale è parte, o se necessario per la fatturazione, il calcolo dei pagamenti di interconnessione, l’individuazione o la cessazione dell’uso fraudolento o abusivo dei servizi di comunicazione elettronica o dell’abbonamento a tali servizi”.

CONCLUSIONI

Si attendono le negoziazioni con il Parlamento EU per avere il testo definitivo del nuovo Regolamento ePrivacy.

Una volta pubblicato in Gazzetta ufficiale dell’UE, entrerà in vigore 20 giorni dopo e inizierà a essere applicato due anni dopo (vedi nota ufficiale).

I cambiamenti introdotti impatteranno molto sul settore digitale, tecnologico e sul marketing online. Social network, agenzie di comunicazione, società di telecomunicazioni, sviluppatori di software e app dovranno adeguarsi.

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Copie esecutive digitali: si pagano i diritti di copia?

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Le copie esecutive digitali sono esenti dal versamento dei diritti di copia. Lo ha chiarito il Ministero della Giustizia.

Ciò significa che gli uffici giudiziari non chiederanno a difensori e altri soggetti abilitati i diritti di copia per il rilascio telematico delle copie esecutive. Questo almeno fino alla conclusione dello stato di emergenza dovuto a Covid-19, il cui termine è fissato al 30 aprile 2021.

La decisione, contenuta nella circolare del 4 febbraio, risponde alle molteplici domande di chiarimento giunte al Direttore generale del Ministero.

DIRITTI DI COPIA, I DUBBI

I dubbi sul versamento dei diritti di copia per le copie esecutive nascono dall’art.23, comma 9-bis, del Decreto Ristori n.137 del 28 ottobre 2020.

L’articolo indica che durante il periodo di pandemia è possibile chiedere e ottenere le copie di sentenze e altri provvedimenti giudiziari depositando un’apposita istanza in modalità telematica.

Il cancelliere ha il compito di creare un documento informatico contenente la copia del provvedimento richiesto. Il documento viene poi firmato digitalmente, corredato dalla formula prevista dall’articolo 475, comma 3, c.p.c. e dall’indicazione della parte destinataria.

L’articolo del decreto non offre però alcuna informazione sull’applicazione dei diritti di copia in relazione al formato digitale.

IL TESTO DELL’ORDINANZA

L’ufficio Legislativo ha riscontrato la richiesta della Direzione generale affermando che:

“Sulla base delle disposizioni vigenti i diritti di copia non sono certamente dovuti per  l’estrazione della copia esecutiva da parte del difensore (o di altro soggetto abilitato), mentre d’altro lato in difetto di una specifica norma impositiva appare complesso sostenere che l’attività di formazione della copia esecutiva telematica da parte del cancelliere (che logicamente e cronologicamente precede l’estrazione) sia soggetta a tributo.”

COPIE ESECUTIVE ANALOGICHE

Il chiarimento del Ministero della Giustizia riguarda dunque solo il formato digitale.

Nella stessa ordinanza si legge che, per il formato analogico delle copie esecutive, i diritti di copia non vengono sospesi. Il loro pagamento può avvenire tramite PagoPA.

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L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha certamente dato impulso alla digitalizzazione. Questo è vero per le aziende, per la pubblica amministrazione e anche per i comuni cittadini, molti dei quali hanno attivato un’identità digitale.

I dati Agid raccontano che gli SPID rilasciati a fine 2020 sono quasi 15.500.000. Un anno prima erano quasi 5.500.000.
A questi si aggiungono più di 18.000.000 di CIE, le nuove carte di identità elettroniche.

E l’identità digitale è uno dei temi al centro dei programmi delle istituzioni.

Il Decreto Semplificazioni ha infatti ha modificato il Codice dell’Amministrazione Digitale e introdotto lo “switch off”, il termine entro il quale la PA dovrà permettere l’accesso ai suoi servizi solo attraverso SPID e CIE. La data da segnare sul calendario è il 28 febbraio 2021.

Da marzo, dunque, la PA non rilascerà né rinnoverà le credenziali secondo le vecchie modalità. Quelle attualmente attive rimarranno valore fino alla loro scadenza e non oltre il 30 settembre 2021.

COS’È L’IDENTITÀ DIGITALE

Infocert definisce l’identità digitale come

“l’insieme dei dati e delle informazioni, o attributi, che definiscono il Titolare e costituiscono la rappresentazione virtuale dell’identità reale utilizzabile durante interazioni elettroniche con persone o sistemi informatici.

Nella pratica, l’Identità Digitale è una chiave unica di accesso (autenticazione) a tutti i servizi pubblici e a quelli delle aziende private che intendono usufruire di questo sistema diffuso di riconoscimento”.

I riferimenti normativi sono molteplici.

Per SPID vale l’Art. 64 del Codice dell’Amministrazione Digitale“Sistema pubblico per la gestione delle identità digitali e modalità di accesso ai servizi erogati in rete dalle pubbliche amministrazioni“. Per la CIE, l’elenco completo è reperibile alla pagina dedicata nel sito del Ministero dell’Interno.

LA SITUAZIONE DELLA PA

Le PA devono dunque attivare l’autenticazione tramite i due sistemi. Per SPID, il referente è Agid; per la CIE, l’Istituto Poligrafico e la Zecca dello Stato.

Secondo i dati di ForumPA del 2015, le amministrazioni pubbliche italiane sono circa 55.000. Al momento quelle che hanno attivato SPID sono solo 5700.

La PA ha dei benefici nell’utilizzare i due sistemi. Infatti, non dovrà più occuparsi della gestione delle autenticazioni che, invece, passerà al Ministero degli Interni e agli IDP (Identity Provider), liberandosi anche dei rischi connessi a eventuali data breach.

VANTAGGI PER IL CITTADINO

Perché utilizzare SPID e CIE?

Le difficoltà che stiamo incontrando a causa della pandemia COVID ci stanno insegnando il valore delle tecnologie e delle procedure da remoto.

La digitalizzazione di molti servizi pubblici è un dato di fatto, ormai. Ma se per ogni servizio dovessimo continuare ad avere credenziali specifiche (nome utente, password, totem) e dovessimo scaricare le rispettive app di accesso, ci troveremmo in difficoltà. Inoltre, il rischio di smarrire le credenziali o condividerle involontariamente ci esporrebbe a rischi legati alla nostra privacy.
Con SPID e CIE abbiamo due sistemi di autenticazione validi per tutti i servizi della PA. Questo si traduce in una maggiore facilità di utilizzo e in livelli più alti di sicurezza.

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Superamento delle tariffe professionali - Servicematica

Superamento delle tariffe professionali, ok se c’è accordo tra le parti

Il superamento delle tariffe professionali degli avvocati è ammesso, a patto che sia una decisione presa in accordo con il cliente.

La legittimità del superamento delle tariffe è sancita dall’ordinanza n. 2631 della Corte di Cassazione pubblicata il 4 febbraio 2021.

IL CASO

Il cliente di un avvocato chiede la restituzione di una parte del compenso pagato al proprio difensore per una sua assistenza professionale.

Inizialmente, lo stesso cliente e l’avvocato difensore pattuiscono in forma scritta che, in caso di vittoria, quest’ultimo avrebbe ricevuto il 10% di quanto ottenuto, più la copertura delle spese e degli oneri.

Successivamente, pattuiscono un importo diverso che però poi il cliente trova sproporzionato perché non in linea con le tariffe forensi e non adeguato all’attività del difensore, considerata modesta.

Il Tribunale rigetta la doglianza e il cliente ricorre in Cassazione.

SUPERAMENTO DELLE TARIFFE PROFESSIONALI, ESISTE UNA GERARCHIA

Anche la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

La Cassazione motiva la decisione considerando corretta l’applicazione da parte del Tribunale dell’art.2233 c.c. sui compensi dei prestatori di opere intellettuali.

Questo il testo dell’articolo:

   Il compenso,  se  non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le  tariffe  o gli usi, è determinato dal giudice, (sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene).
(1)   In ogni  caso  la  misura  del  compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione.

   Sono nulli,  se  non  redatti  in  forma  scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed  i  praticanti  abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali. (2)

(1) L’inciso   deve   ritenersi   abrogato   per  effetto  della  soppressione dell’ordinamento corporativo, disposta con R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721.
(2) Comma cosi’ sostituito dall’art. 2 D.L. 4 luglio 2006 n. 223,  convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006 n. 248.

L’articolo dunque suggerisce che gli accordi scritti con i clienti permettono il superamento delle tariffe professionali.

Nell’ordinanza la Cassazione spiega che: «l’art. 2233 cod. civ. pone una gerarchia di carattere preferenziale, indicando in primo luogo l’accordo delle parti ed in via soltanto subordinata le tariffe professionali, ovvero gli usi: le pattuizioni tra le parti risultano dunque preminenti su ogni altro criterio di liquidazione ed il compenso va determinato in base alla tariffa ed adeguato all’importanza dell’opera soltanto in mancanza di convenzione».

 

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