Per Zangrillo lavorare nella Pa «è figo anche quando non è fisso»

Viste le difficoltà nel reclutamento di nuove risorse nella Pa il governo ha deciso di avviare una campagna pubblicitaria in cui in ministro Paolo Zangrillo dichiara che il lavoro pubblico è «figo».

Lo stesso Zangrillo annuncia che nei prossimi giorni partirà «uno spot, il governo lo annuncerà con una conferenza stampa questa settimana, in tema di attrattività della pubblica amministrazione. Metteremo in discussione la logica del posto fisso cercando di guardare al posto figo, cioè al posto dove il vero valore non sta nella stabilità del posto di lavoro».

Il ministro probabilmente si riferisce alle difficoltà nel reperimento di candidature e di vincitori che avrebbero costantemente accompagnato la riapertura dei concorsi pubblici, dopo ben 10 anni di stop a causa di tagli al bilancio e dopo due anni di pandemia, che avrebbero fermato le procedure già avviate.

La fuga dei giovani probabilmente è dovuta al fatto che i concorsi svolti per il Pnrr prevedono delle assunzioni a tempo determinato, mentre sembrerebbe che in altri casi i vincitori si siano tirati indietro, poiché per loro il posto pubblico non è abbastanza attrattivo a causa di uno stipendio troppo basso e difficoltà nelle carriere, che procedono troppo a rilento.

Per Zangrillo il lavoro pubblico è un posto «dove c’è la capacità di distinguere tra chi vivacchia e passa la giornata a guardare l’orologio per l’orario d’uscita e chi invece ha voglia di dimostrare di essere all’altezza delle sfide che il Paese ha davanti».

Il ministro riconosce che «la stabilità del posto di lavoro è importante, ma se vogliamo attrarre i giovani nella Pa, se noi vogliamo che i nostri ragazzi crescano e considerino tra le opportunità per costruire il loro percorso professionale anche la pubblica amministrazione non possiamo lasciargli solo la logica del posto fisso, ma il posto figo che ti consente di crescere dal punto di vista delle responsabilità e di acquisire le competenze che servono».

«Abbiamo un programma di inserimento nella pubblica amministrazione che prevede di inserire 60.000 nuovi insegnanti nei prossimi mesi. Anche sul tema della scuola abbiamo puntato l’attenzione con la consapevolezza che, oggi più che mai, il tema della formazione è strategico per il futuro del Paese», conclude Zangrillo.


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WhatsApp: attenzione a chi ci spia

WhatsApp: attenzione a chi ci spia

WhatsApp non è un servizio pensato per la sicurezza, e la sua diffusione la rende l’obiettivo perfetto per la ricerca di vulnerabilità. Esponenti politici, giornalisti e funzionari governativi sono stati spiati proprio su WhatsApp.

La modalità più diffusa per spiare le chat WhatsApp è l’utilizzo di specifici software spia, gli spyware. Ci sono decine di app che tutti possono utilizzare e comprare a prezzi accessibili, che vengono messe in commercio con lo scopo di controllare il telefono dei figli.

Ma questi programmi, installati nei dispositivi di terzi senza alcuna autorizzazione, non sono assolutamente legali.

Per installare uno spyware ci sono due opzioni: si può fare da remoto, inviando un link che, una volta cliccato, installerà automaticamente il software spia; ma può essere anche essere nascosto in app o giochi gratuiti. Un’altra opzione è l’accesso diretto al dispositivo: basta lasciare incustodito uno smartphone privo di password di sblocco, e il gioco è fatto.

Dopo aver installato lo spyware, attraverso un’app o un account web si potranno visualizzare i dati contenuti all’interno dello smartphone della vittima, come messaggi, telefonate, foto e mail. Inoltre, potranno essere attivate fotocamera e microfono all’insaputa dell’utente.

L’utilizzo di questi strumenti rappresenta un reato: i software “captatori informatici” possono essere utilizzati soltanto dalla polizia a seguito di un mandato da parte della magistratura. È stato promulgato a riguardo il DL n. 216 del 29 dicembre 2017, con lo scopo di regolamentarne l’utilizzo e per impedire eventuali abusi.

Un altro strumento utilizzato per spiare gli utenti è WhatsApp Web. Per utilizzare la funzione, basta aprire l’app di WhatsApp sullo smartphone, andare sulle Impostazioni e inquadrare il QR Code che appare sullo schermo del pc.

Sul pc, a questo punto, troveremo il nostro account WhatsApp, e tutte le conversazioni saranno sincronizzate tra il nostro smartphone e il pc. Ma se lasciamo lo smartphone incustodito, privo di password di sblocco, potremmo rischiare che un’altra persona abbini il nostro WhatsApp al suo pc.

Per aver maggior sicurezza possiamo attivare l’autenticazione a due fattori, e se sospettiamo che qualcuno abbia collegato il nostro WhatsApp al suo pc selezionare l’opzione Disconnetti da tutti i dispositivi o Disconnettiti da tutti i computer su Android.

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Una truffa molto banale è quella del codice a sei cifre. Secondo Paolo Dal Checco, consulente informatico forense, tale truffa dovrebbe essere ormai poco diffusa, poiché «ormai le persone sanno che non devono comunicare codici ricevuti sul proprio telefono, anche grazie all’esperienza fatta dalla banche che ripetono continuamente di non fornire a nessun i codici ricevuti».

Nonostante tutto, qualcuno ancora ci casca. Il nostro account WhatsApp, infatti, è sempre collegato ad un numero di cellulare. Se qualcuno conosce il nostro numero, potrebbe utilizzarlo per appropriarsi del nostro account.

Il malintenzionato, accedendo al menu, procede con il cambio del numero. L’app invierà un codice di verifica a sei cifre al “vecchio” numero, ovvero l’intestatario attuale del profilo, e il ladro tenterà di ottenere il codice di verifica, inviando magari un messaggio da un falso mittente che, con l’inganno, richiederà il codice in questione.

Va da sé, dunque, che non dobbiamo mai inviare a nessuno i codici che riceviamo.

Per recuperare un account WhatsApp rubato basterà seguire le istruzioni riportate nelle pagine di assistenza di WhatsApp.

La violazione di uno smartphone, oggi, potrebbe essere più pericolosa e grave rispetto a quella di un pc. Non scordiamoci inoltre che per un cybercriminale potrebbe essere molto più utile spiare uno smartphone, e non rubarlo.


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Negli Stati Uniti comincia il processo contro Google

Negli Stati Uniti comincia il processo contro Google; la big tech, infatti, è stata accusata dal governo USA di abuso di posizione dominante per quanto riguarda le ricerche online.

Il processo è molto importante, sia da un punto di vista pratico che simbolico. Infatti, questo è il primo processo antitrust avviato dal governo americano contro una big tech dai tempi del processo contro Microsoft del 1998, che apportò grandissimi cambiamenti nel settore.

Il processo avverrà a Washington ed è probabile che duri molti mesi. Il dipartimento di Giustizia sostiene che Google abbia abusato della propria posizione di monopolio nel settore delle ricerche online, al fine di danneggiare la concorrenza e di eliminare completamente innovazioni che avrebbero potuto favorire i consumatori.

In America non è illegale il monopolio di un settore dell’economia; tuttavia, secondo il dipartimento di Giustizia, Google avrebbe infranto la legge per ottenere e mantenere il monopolio.

Per Google, invece, tali accuse sono infondate: se l’azienda domina il settore, a suo dire, è perché offre un prodotto migliore, che viene preferito dalla maggior parte degli utenti. Per accedere alla concorrenza, sempre secondo Google, bastano pochi clic: dunque, non ci sarebbe alcun obbligo per l’utilizzo di un prodotto al posto di un altro.

Attualmente, Google detiene circa l’80% del mercato mondiale delle ricerche online.

Il caso sollevato dal dipartimento di Giustizia focalizza l’attenzione in un ambito limitato, e riguarda il fatto che Google, ogni anno, paghi miliardi di dollari ad un’altra big tech, Apple, per essere il motore di ricerca di default presente su tutti gli iPhone e gli iPad.

Dunque, ogni volta che un utente fa una ricerca online sul proprio iPhone, la fa automaticamente su Google. Negli USA gli iPhone sono molto più utilizzati rispetto all’Europa, ovvero da circa la metà della popolazione.

Google ha degli accordi economici molti simili anche con fondazione Mozilla, gestore di Firefox, e possiede il sistema operativo Android. Dunque, la maggior parte delle persone in tutto il mondo, se deve fare una ricerca online, utilizza Google.

Ebbene, per il Dipartimento Giustizia, tali accordi sarebbero illegali, poiché schiacciano la concorrenza utilizzando la gran disponibilità economica per evitare che prodotti simili possano emergere. Per Google, invece, non c’è nulla di illegale.

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Il caso verrà giudicato da un giudice, senza una giuria. Non è ben chiaro che cosa potrebbe succedere se l’accusa vince, visto che il dipartimento di Giustizia non ha ancora esplicitato le misure che ha intenzione di mettere in pratica in quel caso.

Il processo contro Google potrebbe comportare un grossissimo impatto anche su tutto il resto dell’industria. Si tratta, come detto in precedenza, del processo più rilevante nei confronti di un’azienda tech americana, dai tempi del 1998, ovvero quando si tenne il processo contro Microsoft.

All’epoca, Microsoft era l’azienda tech più importante di tutto il settore, e ricevette l’accusa di utilizzare delle pratiche illegali per la creazione di un monopolio e per la promozione di Internet Explorer ai danni della concorrenza.

Il processo contro Microsoft si concluse con un patteggiamento, e l’azienda dovette fare molte concessioni ed essere meno aggressiva nei confronti della concorrenza sul mercato. Secondo Bill Gates, allora capo di Microsoft, e secondo gli analisti, il ritiro dell’azienda dal mercato aprì le porte ad una nuova generazione di giovani aziende: Google, per esempio, nacque nel 1998.

Non è chiaro, comunque, se il processo intentato contro Google avrà lo stesso risultato. Per alcuni esperti legali, il processo potrebbe essere un modo per testare quanto siano efficaci le leggi antitrust americane, introdotte verso la fine dell’800, e che oggi potrebbero non essere più così adatte per gestire dei casi complessi come quelli relativi alle big tech.

L’importanza del processo si vede anche dalle risorse utilizzate dalle parti: per esempio, il dipartimento Giustizia prepara il caso da 3 anni, mentre Google ha speso milioni di dollari per la difesa.


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Mondo legale e utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale: facciamo il punto

AI generativa negli studi legali

Mondo legale e utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale: facciamo il punto

Gli strumenti di intelligenza artificiale generativa promettono di trasformare la maggior parte del lavoro quotidiano degli avvocati, nonostante le preoccupazioni riguardo le fughe dati.

In mezzo ad una raffica di aggiornamenti e di nuovi lanci, gli studi legali sembrano essere molto indecisi sull’utilizzo di tali strumenti, anche se aziende big-tech e fornitori di servizi sulle innovazioni affermano di essere in grado di trasformare la professione legale.

Ma com’è messo veramente il mondo legale per quanto riguarda l’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale?

Uno studio legale con sede nella Silicon Valley, Gunderson Dettmer, ha presentato uno strumento dedicato agli avvocati, utile per fornire accordi legali nelle interrogazioni. Lo studio legale Sullivan & Cromwell di New York, invece, promuove e sviluppa strumenti da vendere ad altri studi legali, finalizzati all’aiuto nell’esaminazione dei documenti e per condurre deposizioni.

OpenAI, alla rivoluzione con ChatGPT, ha lanciato un sistema aggiornato per i suoi clienti aziendali, affrontando la paura degli avvocati di perdere i dati dei clienti. Invece, Thomson Reuters, azienda di dati e media legali, ha ufficialmente acquisito Casetext, azienda nota per gli strumenti che si basano sull’IA, per 650 milioni di dollari.

I nuovi strumenti consentono di affrontare alcuni tipi di attività, almeno quelle maggiormente laboriose, con più velocità e facilità. Per esempio, possono confrontare e analizzare i contratti per ricercare le clausole chiave, riassumendo regole di conformità e riscrivendo le norme complesse in un linguaggio comprensibile.

In molti si aspettano, grazie a questo potenziale risparmio di tempo, che il mondo legale si trasformi, eliminando gran parte del lavoro degli avvocati. Secondo Thomson Reuters, l’obiettivo è quello di fornire un prodotto per la redazione legale, che possa essere collegato alla funzione assistente di Microsoft, per essere venduto entro la fine dell’anno.

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Visto il turbinio di lanci e di aggiornamenti dei sistemi, tanti studi legali sono titubanti sul come e sul quando imbarcarsi nel mondo dell’IA.

Quando è stato reso disponibile ChatGPT per la prima volta, in molti hanno cominciato a soffrire della FOMO (Fear of Missing Out), ovvero la paura e l’ansia sociale di venire esclusi da eventi e da esperienze. Tuttavia, dopo un gran entusiasmo iniziale, sono arrivate le preoccupazioni riguardo le fughe dati.

Gli Studi Legali non vogliono, infatti, che i loro prompt vengano in qualche modo catturati da estranei.

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Microsoft avrebbe addebitato più di 50.000 dollari ad ognuna delle 600 imprese invitate alla partecipazione della prova del suo assistente di intelligenza artificiale AI Copilot, che verrà venduto con un abbonamento di 30 dollari al mese.

Per esempio, l’ufficio legale interno della McKinsey & Company dovrà scegliere tra «costruire, acquistare o collaborare» al fine di sviluppare strumenti di intelligenza artificiale generativa.

Thomas Pfennig, invece, responsabile dei dati e della privacy della multinazionale Bayer ha già utilizzato l’intelligenza artificiale generativa per l’automatizzazione dei compiti legali ripetitivi con poco valore, per riuscire a ridurre significativamente i costi del lavoro.

Afferma Pfennig: «Un passo che abbiamo fatto è preparare l’organizzazione a un cambiamento operativo significativo, passando da interazioni basate sull’uomo a interazioni più tecnologiche».


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Arriva iPhone 15: dobbiamo fare l’upgrade?

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nuovo iPhone 15

Arriva iPhone 15: dobbiamo fare l’upgrade?

Apple, il 12 settembre, annuncerà i nuovi modelli iPhone 15. In molti si chiedono se fare o meno l’upgrade, e la risposta corretta è complicata, e cambia in base alla tipologia di utente e dal modello di smartphone che possediamo.

Dobbiamo tenere in considerazione alcuni elementi. Secondo un’analista di Goldman Sachs, Apple dovrà aumentare parecchio i prezzi a causa del processore A17, chip che renderà lo smartphone molto più veloce ed efficiente, realizzato su scala 3 nanometri.

Nei modelli Pro ci saranno miglioramenti anche per quanto riguarda il design, quali la cornice in titanio, maggior durata della batteria e più memoria. Il Pro Max, il modello più avanzato, avrà anche una fotocamera aggiornata, con maggior capacità di zoom ottico e obiettivo a periscopio.

Per Carolina Milanesi, analista del mercato degli smartphone, se l’iPhone «è più giovane di tre anni non dovresti avere bisogno di un upgrade. Le cose più importanti per un utente medio sono la batteria, la velocità di ricarica e la fotocamera. Ma queste cose hanno un upgrade limitato anno dopo anno. I miglioramenti, accumulati, diventano sostanziali solo dopo i tre anni».

Prosegue Milanesi: «Una certa quota di utenti, circa il 20%, farà l’upgrade comunque; perché lo fa ogni anno solo per avere sempre nelle mani lo smartphone migliore. Vale per gli iPhone come per i Samsung».

Gli utenti più esperti apprezzano il processore migliorato e il design di titanio: «Il titanio rende lo smartphone più leggero. È qualcosa che si apprezza però solo se lo prendi in mano ed è considerevole soprattutto per i modelli più grandi e più costosi».

Secondo l’esperta «il processore veloce fa la differenza invece quando si diffonderanno anche su smartphone l’IA generativa; ma anche questo è un vantaggio apprezzabile non da tutti gli utenti». L’intelligenza artificiale generativa ci permetterà di fare un editing evoluto delle nostre foto, creando immagini molto velocemente per i post sui social o per i messaggi, migliorando anche luci e inquadrature su FaceTime.

Molto probabilmente avremo bisogno di un upgrade nel caso in cui il nuovo iOS 17 non sia supportato dall’attuale iPhone, come nel caso di iPhone 8, 8 Plus e X. L’aggiornamento all’ultima versione di iOS offre nuove importanti funzionalità, correzioni di bug e aggiornamenti sulla sicurezza.

Utilizzare un software ormai obsoleto, infatti, potrebbe compromettere le prestazioni, mettendo a rischio i dati personali. Se ci siamo convinti a fare l’upgrade, comunque, dopo il 12 settembre Apple sconterà i modelli dal 12 al 14; per risparmiare ancora di più si può puntare su smartphone ricondizionati.

Se, invece, decidiamo che non è ancora arrivato il momento di cambiare iPhone, prestiamo attenzione ad alcuni segnali. Se lo stato della batteria scende sotto l’80%, meglio procedere con la sostituzione della stessa, che non migliorerà soltanto la durata, ma anche le prestazioni dello smartphone.


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La Cassazione ha stabilito, con l’ordinanza 25544/2023 la nullità delle multe elevate con autovelox, nel caso in cui il cartello che riporta il limite di velocità si trovi a meno di 1 km dalla postazione della polizia.

Dunque, se l’apparecchio di controllo della velocità è presente a ridosso della segnaletica stradale, non consentendo al conducente di rallentare, si potrà presentare ricorso.

Si tratta di una vera e propria novità, visto che fino ad oggi la Cassazione si è sempre basata soltanto sulla distanza presente tra autovelox e cartello con avviso preventivo, ovvero Attenzione: controllo elettronico della velocità.

In particolare, la Corte ha sottolineato come non ci sia alcuna legge ad imporre uno spazio prestabilito tra l’avviso e l’autovelox. Dunque, dovrà essere rispettata soltanto ad una “ragionevole distanza”, che dev’essere valutata caso per caso, a seconda della strada e del limite di velocità.

E questo per permettere all’automobilista di fare una dolce frenata, visto che questo è lo scopo dell’avvertenza, non certo di consentire agli imprudenti di evitare le multe, ma di fare in modo che questi non frenino all’improvviso, determinando un gran rischio per la circolazione.

La prima cosa da tenere in considerazione è la riforma del 2017 introdotta con la direttiva Minniti, che ha disciplinato gli autovelox. Non si tratta di una circolare, ma di un decreto ministeriale: dunque, vincolante.

Al punto 7.5 del decreto leggiamo che la distanza minima tra il cartello e il limite di velocità non può essere inferiore ad 1 km. Questo a patto che:

  • La postazione dell’autovelox sia fuori dai centri abitati;
  • Il limite di velocità sia inferiore a quello consentito dal codice della strada per quel determinato tipo di strada.

Il limite minimo di 1 km tra la segnaletica e l’autovelox deve essere calcolato a partire dal secondo cartello.

La Cassazione ribadisce l’obbligo di apporre un cartello con velocità minima inferiore al limite legale, con l’avviso del controllo elettronico della velocità dopo ogni intersezione. Se tutte le prescrizioni non vengono rispettate la contravvenzione non è valida.

Tra il cartello con l’autovelox e l’avviso preventivo ci devono essere almeno 4 km di distanza.


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25 anni di Google: da un garage ha conquistato tutto il mondo

25 anni di google

25 anni di Google: da un garage ha conquistato tutto il mondo

È il 25esimo compleanno di Google, colosso tecnologico che ha rivoluzionato il nostro approccio alla ricerca e all’accesso delle informazioni.

Il 4 settembre 1998, in un garage di Menlo Park, due studenti universitari, Sergey Brin e Larry Page fondarono Google, risolvendo una delle esigenze più urgenti dell’epoca, ovvero fare un po’ di ordine alla confusione presente online.

La rete, in quegli anni, si stava popolando di informazioni di tutti i generi, rendendo molto complesso per gli utenti trovare quello di cui avevano bisogno. Anche se esisteva già un motore di ricerca, questo non era capace di fornire dei risultati che seguissero dei criteri specifici.

Allora i due ebbero un’intuizione, ovvero la creazione di un algoritmo capace di analizzare la rete e ordinare le varie pagine web, basandosi sulla qualità e sul numero dei link ricevuti. Gli utenti, dunque, ricevevano dei risultati precisi e validi, partendo da quello più importante.

Fu un’idea di enorme successo, che rese Google, sin da subito, il motore di ricerca preferito dagli utenti, che convinse i proprietari delle pagine web a fare qualsiasi cosa, anche investire grandi somme di denaro, pur di apparire nelle prime posizioni dei risultati.

Page e Brin, poco dopo aver fondato la società, decisero di ampliare le possibilità di monetizzare, andando ad introdurre nel motore di ricerca degli annunci pubblicitari targettizzati, che si basavano sulle ricerche degli utenti.

Nacque Google AdWords, piattaforma pubblicitaria, che si rivelò un booster per la crescita del progetto. L’azienda infatti guadagnò migliaia di dollari dalla pubblicità, ed ora è uno dei principali colossi tech.

Senza Gmail, Maps e YouTube, molto probabilmente, ci sentiremmo persi. Auguri Google!


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Quanto inquina l’intelligenza artificiale?

A che punto siamo con l’identità digitale delle persone giuridiche?

inquinamento intelligenza artificiale

Quanto inquina l’intelligenza artificiale?

Una delle contraddizioni poco esplorate in tema di intelligenza artificiale riguarda l’impronta ambientale e l’impatto energetico di questo tipo di tecnologia.

Ma quali sono gli elementi da prendere in considerazione per riuscire a valutare la situazione?

Certamente, l’energia che viene utilizzata per mettere in moto tutto il sistema è strettamente connessa alla potenza dell’hardware. La stessa quantità di energia viene poi utilizzata al fine di educare l’algoritmo o per alimentare i data server.

Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale generativa, quella che troviamo alla base di ChatGPT, ha bisogno di una grandissima potenza di calcolo. Dobbiamo tenere conto che l’intelligenza artificiale generativa usa alcune architetture che si basano su delle reti neurali, quindi prevede tantissimi parametri che dovranno essere in qualche modo addestrati.

In questa fase di addestramento, il consumo di energia è ai massimi livelli, visto che all’algoritmo dovranno essere forniti tantissimi esempi affinché possa apprendere.

È noto che l’industria ITC abbia generato delle emissioni di carbonio pari a quelle emesse dal sistema di aviazione. Sappiamo bene, inoltre, che l’utilizzo di acqua fredda per raffreddare i data center e l’utilizzo di metalli rari per la costruzione dei componenti degli hardware rendono le nuove tecnologie non così green.

Alcune ricerche testimoniano come i data center cinesi vengano alimentati per il 73% da elettricità generata da carbone. Tutto questo rende evidente come la fonte energetica abbia un peso importante sull’impronta ecologica complessiva della tecnologia digitale.

È stato calcolato il consumo per l’addestramento di ChatGPT-3, ovvero 700.000 litri di acqua soltanto per raffreddare i server. Si pensi che scambiare 20 messaggi con ChatGPT equivale al consumo di mezzo litro d’acqua.

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Visto che l’intelligenza artificiale sta gradualmente diventando sempre più importante per lo svolgimento delle nostre attività, misurare l’impatto ambientale di tali meccanismi diviene fondamentale.

L’intelligenza artificiale, senza dubbio, comporta parecchi vantaggi, anche a livello ambientale. Per esempio, questo strumento può essere utilizzato nel settore petrolifero, migliorandone la sicurezza e le prestazioni operative, fornendo anche modelli di tipo predittivo.

Tuttavia si corre il rischio di andare incontro a contraddizioni, visto che l’intelligenza artificiale, nonostante i potenziali scopi positivi, diventa una lama a doppio taglio in assenza di una corretta valutazione dell’impronta ecologica e del reale fabbisogno energetico.


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A che punto siamo con l’identità digitale delle persone giuridiche?

Sin dalla loro prima definizione normativa, le identità CIE e SPID sono state pensate dal legislatore per identificare sia le persone fisiche che quelle giuridiche. Tutto questo si evince anche dalle notificazioni da parte della Commissione UE di entrambe le identità.

Nella proposta di regolamento eIDAS2 si prevede come il wallet UE debba identificare persone fisiche e giuridiche, oltre a persone fisiche che rappresentano persone giuridiche.

Il concetto di persona giuridica a livello europeo risulta più ampio rispetto a quello nazionale. Nelle norme Ue, infatti, per persona giuridica vengono intese le varie entità conformi al diritto di uno Stato membro oppure disciplinate da questo.

Vengono considerate persone giuridiche anche le entità che vengono normalmente escluse dalla definizione nazionale, in quanto prive di personalità giuridiche, come associazioni non riconosciute, società di persone e ditte individuali con partita iva.

Dunque, un professionista che ha partita iva è una persona giuridica e per questo dovrebbe operare non solo con l’identità personale ma con una che viene attribuita ad una persona giuridica.

In Italia oggi troviamo soltanto uno Spid professionale, che può essere rilasciato ad un professionista oppure ad un rappresentante di persona giuridica. Non c’è alcun modo per dichiarare di essere una persona giuridica oppure rappresentante di questa con CIE.

Tutti noi accediamo ai vari servizi online in diversi modi: ci sono account personali o aziendali. Nel caso di quest’ultimi si possono utilizzare due sistemi: il primo è quello di chiedere se l’utente ha intenzione di accedere con l’account personale oppure con quello aziendale.

In tal modo, viene identificata con certezza tale persona, pur mantenendo la responsabilità sul device provider di accedere al servizio in veste di rappresentante aziendale.

Nel service provider, dunque, confluiscono gli oneri amministrativi per riuscire ad identificare una persona giuridica collegata alla persona fisica, determinando se la persona fisica, effettivamente, abbia titolo per accedere in quanto rappresentante della persona giuridica.

È necessario, dunque, oltre allo SPID professionale, una reale identità elettronica della persona giuridica.

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La proposta di Regolamento eIDAS2, nei confronti dell’identità elettronica delle persone giuridiche sembra essere maggiormente dettagliata rispetto all’attuale regolamento eIDAS.

Stabilisce inoltre l’equivalenza tra l’identità elettronica e quella della persona che la può rappresentare. E già questo potrebbe essere un bel problema, visto che le persone giuridiche possono avere più rappresentanti, che spesso non hanno gli stessi poteri.

Tuttavia sembra che si stia aprendo la porta per i servizi integrativi del wallet, normalmente associati all’utilizzo da parte della persona giuridica. Le caratteristiche che mancano della persona giuridica dovrebbero essere integrate dalle piattaforme che meglio declinano le attribuzioni dell’identità da parte della persona giuridica.

Il wallet, infatti, ha valenza UE, e per questo motivo potrebbe divenire un elemento molto importante per le varie transazioni commerciali transfrontaliere.


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Intelligenza artificiale: ecco Ernie Bot, il rivale cinese di ChatGpt

Baidu, il principale motore di ricerca cinese, paragonabile a Google, ha lanciato Ernie Bot, ovvero la risposta cinese a ChatGpt. Tutto questo rappresenta un gran passo in avanti per il settore tecnologico cinese.

Ernie Bot è la primissima app di Intelligenza Artificiale domestica disponibile in Cina e non all’estero. Afferma Baidu in una nota: «Siamo entusiasti di poter condividere che Ernie Bot è ora completamente pronta per il pubblico a partire dal 31 agosto».

Pechino, ad agosto, ha deciso di introdurre delle nuove norme per gli sviluppatori di IA, con lo scopo di aiutarli a tenere il passo con rivali quali OpenAi e Microsoft, pur mantenendo una stretta sulle informazioni online.

Leggiamo ancora nella nota: «Oltre a Ernie Bot, Baidu lancerà una suite di nuove app native per l’intelligenza artificiale che consentiranno agli utenti di sperimentare appieno le quattro capacità principali dell’intelligenza artificiale generativa: comprensione, generazione, ragionamento e memoria».

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Baidu, rendendo Ernie Bot disponibile, consentirà di ottenere un gran ritorno di pareri, per riuscire a migliorare l’app velocemente.

Le app che si basano sull’intelligenza artificiale generativa si basano su grandi quantità di dati, e sulle varie interazioni con gli utenti, affinché questi possano rispondere a qualsiasi tipo di domanda con un linguaggio simile a quello umano.

Il successo che ha avuto ChatGpt, vietato in Cina, ha comportato una vera e propria corsa allo sviluppo di app rivali, così come un allarme diffuso su potenziali abusi e disinformazioni.

Secondo le linee guida recenti, tutte le app cinesi di intelligenza artificiale generativa dovranno «aderire ai valori fondamentali del socialismo», evitando di minacciare la sicurezza nazionale e soprattutto evitando di promuovere terrorismo, odio etnico e violenza.


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Nel corso degli anni SM - Servicematica ha ottenuto le certificazioni ISO 9001:2015 e ISO 27001:2013.
Inoltre è anche Responsabile della protezione dei dati (RDP - DPO) secondo l'art. 37 del Regolamento (UE) 2016/679. SM - Servicematica offre la conservazione digitale con certificazione AGID (Agenzia per l'Italia Digitale).

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