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Diritto all’oblio e deindicizzazione per tutelare gli assolti

La riforma del processo penale (legge n. 134/2021), in vigore dal 19 ottobre 2021, ha introdotto ufficialmente il diritto all’oblio, ovvero la cancellazione di tutti i contenuti web relativi ai casi che si concludono con archiviazione, assoluzione o non luogo a procedere.

Il diritto all’oblio è inserito all’art.25 e prevede che in tali casi venga emesso un provvedimento di deindicizzazione di tutti i dati personali di indagati o imputati dai motori di ricerca.

TUTELARE RISERVATEZZA E IMMAGINE

La disposizione mira a evitare gli effetti negativi che il perdurare di tali informazioni potrebbe avere sulla vita di chi è stato coinvolto in indagini o processi ma ne è uscito “pulito”.

Internet consente infatti di poter reperire facilmente informazioni su persone coinvolte in procedimenti. Tali informazioni potrebbero però non essere aggiornate rispetto allo sviluppo degli stessi. Ciò potrebbe intaccare la reputazione e la riservatezza presenti e future delle persone citate.

In un’intervista a La Repubblica del settembre 2019, l’ex Garante della Privacy Antonello Soro riassume così la questione:

«La rete annulla la distanza temporale tra una pubblicazione e la successiva, ospitando senza soluzione di continuità notizie anche risalenti, spesso superate dagli eventi e per ciò non più attuali.»

DEINDICIZZAZIONE E DIRITTO D’INFORMAZIONE

Gestire il diritto all’oblio non è però semplice. La deindicizzazione può infatti scontrarsi con altri diritti, come quello all’informazione.

A tal proposito si è espressa anche la Cassazione con l’ordinanza 15160/2021.
L’ordinanza si riferisce al caso di un articolo di giornale pubblicato sul web in cui un imprenditore veniva associato a dei clan mafiosi locali, in assenza di qualsiasi indagine. La Cassazione ha ritenuto che il diritto di informazione fosse lesivo dell’immagine dell’imprenditore e ha imposto la deindicizzazione dell’articolo.

In ogni caso, sarà compito del Governo bilanciare tutti gli elementi in gioco e rendere effettiva la disposizione attraverso uno specifico decreto legislativo.

DIRITTO ALL’OBLIO, I RIFERIMENTI EUROPEI.

La novità inserita nella riforma del processo penale segue la scia delle disposizioni europee già esistenti, prima fra tutte il GDPR.

In particolare, all’art.17 del Regolamento (UE) 2016/679 si parla di diritto alla cancellazione. Tale diritto permette a un soggetto di chiedere al titolare del trattamento la cancellazione dei propri dati personali e impone a questo di farlo “senza ingiustificato ritardo”.

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Sulla validità della notifica del decreto ingiuntivo con procura alle liti priva di firma

La notifica del decreto ingiuntivo telematico va considerata valida anche se la procura alle liti allegata manca della firma del difensore. A confermarlo è la Cassazione con l’ordinanza n. 27154/2021 del 6 ottobre.

QUALE DECORRENZA DEI TERMINI PER L’OPPOSIZIONE AL DECRETO INGIUNTIVO?

Un decreto ingiuntivo viene notificato via pec a una società, accompagnato dalla procura alle liti priva della sottoscrizione del difensore. Lo stesso decreto viene poi notificato anche tramite ufficiali giudiziari.

La società ingiunta decide di opporsi e lo fa entro i termini previsti dalla legge, a partire dalla data della seconda notifica.

Anche la creditrice si oppone sostenendo, tra le varie, che l’opposizione della società sia tardiva perché proposta oltre i termini previsti dalla prima notifica.

Tribunale e Corte d’Appello non condividono però tale visione, considerando “giuridicamente inesistente la prima notifica del decreto di ingiunzione in quanto accompagnata da una procura alle liti priva di sottoscrizione.

La creditrice allora si rivolge alla Corte di Cassazione sostenendo che:

– la procura alle liti fosse stata allegata al ricorso per decreto ingiuntivo e fosse quindi inserita nel fascicolo telematico del procedimento;

ai fini della decorrenza dei termini per proporre l’opposizione, non fosse necessario che la procura alle liti venisse notificata alla società ingiunta insieme al ricorso e al decreto ingiuntivo.

LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE

La Cassazione accoglie il ricorso.
Nell’ordinanza si legge che:

«ai sensi dell’art. 643 c.p.c. ai fini della decorrenza del termine per l’opposizione a decreto ingiuntivo vanno notificati il ricorso ed il decreto monitorio, ma non è necessaria altresì la notificazione della procura alle liti del difensore della parte creditrice, anche se la notificazione avvenga a mezzo PEC, ai sensi della legge n. 53/94, da parte del difensore costituito nel procedimento monitorio;
la eventuale insussistenza, agli atti del procedimento monitorio, di detta procura, così come l’eventuale vizio della stessa, vanno eventualmente fatti valere dall’ingiunto come motivo di opposizione al decreto ingiuntivo, da proporsi comunque nel termine di legge decorrente dalla notificazione di esso, notificazione che può essere sempre effettuata, secondo tutte le modalità previste dall’ordinamento, dal difensore costituito nel procedimento monitorio, atteso che la pronuncia del decreto da parte del giudice del monitorio implicitamente esclude il vizio relativo al ministero di difensore e considerato che contro il decreto l’ordinamento prevede – fuori dai casi in cui ammette l’opposizione ai sensi dell’art. 650 c.p.c.– il solo rimedio dell’opposizione tempestiva».

La notifica a mezzo pec della creditrice doveva dunque essere ritenuta idonea alla decorrenza dei termini per l’opposizione a decreto ingiuntivo da parte della società.

L’opposizione della società va quindi considerata tardiva e il decreto ingiuntivo è confermato.

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Quando è valida la notifica PEC?

Inesistente la notifica PEC se inviata da un indirizzo della PA non presente negli elenchi pubblici

L’intimazione di pagamento di una cartella esattoriale deve provenire da uno degli indirizzi PEC presenti nei pubblici elenchi consultabili dai contribuenti. Quindi, nel caso di invio dell’atto da un diverso indirizzo PEC, la notifica è inesistente e l’intimazione annullata per illegittimità. Lo ha stabilito la Commissione Tributaria Provinciale di Roma (sentenza n.11779/2021), che ha accolto così il ricorso di un contribuente.

L’indirizzo PEC mittente deve figurare negli elenchi delle pubbliche amministrazioni

Succede che ad un contribuente venga notificata un’intimazione di pagamento che richiama cartelle esattoriali precedentemente notificate. Tuttavia, succede che tale notifica venga trasmessa via PEC da un indirizzo che non figura negli elenchi degli indirizzi PEC delle Pubbliche Amministrazioni (individuati dall’art.16 ter D.L. 179/2012). Infatti, dall’analisi delle ricevute di avvenuta consegna, l’indirizzo del mittente appare difforme da quelli indicati sul sito dell’Agenzia delle Entrate Riscossione.

 

 

Ora, in base all’art.3 bis, comma 1 legge 53/1994 , “la notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante dai pubblici elenchi”. Inoltre, lo stesso ente deve anche indicare, nella relata di notifica, il pubblico elenco in cui tale indirizzo è presente. Ne consegue che, in mancanza di tali requisiti, la notifica è da ritenersi nulla (art.11 della medesima legge).

Tornando al caso di specie, l’intimazione viene invece notificata utilizzando indirizzi PEC diversi, difformi da quelli indicati sul sito. In più, gli indirizzi di provenienza non figurano negli elenchi pubblici normativamente previsti. A questo punto, la notifica è da considerarsi inesistente e l’atto di intimidazione nullo, per motivi di illegittimità. Infine, a sostegno della propria tesi, la CTP cita l’autorevole precedente della sentenza della Corte di Cassazione (n.17346 del 2019).

 

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Cybersicurezza: 6 minacce interne da gestire

Cybersicurezza: 6 minacce interne da gestire

Quando si parla di cybersicurezza di aziende ed enti, i pericoli più gravi non vengono da fuori ma da dentro. Sono le minacce interne. Conoscerle è il primo passo per prevenirle.

CYBERSICUREZZA: AZIENDE LENTE NEL RISPONDERE AGLI ATTACCHI

Nel luglio 2021, la società Deep Instinct ha commissionato ad Hayhurst Consultancy un’indagine su un campione di 1.500 manager specializzati in cybersecurity, residenti in 11 paesi diversi e operanti in 6 settori diversi.

Tra i dati più interessanti il fatto che:

le aziende ci mettono in media 20,9 ore per rispondere ai cyberattacchi, le riparazioni possono però richiedere anche mesi. Questa lentezza è particolarmente grave se si considera che il ransomware più veloce può crittografare (e quindi “bloccare”) un sistema in soli 15 secondi. Più tempo il cybercriminale ha di insinuarsi nel sistema, più difficile e costosa sarà la risoluzione del problema;

– il 44% degli intervistati percepisce una mancata capacità di prevenire attacchi con “malware specifici mai visti prima”;

– l’86% di questi non è sicuro delle condotte dei propri colleghi di lavoro in materia di cybersicurezza.

– Il 55% ritiene che non sia possibile prevenire la penetrazione di tutte le minacce malware nella rete aziendale.

La ricerca ha evidenziato l’esistenza di 6 rischi che, più di altri, i team di sicurezza informatica aziendali devono affrontare. Si tratta per lo più di minacce interne, cioè legate a comportamenti della forza lavoro aziendale.

MINACCE INTERNE: I 6 RISCHI PIÙ FREQUENTI

Le minacce interne rappresentano la dimensione della cyberscurezza sulla quale le aziende possono avere più controllo, soprattutto perché i 6 fattori di rischio rilevati dalla ricerca sono tutti collegati fra loro.
Agire su uno significherebbe avviare un processo a cascata favorevole anche per tutti gli altri.

Vediamo quali sono.

GLI ENDPOINT

Un endpoint è un qualsiasi dispositivo capace di connettersi alla rete aziendale centrale. Sono potenziali punti di ingresso per l’attività dei cybercriminali perché spesso sono poco protetti.
Tra gli endpoint figurano certamente i pc aziendali in uso negli uffici, ma anche uno smartphone personale collegato alla rete dell’azienda è un endpoint.

Il numero di endpoint è in aumento e i team di sicurezza informatica sono chiamati a individuarli e proteggerli. Già questo è, di per sé, un compito impegnativo, poiché alcuni endpoint non sono così scontati o raggiungibili (vedi i dispositivi personali). A ciò si aggiunge poi che il lavoro di protezione non deve in alcun modo interferire con l’operatività aziendale.

IL CLOUD

Il cloud può nascondere alcuni rischi perché consente di raggiungere determinati file da qualsiasi dispositivo autorizzato. Il problema dunque è legato alla sicurezza degli endpoint e al sistema stesso su cui si appoggia il servizio cloud.
Inoltre, non è possibile escludere che file archiviati tempo prima nel cloud non contengano malware.

L’UPLOAD DEI FILE

La disponibilità di servizi cloud e l’aumentare dei dispositivi privati connessi alla rete aziendali portano a un volume di file caricati e scaricati sempre maggiore. Tra questi, molti potrebbero contenere malware e non essere riconosciuti dai sistemi di protezione.

IL LAVORO DA REMOTO

Le tendenze sopra citate sono esagerate dalla crescita del lavoro remoto, o smart working. L’uso del proprio computer, della rete di casa o di wifi pubblici, espone l’azienda a maggiori rischi. Questo perché, generalmente, le reti e i dispositivi privati sono molto meno protetti.

I SOFTWARE

Anche le reti aziendali, che godono di software e strutture più resistenti, non sono però immuni da vulnerabilità. Ciò è particolarmente vero per gli storage collegati alla rete e i server virtuali.

IL FATTORE UMANO

Tra le minacce interne più importanti per un’azienda vi è certamente il comportamento dei dipendenti.
La mancanza di formazione in materia di cybersicurezza porta i dipendenti a non saper riconoscere i rischi anche più banali, come possono essere una mail di phishing o un link pericoloso.
Ma anche in caso di formazione, spesso la cybersicurezza è affrontata con leggerezza, causando all’azienda danni che si sarebbero potuti evitare con un po’ più d’attenzione.

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La Clausola di Esclusione dei Terzi

Polizza assicurativa RCT: la Cassazione interviene sulla dubbia interpretazione della clausola

La Corte di Cassazione si è espressa in merito a una vicenda di dubbia interpretazione della clausola. Nello specifico, la Cassazione Civile è intervenuta in merito alla clausola di esclusione dei terzi nella polizza assicurativa di responsabilità civile. Ovvero, di quei soggetti che non sono considerati terzi ai fini del risarcimento assicurativo in caso di danno.

La polizza della responsabilità civile terzi RCT: la vicenda e la sentenza dalla Cassazione

Innanzitutto, la vicenda cominciò con la disputa sulla clausola di una polizza assicurativa di responsabilità civile terzi concernente l'”esclusione dei terzi”. A questo punto, accennato il significato di terzi, è bene fare delle distinzioni. Chi sono quei soggetti da non doversi considerare terzi? Li elenchiamo di seguito:

  • Il coniuge;
  • I genitori;
  • Figli;
  • Gli altri parenti ed affini con loro conviventi;
  • Addetti ai servizi domestici.

Ora, si prenda in esame un caso specifico: se la madre subisce danni, ad esempio cadendo a terra a causa del cane di suo figlio improvvisamente svincolato dal guinzaglio, come si giudica?

Si ricorre in Cassazione poiché si pensa che l’esclusione dei genitori valga solo se sono conviventi.

La Corte di Cassazione Civile n. 25849/2021 accoglie il ricorso rispondendo con due considerazioni:

  1. Il contratto di assicurazione va redatto in modo chiaro e comprensibile. Infatti, il giudice non può attribuire a clausole ambigue un significato univoco. Altrimenti, deve ricorrere ad altri criteri descritti dagli artt. 1362 e ss. c.c. In particolare, quello dell’interpretazione contro il predisponente, di cui all’art. 1370 c.c.;
  2. La convivenza di fatto può riferirsi a tutti. A tal proposito, si noti che nell’elenco degli esclusi i domestici sono menzionati, pur convivendo con gli altri componenti della casa.

Dunque, “il testo della clausola non è univoco, e non lo è per il modo in cui è stata redatta, non già per la oggettiva difficoltà di senso”.

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Autenticazione a due fattori per la sicurezza degli account digitali

L’autenticazione a due fattori è attualmente considerata il metodo più sicuro per proteggere i propri account digitali.

La sicurezza informatica delle nostre identità digitali passa soprattutto per le password, che devono essere forti, cioè complesse, e sempre diverse per ogni account (Qui trovi alcuni consigli per creare password efficaci).

Ma anche password forti possono essere scoperte o rubate in un qualche data breach. Per scoprire se qualche nostro account è finito tra le mani degli hacker basta andare sul sito Have I been pwned? e controllare la propria email o il numero di telefono.

Per aumentare i livelli di sicurezza è meglio scegliere forme di “strong authentication” o autenticazione a due o più fattori.

COME FUNZIONA L’AUTENTICAZIONE A DUE FATTORI

Come spiega Giorgio Sbaraglia, consulente aziendale Cyber Security e membro del Comitato Scientifico CLUSIT, i metodi di autenticazione si poggiano su tre fattori:

  1.  Conoscenza: ci viene chiesta una “cosa che sappiamo”, come una password o un PIN;
  2. Possesso: dobbiamo usare una “cosa che abbiamo”, come lo smartphone o un token di sicurezza;
  3. Inerenza: dobbiamo condividere un dato biometrico, come l’impronta digitale o il timbro della voce.

L’autenticazione con la sola password è un’autenticazione a un fattore.

Come dice il nome stesso, l’autenticazione a due fattori (2FA o MFA, multi-factor authentication), chiede due elementi, per esempio Conoscenza e Possesso, o due password. Funziona inserendo nome utente e password (primo fattore), per poi digitare un codice numerico di sicurezza che, generalmente, viene fornito tramite smartphone o token fisico, oppure inserire un dato biometrico.

Ovviamente, esiste anche l’autenticazione a tre fattori. Un esempio è lo SPID di livello 3.

LA FORZA DELL’AUTENTICAZIONE A DUE FATTORI

La sicurezza garantita da questo tipo di autenticazione deriva proprio da questo secondo step.
Il codice di sicurezza è generato in modo casuale e ha un durata limita (circa 30 secondi): anche se fosse intercettato da un cybercriminale, la sua validità è talmente breve da non permettere un reale sfruttamento. Mentre il dato biometrico, come l’impronta digitale, non può essere rubato facilmente.

COME ATTIVARE L’AUTENTICAZIONE 2FA

L’autenticazione a due fattori è obbligatoria per i servizi bancari, mentre è facoltativa per molti altri, come quelli di Google, Amazon, Apple, PayPal, Dropbox, e social come Facebook, LinkedIn o Twitter.

Per attivarla, basta andare nelle impostazioni di sicurezza del servizio e trovare la funzione apposita. A quel punto viene chiesto di specificare il modo si vuole ricevere il codice di sicurezza (uno dei metodi più diffuso è l’SMS, ma esistono anche i soft token che sfruttano i QRcode) o il dato biometrico da condividere. Basterà poi seguire le poche successive istruzioni per avere la certezza di proteggere al meglio i propri account.

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Concorso notaio: solo con Green Pass

Concorso notarile 2021: l’accesso agli esami è possibile solo con la Certificazione Verde Covid

Il sito del Ministero della Giustizia ha pubblicato il bando del prossimo Concorso notarile da 400 posti. In tale avviso sono riportate le modalità di svolgimento delle prove scritte per gli aspiranti notai. Esse si svolgeranno alla Fiera di Roma previa dimostrazione di possesso del Green Pass.

Il concorso per aspiranti notai: bando di concorso, green pass, esclusione dalle prove

Inizialmente, le modalità di svolgimento delle prove scritte del concorso notarile da 300 posti sono state diffuse dal sito del Ministero della Giustizia. Tuttavia, in un secondo momento, il bando è stato modificato e i posti sono aumentati: 400, come riportato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 10 dicembre 2019. Il concorso è bandito dal decreto dirigenziale del 3 dicembre 20194^ serie speciale – concorsi ed esami.

 

 

Da notare che i candidati potranno accedere all’area concorsuale solo se muniti di Green Pass. E solo e solamente per la prima prova scritta, i partecipanti dovranno:

  • Esibire il referto di un test antigenico, rapido o molecolare (non antecedente a 48 ore);
  • Indossare dispositivi di protezione individuale (mascherine).

Questi ultimi, verranno forniti dall’amministrazione i giorni delle prove scritte.

Inoltre, l’avviso riporta alcuni dei casi per i quali varrà l’esclusione dalle prove, in merito alla mancata osservazione delle regole di sicurezza. In particolare, l’esclusione avviene:

  • Quando un candidato non indossa la mascherina protettiva secondo quanto indicato nell’art. 1 del decreto in causa;
  • La mancata esibizione del Green Pass e del referto del test antigenico o molecolare di cui art. 2;
  • Quando viene meno la consegna dell’autodichiarazione, come da art. 3, dove si indica la positività delle proprie condizioni.

Le disposizioni di esclusione saranno impiegate dal presidente della commissione esaminatrice.

 

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Responsabile o titolare del trattamento? Tutta questione di potere

La Corte di Cassazione si è espressa nuovamente sulla definizione del responsabile e del titolare del trattamento dei dati personali.

IL CASO

Un rivenditore intesta undici schede telefoniche a cinque ignari cittadini, in totale opposizione alle disposizioni della società telefonica relative all’obbligo di identificare dell’assegnatario di un’utenza e di informare sul trattamento dei dati personali.

L’indagine della Guardia di Finanza porta il Garante della Privacy a sanzionare il rivenditore con una multa da 40.000 euro.

Il rivenditore però si oppone, sostenendo, tra le varie, di essere il responsabile e non il titolare del trattamento dei dati personali.

Il Tribunale ritiene invece che sia anche titolare. La decisione parte da un precedente provvedimento del Garante, relativo all’attivazione di un sevizio telefonico a un defunto.

Il rivenditore ricorre allora in Cassazione.

TITOLARE DEL TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI E POTERE DECISIONALE

Con l’ordinanza 21234 del 23 luglio 2021, la Cassazione ribadisce che ciò che qualifica il titolare del trattamento dei dati personali è il potere decisionale:

«in caso di preposizione di un soggetto al trattamento dei dati su incarico del titolare, è necessario che l’effettivo trattamento dei dati da parte del preposto si svolga nell’osservanza delle istruzioni impartite dal titolare, con la conseguenza che, ove non vi sia tale osservanza, il responsabile potrà essere riconosciuto come effettivo titolare, responsabile in concreto del trattamento, in ragione dell’autonomia decisionale e gestionale manifestata nell’aver disatteso le disposizioni impartite dal titolare».

Nel caso in questione, il rivenditore – di base solo responsabile del trattamento – ha dimostrato autonomia decisionale attivando le undici schede senza seguire le istruzioni ricevute dalla società telefonica – titolare del trattamento – a proposito degli obblighi da rispettare.

Pertanto, il rivenditore va considerato titolare del trattamento dei dati personali degli utenti, con tutto ciò che ne consegue.

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Avvocati e praticanti PA: nessuna incompatibilità

Per il Pnrr, avvocati e praticanti assunti nella PA non perdono Albo e Cassa

Il decreto attuativo del Pnrr, presto pubblicato in Gazzetta Ufficiale, all’art. 27 prevede il “Conferimento di incarichi di collaborazione per il supporto ai procedimenti amministrativi connessi all’attuazione del PNRR”. Ora, per questi incarichi di collaborazione, il suddetto articolo va a realizzare apposita modifica al decreto legge n.80/2021. Il fine? Incentivare le assunzioni delle migliori professionalità legali per l’attuazione del PNRR.

Avvocati assunti nella PA per il PNRR: cancellata ogni incompatibilità

Il decreto legge n.80 del 9 giugno 2021 contiene le “Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza […]”. Tuttavia, il decreto attuativo del PNRR -non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale- all’art.27 prevede una modifica parziale proprio del dl.n.80. Nello specifico, all’art.27 viene aggiunto il comma 7 bis, che modificherebbe l’articolo 1 del suddetto dl.n.80.

 

 

Qui, la volontà è di modificare la procedura che vede l’obbligo da parte di professionisti assunti anche a tempo determinato di cancellarsi dagli albi, collegi o ordini professionali d’appartenenza. Non solo: per detti professionisti, la nuova disposizione prevede anche la possibilità di conservare l’iscrizione ai regimi previdenziali obbligatori. Infine: vi è l’esclusione dell’onere a carico del professionista di ricongiungere i periodi di lavoro prestati per il PNRR se egli sceglie di non mantenere l’iscrizione alla cassa previdenziale di appartenenza.

Da notare che la norma appena esaminata contrasta nettamente con quanto stabilito dalla Riforma Forense nella “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense” (legge 247/2012). Infatti, all’art. 18, lettera d) del testo sull’incompatibilità dell’esercizio della professione forense si prevede il contrasto tra quest’ultima e qualsiasi altra attività di lavoro subordinato. Incompatibilità che riguarda senza compromessi anche le prestazioni lavorative svolte con orario di tempo limitato.

Assunzioni professionisti legali nella PA per il PNRR: Nessuna sospensione dall’esercizio della professione

Perciò, la rivoluzione dell’art.27, attuativo del PNRR, è costituita della possibilità di svolgere compatibilmente l’esercizio della professione forense ed una prestazione lavorativa nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Ciò, rimanendo entro l’ambito specifico dell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resistenza.

Non si trio in ballo alcuna questione di incompatibilità dunque, ma non si da neppure la minima indicazione sulle eventuali sospensioni dall’esercizio dell’attività professionale. Questo perché mancano i riferimenti all’art.20 della Riforma Forense, quello che prevede la sospensione dall’attività professionale in due casi esclusivi. Cioè, quando:

  • è l’avvocato a richiederlo;
  • parallelamente alla sua carica, il legale ricopre cariche importanti quali quella del Presidente della Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio, Ministro, Viceministro, Sottosegretario di Stato, Presidente di Giunta Regionale, delle Regioni autonome di Trento e Bolzano, Membro della Corte Costituzionale o del Consiglio Superiore della magistratura, Presidente di Provincia con più di un milione di abitanti o Sindaco di un comune con più di 500.000 abitanti.

Va detto che tale sospensione può comunque essere richiesta in seguito, se nell’attuare il PNRR l’avocato dipendente della Pubblica Amministrazione riscontri particolari incompatibilità. Oppure, nel caso in cui -come prevede l’art-24 del Codice di deontologia Forense – emergano condizioni in grado di determinarne il minimo conflitto d’interessi.

 

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Presunzione di innocenza: passo avanti o bavaglio alla libertà d’informazione?

La presunzione d’innocenza viene introdotta con la direttiva (UE) 2016/343 che gli stati membri sono chiamati a recepire.

Il Governo italiano già lo scorso agosto ha presentato uno schema di decreto legislativo, da poco passato al vaglio delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato lasciando dietro di sé uno strascico di polemiche.

PRESUNZIONE D’INNOCENZA, COSA DICE LA DIRETIVA EUROPEA

Due sono gli aspetti più interessanti della direttiva europea:

– alle autorità pubbliche viene imposto di non riferirsi all’indagato/imputato con il termine “colpevole” fino a che tale colpevolezza non sia definitivamente provata; ciò è particolarmente vero in caso di dichiarazioni pubbliche rese dalle autorità pubbliche;

– alla Procura è consentito condividere con la stampa informazioni sui procedimenti penali solo se strettamente necessario alla prosecuzione delle indagini, in caso di interesse pubblico o se il Procuratore (o un delegato) può confrontarsi con la stampa esclusivamente attraverso comunicati ufficiali o conferenze stampa.

PROCESSI SHOW E LIBERTÀ D’INFORMAZIONE

La regolamentazione dei rapporti tra autorità inquirente e organi di stampa ha generato le polemiche più aspre.

L’Associazione Nazionale Magistrati la definisce un’«ingessatura eccessiva» che può persino ledere il diritto a una corretta informazione. 
Gli avvocati penalisti la ritengono un «passo avanti» pur rimanendo scettici sull’efficacia.
Per alcuni giornalisti si tratta di un bavaglio alla libertà d’informazione, mentre per altri è un ottimo modo per contrastare i processi show e la gogna mediatica.

LE PERPLESSITÀ

Lo scorso 20 ottobre le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno dato il via libera allo schema di decreto legislativo che recepisce la direttiva europea sulla presunzione d’innocenza. Ecco i punti più nebulosi.

– l’art. 2 introduce il divieto, per le autorità pubbliche, di definire pubblicamente “colpevole” l’indagato, ma non specifica chi siano queste autorità pubbliche. Dentro questa definizione potrebbero finire soggetti di ogni tipo;

– l’art. 3 prevede che la decisione d’indire una conferenza stampa in casi di «particolare rilevanza pubblica» sarà presa dal Procuratore della Repubblica «con atto motivato in ordine alle specifiche esigenze di ragioni di pubblico interesse che lo giustificano». Ciò significa che a decidere quali siano questi casi di «particolare rilevanza pubblica» o le «ragioni di pubblico interesse» sarà la stessa autorità che conduce le indagini, ossia la Procura. C’è dunque una sovrapposizione tra controllore, controllato e inquirente;

– l’art. 4 specifica che nei provvedimenti diversi da quelli volti a chiarire la responsabilità penale di un soggetto (per esempio quelli cautelari), l’indagato/imputato non può essere definito “colpevole” fino a un’eventuale sentenza definitiva. 
«In caso di violazione della norma, nella fase di indagine preliminare a decidere dovrebbe essere lo stesso gip che ha disposto, con il provvedimento censurato, le misure cautelari» [fonte: Il Dubbio]. Si prevede dunque che un magistrato possa rettificare se stesso.

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