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Quando è valida la notifica PEC?

Inesistente la notifica PEC se inviata da un indirizzo della PA non presente negli elenchi pubblici

L’intimazione di pagamento di una cartella esattoriale deve provenire da uno degli indirizzi PEC presenti nei pubblici elenchi consultabili dai contribuenti. Quindi, nel caso di invio dell’atto da un diverso indirizzo PEC, la notifica è inesistente e l’intimazione annullata per illegittimità. Lo ha stabilito la Commissione Tributaria Provinciale di Roma (sentenza n.11779/2021), che ha accolto così il ricorso di un contribuente.

L’indirizzo PEC mittente deve figurare negli elenchi delle pubbliche amministrazioni

Succede che ad un contribuente venga notificata un’intimazione di pagamento che richiama cartelle esattoriali precedentemente notificate. Tuttavia, succede che tale notifica venga trasmessa via PEC da un indirizzo che non figura negli elenchi degli indirizzi PEC delle Pubbliche Amministrazioni (individuati dall’art.16 ter D.L. 179/2012). Infatti, dall’analisi delle ricevute di avvenuta consegna, l’indirizzo del mittente appare difforme da quelli indicati sul sito dell’Agenzia delle Entrate Riscossione.

 

 

Ora, in base all’art.3 bis, comma 1 legge 53/1994 , “la notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante dai pubblici elenchi”. Inoltre, lo stesso ente deve anche indicare, nella relata di notifica, il pubblico elenco in cui tale indirizzo è presente. Ne consegue che, in mancanza di tali requisiti, la notifica è da ritenersi nulla (art.11 della medesima legge).

Tornando al caso di specie, l’intimazione viene invece notificata utilizzando indirizzi PEC diversi, difformi da quelli indicati sul sito. In più, gli indirizzi di provenienza non figurano negli elenchi pubblici normativamente previsti. A questo punto, la notifica è da considerarsi inesistente e l’atto di intimidazione nullo, per motivi di illegittimità. Infine, a sostegno della propria tesi, la CTP cita l’autorevole precedente della sentenza della Corte di Cassazione (n.17346 del 2019).

 

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