È possibile ridurre le emissioni di CO2 del proprio pc?

La tecnologia che utilizzi è abbastanza green? Qual è l’impronta di carbonio del tuo computer?

Di recente, si è molto discusso dei massicci consumi di energia collegati alle criptovalute. Tuttavia, anche chi utilizza abitualmente pc e software per usi “più comuni”, dovrebbe interrogarsi sul proprio consumo di energia.

Anna Maria Rosati e Angelo Rosiello, esperti del settore e consulenti di Oliver Wyman, evidenziano come «la Commissione europea stima che strumenti e servizi digitali, come le applicazioni aziendali, i dispositivi degli utenti finali, i server e le altre infrastrutture, produrranno il 14% delle emissioni globali entro il 2040 rispetto all’attuale 2%-3%».

Per riuscire a «contestualizzare meglio questo dato, da un’analisi condotta sui rapporti della Iea, l’agenzia internazionale dell’energia, il trasporto su strada ha contribuito per circa il 28% delle emissioni di CO2 nel 2021».

Per questo è nata la necessità di muoversi anche sulla sostenibilità del versante IT. Continuano i consulenti di Oliver Wyman: «Le aziende riconoscono facilmente il ruolo delle tecnologie nelle pratiche di sostenibilità, ma molte non considerano il modo in cui le tecnologie, soprattutto quelle ad alto consumo energetico come l’intelligenza artificiale, la blockchain e la cifratura dei dati, contribuiscono sempre più alle emissioni di carbonio».

Generalmente, «la strategia di sostenibilità IT riguarda l’hardware e le operations, ma non include completamente le misure relative alle applicazioni e allo sviluppo».

Se si analizza la sostenibilità del settore IT si pensa immediatamente all’hardware, e non al pc. Tuttavia, una parte della questione è collegata ai software.

«Quando si progettano le applicazioni, ad esempio, gli architetti e gli sviluppatori dovrebbero considerare la sostenibilità tra i requisiti non funzionali. Allo stesso modo, le valutazioni ambientali devono essere prese in considerazione e nella selezione di software di terze parti insieme ad altri fattori convenzionali. Anche un utilizzo più consapevole del pc può portare un contributo significativo».

Otto consigli 

Secondo i consulenti di Oliver Wyman, per riuscire a ridurre le emissioni di CO2 del pc è necessario seguire otto semplici consigli.

  • Impostiamo le opzioni di power saving del proprio sistema operativo. Su Window Power Option, per esempio, basta selezionare un profilo bilanciato, che ha performance più basse. Oppure impostare la modalità automatica di spegnimento dello schermo o attivare la modalità sleep;
  • Ridurre la luminosità del proprio schermo. Oltre alla riduzione del consumo, ci sono anche benefici per la vista: gli occhi risulteranno meno affaticati;
  • Impostare la dark mode (il tema scuro): le finestre saranno scure, ridurranno i consumi e riposeranno la vista. E’ consigliato nelle condizioni di scarsa luminosità esterna, anche per non dare fastidio a chi si trova accanto a noi;
  • Chiudere tutti i programmi in esecuzione non necessari e chiudere le finestre inutilizzate;
  • Spegnere il WiFi e il Bluetooth se non utilizzati;
  • Spegnere il pc se non deve essere utilizzato per lungo tempo, al posto di metterlo in standby. Meglio anche staccare la presa dell’alimentatore, dato che il pc, anche se spento, genera dei consumi collegati alla rete elettrica;
  • Se dobbiamo condividere via mail dei documenti, utilizziamo un link a folder condiviso, al posto di inviare i file. Oltre a ridurre le emissioni, evitiamo anche di intasare le caselle di posta;
  • Prima di acquistare un nuovo pc, consultiamo le stime sull’impatto ambientale.

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Caso Cospito: Nordio non ha intenzione di revocare il 41-bis

Durante la riunione del Consiglio dei ministri di ieri sera, Carlo Nordio, il ministro della Giustizia, ha comunicato la sua posizione ufficiale sul caso Alfredo Cospito. Nordio, infatti, non ha intenzione di revocare il regime 41-bis all’anarchico, attualmente in sciopero della fame da 104 giorni.

È attesa anche una sentenza della Corte di Cassazione, ma non arriverà prima del 7 marzo. Se Cospito non interromperà lo sciopero della fame, probabilmente non sopravvivrà fino a quel giorno.

Durante il suo intervento, Nordio ha «ricordato le ragioni che hanno determinato l’autorità giudiziaria a proporre e confermare il regime detentivo di cui all’articolo 41-bis per Alfredo Cospito».

Inoltre, sottolinea che «la Corte di Cassazione è chiamata a prendere una decisione in merito nel prossimo mese di marzo». Tuttavia, «per la parte di propria competenza, il ministro della Giustizia ritiene di non revocare il regime di cui all’articolo 41-bis».

Nordio ha deciso che è sufficiente l’intervento che ha portato al trasferimento di Cospito al carcere Opera di Milano, dove verrà ricoverato a causa del suo stato compromesso di salute. Il governo Meloni, dunque, è coerente con la sua linea: «Non scendiamo a patti con chi usa la violenza».

Le reti di supporto

Piantedosi, il ministro dell’Interno, ha portato l’attenzione sulla «rete di supporto nei confronti del detenuto», ovvero gruppi di anarchici che nel corso degli ultimi giorni hanno protestato, in Italia ma anche all’estero.

Tale “rete di supporto”, afferma Piantedosi, «si è manifestata in plurimi episodi di atti vandalici o incendiari e in manifestazioni di piazza, anche violente». Per questo si è assistito ad «un innalzamento dell’attenzione e delle misure necessarie» per affrontare eventuali rischi.

Per il ministro degli Esteri Tajani, è necessario il «rafforzamento del sistema difensivo della rete diplomatica italiana all’estero, reso necessario dalle ostilità manifestate nei confronti di sedi di ambasciate e consolati». Ribadisce anche «la volontà di non scendere a patti con chi usa violenza e minaccia come strumento di lotta politica».

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Riccardo Noury, il portavoce di Amnesty International, questa è una posizione sbagliata. «Se si passa dal non ci faremo intimidire al non cederemo di fronte alle minacce si perdono completamente di vista i diritti umani di Alfredo Cospito».

I diritti «non passano in secondo piano, anche nel caso in cui siano rivendicati attraverso azioni come quelle degli ultimi giorni, che sono da condannare. Queste azioni possono indebolire le campagne, ma non i diritti», conclude Noury.

Le condanne di Cospito

Cospito ha 55 anni, e fa parte della Fai-Fri, ovvero la Federazione anarchica informale – Fronte rivoluzionario internazionale.

La sigla è identica a quella della Federazione anarchica italiana; tuttavia, quest’ultima condanna la violenza indiscriminata in quanto metodo di lotta, mentre la Federazione anarchica informale è a favore della lotta armata contro lo Stato.

Nel 2013 Cospito ha ricevuto una condanna di dieci anni e otto mesi per aver ferito, con colpi di pistola alle gambe Roberto Adinolfi, dirigente dell’Ansaldo.

Era già in carcere quando fu accusato di aver posizionato, nel 2006, due pacchi bomba davanti ad una scuola dei carabinieri in provincia di Cuneo. L’esplosione non causò feriti o morti. Per tale attentato ricevette una condanna di 20 anni di carcere, e fu inserito in un circuito penitenziario ad alta sicurezza.

Il 41-bis

Nel 2022, dopo sei anni di carcere, il ministero della Giustizia ha preso la decisione di sottoporlo al 41-bis. Per il suo avvocato la decisione è stata presa «senza che fosse intervenuto alcun fatto nuovo».

Per il ministero della Giustizia, invece, Cospito doveva essere sottoposto necessariamente al 41 bis, visti i «numerosi messaggi che, durante lo stato di detenzione, ha inviato a destinatari all’esterno del sistema carcerario; si tratta di documenti destinati ai propri compagni anarchici, invitati esplicitamente a continuare la lotta, particolarmente con i mezzi violenti ritenuti più efficaci».

Cospito ha intrapreso lo sciopero della fame anche perché esiste la possibilità che la sua pena venga trasformata in ergastolo ostativo. Infatti, l’anarchico è stato condannato a 20 anni di carcere per strage comune, ma la Corte di cassazione ha ritenuto che il reato in questione riguardava la strage politica (art. 285 del Codice Penale).

La strage politica è più grave, prevede l’ergastolo ed è anche un reato ostativo. L’avvocato Flavio Rossi Albertini ricorda che per le stragi di Capaci e di via D’Amelio e per la strage di Bologna venne applicato l’art 422, ovvero strage comune.

Per l’avvocato, dunque, non è adeguato ritenere Cospito responsabile di atti più gravi rispetto a stragi mafiose e terroristiche, come quella alla stazione di Bologna che provocò 85 morti.


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TikTok è un’app di proprietà della società ByteDance, e viene utilizzata per creare e condividere video che trattano letteralmente qualsiasi argomento. Principalmente viene utilizzata su dispositivi mobili, ma è possibile guardare i TikTok anche tramite l’app web.

TikTok, nel mercato cinese, funziona mediante un’app separata, Douyin, una delle app più popolari del Paese. Ad oggi più di 700 milioni di persone utilizzano l’app ogni giorno. Tuttavia, l’app continua a mantenere un numero di utenti ben separato dalla versione cinese.

L’app è stata installata tre miliardi di volte. E’ una delle applicazioni più utilizzate in tutto il mondo. La pandemia ha aiutato molto a far crescere il social, e per alcune persone è diventata addirittura fonte di reddito.

Nel 2018, l’app contava soltanto 133 milioni di utenti al mese, mentre oggi gli utenti attivi mensilmente sono circa un miliardo. TikTok, dunque, è indubbiamente destinata a divenire uno dei principali social media sul mercato.

TikTok non è sotto i riflettori soltanto per la sua popolarità, ma anche per le preoccupazioni delle autorità occidentali, che temono che la Cina entri in possesso dei dati personali delle persone di tutto il globo.

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Il Copasir ha deciso di avviare nel 2023 un’indagine conoscitiva su TikTok, soprattutto a seguito dei timori che si sono diffusi negli Stati Uniti per i legami presunti tra il Partito Comunista Cinese e la gestione dei dati degli utenti nell’app.

Il Copasir, dunque, ha deciso di intraprendere un’indagine per esaminare eventuali rischi, infiltrazioni e minacce che il social potrebbe comportare per la popolazione di tutto il mondo.

Il BEUC, nel 2021, aveva denunciato l’app di sfruttamento di dati e diritti degli utenti. «TikTok si oppone a molteplici violazioni dei diritti dei consumatori dell’UE e non riesce a proteggere i bambini dalla pubblicità nascosta e dai contenuti inappropriati», ha affermato con un comunicato stampa.

Il GPDP (Garante per la Protezione dei Dati Personali) aveva ordinato a TikTok di bloccare l’accesso all’app agli utenti che non potevano procedere alla conferma della propria età – anche e soprattutto a causa di una bambina di 10 anni di Palermo, che ha perso la vita a causa di una challenge lanciata sul social.

Già nel 2020 il Copasir ha voluto verificarne l’utilizzo da parte del Governo cinese dei dati dell’app. In quella occasione i membri della maggioranza del governo avevano richiesto una verifica dell’utilizzo dei dati personali degli utenti italiani, che in quell’anno erano aumentati tantissimo.

Anche Antonello Soro, presidente del Garante per la Privacy, aveva sollevato dubbi sulla sicurezza dei dati che venivano gestiti dall’applicazione. Per questo, era stata inviata una lettera all’autorità europea, a seguito della quale fu creata un task force dedicata a TikTok per il controllo delle azioni e per l’acquisizione di maggiori informazioni riguardo al trattamento dei dati personali da parte dei social in generale.

Ma le attenzioni delle autorità di tutto il mondo sulle minacce potenziali dei social network riguardo la sicurezza nazionale non sono qualcosa di nuovo.

Nel 2020, Trump tentò di bandire la società ByteDance dal mercato americano con una serie di provvedimenti esecutivi, successivamente revocati da Biden.

Nel 2021 alcuni impiegati di TikTok avrebbero affermato che gli sviluppatori dell’app hanno accesso ai dati degli utenti degli Stati Uniti, come nomi, età, indirizzi mail, numeri di telefono, dettagli sui dispositivi, sulle reti mobili, sulle informazioni biometriche e sulle abitudini di navigazione.

Nonostante le rassicurazioni all’amministrazione Biden riguardo alla custodia dei dati, l’attenzione di Washington nei confronti di TikTok è rimasta sempre molto alta.

Nel novembre del 2022, invece, Chris Wray, il direttore dell’FBI, ha denunciato il potenziale utilizzo dell’app da parte del governo per operazioni di influenza nel territorio degli Stati Uniti.

Le preoccupazioni collegate all’utilizzo dei dati degli utenti in maniera impropria sono alla base dei recenti provvedimenti attuati da Washington nel corso degli ultimi mesi. Una ventina di rappresentanti e governatori, per la maggior parte repubblicani, avrebbero imposto restrizioni all’utilizzo dell’app in vari Stati americani, arrivano a vietare l’utilizzo di TikTok sui dispositivi dei dipendenti del governo federale.

Le rassicurazioni all’Unione Europea

Shou Zi Chew, CEO di TikTok, avrebbe fatto visita al Commissario europeo per la concorrenza lo scorso 10 gennaio, per rassicurare l’UE che l’app rispetta impegni e regole in materia di sicurezza e privacy, soprattutto nei confronti dei minori.

Inoltre, come riporta ANSA, l’incontro di Bruxelles avrebbe posto l’attenzione sul «Regolamento generale della protezione dei dati e di questioni relative alla privacy e agli obblighi di trasferimento dei dati, con un riferimento alle recenti notizie di stampa sulla raccolta e la sorveglianza aggressiva dei dati negli Stati Uniti».

L’obiettivo del confronto con il CEO di TikTok è la verifica degli obblighi imposti dal regolamento europeo (Digital Market Act e Digital Service Act). Chew si è anche confrontato con il Commissario europeo per la giustizia, che ha affermato l’importanza del rispetto delle norme europee in materia di privacy dopo aver «fatto il punto sugli impegni dell’azienda per combattere i discorsi di odio online e garantire la protezione di tutti i consumatori, compresi i bambini».

L’addio a TikTok

Nonostante tutto, il Commissario europeo per il mercato interno, Thierry Breton, ha avvisato Chew che TikTok potrebbe essere bannato dall’Unione Europea se non verranno rispettate le nuove norme sui contenuti digitali prima del 1 settembre.

Non è che l’UE sia sempre stata tenera con le Big Tech, che negli tempi hanno ricevuto molte multe per violazione del GDPR. Ma attualmente, in Europa, TikTok non può considerarsi come un colosso quanto Amazon, Meta e Alphabet, nonostante l’app abbia un altissimo seguito.

Per Moritz Korner, membro delle Commissione europea, «l’Europa deve finalmente svegliarsi». Ma perché questo cambio di atteggiamento arriva proprio ora?

Il tracciamento di due giornalisti americani

ByteDance ha ammesso di aver utilizzato l’app per geolocalizzare due giornalisti statunitensi, e questo ha sicuramente contribuito alle preoccupazioni.

Si è scoperto infatti che alcuni dipendenti stessero utilizzando senza motivo strumenti di analitica con lo scopo di accedere ai dati personali di almeno due giornalisti americani, ma anche di un “piccolo gruppo di persone” connesse a loro.

I dipendenti sono già stati licenziati, e ByteDance si è detta “profondamente delusa” dai comportamenti dei lavoratori, che avrebbero danneggiato l’immagine della società, di per sé già traballante.

I dipendenti licenziati avrebbero utilizzato illecitamente gli strumenti interni della società per ottenere gli indirizzi Ip dei due giornalisti, tenendo sotto controllo la loro posizione. L’obiettivo, secondo la stampa americana, era comprendere se i reporter fossero entrati in contatto con persone sospettate di aver comunicato alla stampa informazioni riservate sull’azienda.

Bisogna tenere in considerazione che i giornalisti lavoravano per BuzzFeed e Financial Times, responsabili della pubblicazione degli scoop sugli spionaggi di TikTok da parte della Cina.

TikTok ha preso le distanze dall’accaduto, ma di certo la vicenda non ha aiutato a migliorare la sua già compromessa reputazione nel resto del mondo.

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Un motoscafista di una nota azienda di servizi di trasporto di persone a Fusina beve lo spritz durante l’orario di lavoro. La società decide di licenziarlo, ma il giudice annulla il provvedimento. L’azienda dovrà pagare tutti gli arretrati, ma non dovrà riassumerlo.

Questo, in sintesi, è il risultato della sentenza che è stata pronunciata a Venezia riguardo al ricorso di un motoscafista che era stato licenziato, dopo le testimonianze fotografiche e quelle verbali dei colleghi riguardo le sue tappe al bar durante il turno di lavoro.

Nello specifico, parliamo di un’armatore che lavorava per un’azienda di servizi di trasporto di persone di Fusina. E’ stato licenziato nel giugno dello scorso anno, anche se non era mai in stato di ebbrezza. Proprio per questo motivo il Giudice del Lavoro ha condannato l’azienda al risarcimento di sei mensilità, accertando l’illegittimità del licenziamento.

Leggiamo nella sentenza che «nella contestazione disciplinare la società ha fatto riferimento all’ipotesi dell’ubriachezza», confermando «l’assunzione con regolarità di bevande alcoliche in orario di lavoro evidenziando che tale comportamento, per il ruolo svolto dal ricorrente, costituiva comportamento in grado di ledere il vincolo fiduciario».

Il contratto del lavoratore, tuttavia, ha influito a suo favore. Scrive il giudice: «L’impresa non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato per iscritto l’addebito e senza averlo sentito a sua discolpa. Né la legge né il contratto prevedono alcuna sanzione nel caso in cui il comandante beva ma senza ritrovarsi in stato di ubriachezza».

Ma per il motoscafista c’è un piccolo problema. «Si ritiene che la responsabilità e quindi la diligenza connessa alla conduzione dei natanti della portata di circa 300 passeggeri implichi la necessità di astenersi durante l’orario di lavoro e lo svolgimento delle mansioni di comandante dall’assunzione di sostanze alcoliche».

Non solo «non si deve essere ubriachi ma altresì non ci si deve porre nella condizione di poterlo essere. E non può imporsi alla società datrice di lavoro di avvalersi di un comandante che durante l’orario di lavoro si allontani dall’imbarcazione per assumere alcolici e si metta poi alla conduzione».

L’azienda, dunque, non deve rispristinare il rapporto lavorativo, dato che l’assunzione di alcolici è assolutamente vietata per il proprio personale di pilotaggio.

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Ci sono più pensionate donne rispetto agli uomini. 779.791 è il numero delle nuove pensioni erogate nel corso del 2022 dall’Inps, tra cui troviamo 437.596 donne e 342.195 uomini.

Tuttavia, non accenna a diminuire il divario di genere, dato che le donne percepiscono mensilmente una media del 30% di meno rispetto agli uomini. Gli uomini, in media, ricevono 1.381 euro, mentre le donne 976 euro. La differenza, precisamente, è del 29,32%.

Su tale differenza impattano molto alcuni fattori come il gap retributivo, che da sempre penalizza le donne, le carriere lavorative discontinue, con alcuni periodi di interruzione per l’assistenza dei familiari e minori progressioni di carriera.

Questo è quanto emerge dalla lettura dei dati raccolti dall’Osservatorio dell’Inps riguardo i flussi di pensione del 2022. Se si guardano le diverse gestioni previdenziali, la situazione diviene articolata, seppur con una costante: ovvero, l’assegno mensile delle donne risulta sempre inferiore rispetto a quello degli uomini.

Una breve analisi

Iniziamo l’analisi dal Fpld, il fondo per i lavoratori dipendenti. Il divario, qui, in media, è del 36,98%, poiché le donne percepiscono 1.029 euro e gli uomini 1.633 euro. Entrando ancora più nel dettaglio, nelle pensioni di vecchiaia il gap arriva a 47,63%: ai pensionati uomini, in media, vanno 1.440 euro, mentre alle donne 754 euro. In sostanza, quasi la metà.

Il divario più ampio, tuttavia, si trova nei parasubordinati. L’assegno mensile, in media, è di 409 euro per gli uomini. Per le donne, 189 euro: parliamo di una differenza del 53,78%.

Nella gestione artigiani gli uomini in media percepiscono 1.108 euro, mentre le donne 123 euro. Le cose non migliorano nemmeno tra i commercianti, con un gap tra uomini e donne del 33,44%: gli uomini percepiscono 1.160 euro e le donne 772 euro.

Per quanto riguarda la gestione dipendenti pubblici, le donne percepiscono 1,753 euro al mese, contro i 2.349 euro mensili degli uomini. Troviamo un minor divario nella gestione dei lavoratori autonomi dell’agricoltura. Le donne percepiscono 604 euro al mese, gli uomini, invece, 746 euro, con una differenza del 19,03%.

Opzione Donna

Nel 2022, le pensioni che sono state liquidate con “Opzione Donna” hanno registrato un aumento del 15,4% rispetto all’anno precedente, e hanno raggiunto quota 23.812. Sono state 8.833 le donne che hanno deciso di avvalersi della misura prima dei 59 anni, con assegni inferiori a 500 euro per quasi la metà.

Più della metà degli assegni che sono stati liquidati (12.298) tra le donne beneficiarie dell’opzione, visti gli importi calcolati mediante metodo contributivo, ha un valore inferiore di 500 euro mensili. L’88,75% ha valore inferiore a 1000 euro.

Il tema è oggetto di un tavolo tra Marina Calderone, ministra del lavoro, e i sindacati, che richiedono il ripristino della possibilità di andare in pensione grazie ad opzione donna, con 35 anni di contributi e 58/59 anni d’età, andando quindi oltre ai paletti che sono introdotti dalla Legge di Bilancio 2023.

I sindacati hanno richiesto anche il riconoscimento alle lavoratrici madri di un anticipo dei requisiti pensionistici di almeno 12 mesi per ogni figlio e un riconoscimento previdenziale per i lavori di cura.

Secondo Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, «in prevalenza le donne vanno in pensione con la vecchiaia perché hanno pochi contributi a causa delle carenze del mercato del lavoro e dei servizi alla famiglia, di conseguenza vanno in pensione più tardi e con assegni decisamente più bassi rispetto agli uomini di circa il 30% e anche se guardassimo al reddito pensionistico delle donne, cioè alla somma di più pensioni, la percentuale in riduzione non cambierebbe molto».

Per Sbarra è necessario «rafforzare le politiche del mercato del lavoro che sostengono l’occupazione femminile, sostenere la contrattazione che agevola la conciliazioni tra vita e lavoro e favorisce una migliore ripartizione delle responsabilità familiari sviluppando i servizi alla famiglia».

«Le donne, però,» conclude, «devono essere maggiormente aiutate anche sul versante delle regole previdenziali dal momento che sono state molto penalizzate dalle riforme pensionistiche degli ultimi 30 anni».

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Il corteggiamento è una cosa molto bella, ma è del tutto differente dal love bombing, ovvero una tecnica utilizzata per la manipolazione affettiva. Il termine potrebbe far pensare a qualcosa di spontaneo e bello, ma si tratta di qualcosa di assolutamente negativo.

Letteralmente, il termine in italiano è tradotto come “bombardamento d’amore”. Tale espressione è stata utilizzata per la prima volta nel 1995 dalla psicologa Margaret Singer, che in un suo libro scriveva che «il termine descrive i modelli di comportamento usati da sette religiose, istituzioni, professionisti o semplici persone al fine di operare plagio, condizionamento e manipolazione».

La Singer ci aveva azzeccato. Il love bombing è una reale tecnica di manipolazione, ed è un metodo per riuscire a sfruttare il bisogno d’amore e la fragilità delle persone. Il manipolatore riempie l’altra persona di manifestazioni amorose, magari in una fase della relazione nella quale non ci sono le basi affinché si sviluppi un sentimento del genere.

La vittima del love bombing potrebbe essere una persona normalissima, magari con insicurezze e fragilità accentuate che il love bomber intercetta e ci fa leva. Ma non è necessario che la vittima sia particolarmente sprovveduta o fragile, dato che ognuno di noi ha dei punti deboli.

Il love bomber può essere un uomo, una donna, ma anche un gruppo di persone, come nel caso delle sette. Di solito è un narcisista che manipola la vittima inondandola di eccessive attenzioni.

Le tappe del love bombing

Il love bombing è un processo, caratterizzata da diverse tappe, tutte con il fine di instaurare una relazione con la vittima, inconsapevole del rischio di finire dentro una relazione tossica. Di solito comincia come una sorta di sogno romantico che diventa presto realtà. Nei film è l’innamoramento ideale; ma nella realtà è qualcosa di troppo eccessivo.

La fase iniziale è quella della conquista. Il love bomber inonderà la vittima di attenzioni, complimenti, dichiarazioni e gesti plateali. Dirà, per esempio, «non ho mai provato nulla di simile», oppure «finalmente ti ho trovato».

Il love bomber fa molti regali, esaudisce tutti i desideri e dichiara il suo amore ai quattro venti. Il corteggiamento è un processo graduale, ed è davvero difficile che qualcuno sia convinto di aver trovato la persona giusta, con cui trascorrere tutta la vita, in pochi giorni.

Una volta avviato il rapporto, il love bomber isola la vittima da tutti gli altri, soprattutto da tutti quelli che la mantengono lucida.

Il love bombing è un rapporto esclusivo: se la vittima oppone qualche forma di resistenza, il love bomber comincia a criticare gli affetti della vittima, colpevoli di metterla contro di lui. «Quando sei con loro sei diversa/o»: la reazione, di solito, è assecondare tali esternazioni, isolandosi da familiari e amici.

Gaslighting e ghosting

Nel love bombing viene distorta la realtà. Tale meccanismo viene definito gaslighting: «Per te ho rinunciato a questo, perciò perché tu non puoi fare come voglio?».

Quando si sentono frasi del genere, la vittima potrebbe essere già eccessivamente coinvolta per sottrarsi alla situazione. Si sentirà sicuramente in colpa, dunque, farà ciò che desidera il manipolatore. Nel frattempo si potrebbe essere instaurata una relazione basata sulla dipendenza, dalla quale risulta troppo difficile uscire.

Il love bomber, a questo punto, alternerà dei momenti d’amore a ricatti, colpevolizzazione, rinfacciamenti e abbandoni. Di conseguenza, la vittima vivrà una montagna russa emotiva, che la destabilizzerà sempre più.

Questo rappresenta un abuso psicologico, che, se ripetuto nel corso del tempo, aggrava la fragilità della vittima, che, se riuscirà ad uscire dalla situazione, ne sarà distrutta.

Leggi anche: Avvocato, sai cos’è il gaslighting?

Potrebbe capitare che il love bombing non evolva in alcun tipo di relazione. Dopo una prima fase di attenzioni ed entusiasmo spropositato, il love bomber potrebbe sparire nel nulla. Siamo nel mondo del ghosting, dove la persona sparisce dalla circolazione, smette di rispondere al telefono e non fornisce alcuna spiegazione.

Anche se non si era ancora avviata una relazione vera e propria, non è detto che tale comportamento non ferisca l’altra persona.

Anche il ghosting ha una finalità manipolatoria. Il carnefice prima tratta benissimo l’altra persona, anche approfittandosene. Poi se la dà a gambe, senza dare spiegazioni e affrontare l’altra persona.

In questi casi, più che narcisismo ci troviamo di fronte a persone immature emotivamente, che non sanno trattare con rispetto l’altra persona.

Come in tutti i rapporti tossici, sarebbe sempre meglio prevenire, ma non è così semplice cogliere i vari campanelli d’allarme del manipolatore. Ecco alcuni consigli:

  • Meglio diffidare da un partner che, sin da subito, manifesta un attaccamento eccessivo. Quando “è troppo bello per essere vero”, probabilmente è proprio così: non ci sarà nulla di vero. Per conoscere una persona ci vuole del tempo. Ogni relazione, di conseguenza, ha bisogno del suo tempo per cementarsi. Non ci può essere amore dopo due ore;
  • Non allontanarsi dalle persone che ci conoscono e che ci vogliono bene. Potrebbe essere difficile e scomodo ascoltare le critiche di familiari e amici. Ma se chi ci conosce nota dei cambiamenti negativi in noi, ascoltiamo le loro opinioni. Il loro interesse è proteggerci, e non manipolarci, come fa il love bomber;
  • Chiedere aiuto, anche se non ci troviamo in una situazione di love bombing ma crediamo di essere finiti in un rapporto tossico.

Ricordiamo, inoltre, che il love bombing potrebbe portare a reati come diffamazione, stalking e truffa romantica.

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Secondo l’articolo 1138 del Codice Civile, le norme del regolamento condominiale non vietano di detenere o possedere animali domestici. E’ indubbio, tuttavia, che la coabitazione con gli umani non sia sempre affar semplice, e per questo motivo la Cassazione è intervenuta più volte su questo argomento.

Con la recente ordinanza 1823/2023 depositata lo scorso 20 gennaio si affronta un caso interessante. La pronuncia conferma la sentenza della Corte d’Appello che aveva precedentemente condannato un soggetto alla detenzione, nella sua proprietà, di non più di 6 cani.

Inoltre, il soggetto avrebbe dovuto risarcire il danno che è stato causato ai vicini di casa per la sussistenza del cattivo odore e dei rumori, vista la presenza di un numero notevole di gatti e cani.

La Suprema Corte precisava innanzitutto che «il ricovero di un numero elevato di esemplari di animali genera un’immissione che non è generata da un uso ordinario per civile abitazione, bensì è un’attività di custodia e cura degli animali di competenza del Tribunale e non del Giudice di pace».

Secondo i giudici non si rileva, dunque, il carattere non commerciale di tale attività, vista l’assenza di scopo di lucro.

Per quanto riguarda il superamento della tollerabilità normale di odori e rumori prodotti, viene precisato che è ammissibile anche la prova testimoniale, e non soltanto il dato tecnico. La stessa, infatti, ha come oggetto fatti caduti al di sotto della percezione diretta del testimone, e non costituisce una valutazione soggettiva.

In questo caso, tuttavia, il giudice aveva la facoltà di far cessare le immissioni moleste attraverso l’ordine di adozione di accorgimenti idonei all’eliminazione della situazione pregiudizievole.

In questi rientra la riduzione del numero di animali detenuti: 4 è il numero indicato nella pronuncia di primo grado e 6 nella sentenza d’appello. Numeri compatibili, a quanto pare, con le dimensioni del giardino e dell’abitazione. Oltre tale numero, si configura una reale attività di custodia di animali.

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Nordio: «Da lunedì certificati penali negli uffici postali»

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, durante un’intervista al programma Quarta Repubblica in onda su Rete4 e condotto da Nicola Porro, ha parlato di certificati penali alle Poste.

«Stiamo lavorando, e l’abbiamo già fatto, affinché, se un cittadino debba chiedere un certificato penale, invece di recarsi direttamente all’ufficio giudiziario, che magari sta a 50 chilometri di distanza, vada all’ufficio postale», ha dichiarato Nordio.

Tuttavia, non stiamo affatto parlando di una novità. I certificati penali all’ufficio postale rientrano nel Progetto Polis, un’iniziativa del 2021 che è stata siglata da Poste Italiane e dall’allora ministero dello Sviluppo economico (denominato oggi ministero delle Imprese e del Made in Italy).

L’iniziativa è sostenuta dai fondi del Pnrr, ed ha l’obiettivo di trasformare gli uffici postali di quei Comuni italiani che hanno meno di 15mila abitanti. In questi Comuni, alle Poste, si potranno richiedere documenti come certificati anagrafici, passaporto, dati fiscali e anche i certificati penali.

Sembra che nessuno abbia chiesto, però, un parere in merito all’iniziativa al Garante della Privacy.

Nordio, durante l’intervista su Rete4 ha dichiarato: «Inizieremo questo progetto che è di una modernizzazione assoluta e che farà risparmiare tempo, denaro e traffico. Il cittadino avrà una giustizia di prossimità che sarà molto efficace dal punto di vista dell’economia».

Il fischio di inizio è previsto per lunedì 30 gennaio. Data in cui è prevista la presentazione del Progetto Polis organizzato da Poste Italiane, e vedrà la presenza di una parte dei 7mila sindaci dei Comuni che saranno interessati dal progetto.

Il progetto, dunque, non sembra appartenere a Nordio. Risale infatti ad una convenzione del 30 settembre 2021, sottoscritta dal Direttore Generale di Poste Italiane, Matteo Del Fante, e dall’ex ministero dello Sviluppo economico.

Il Progetto prevede un investimento di circa 800 milioni del Pnrr tra il 2022 e il 2026. Poste ha deciso di aggiungere altri 300 milioni, arrivando ad 1,1 miliardi di euro. Per il 2023 è previsto uno stanziamento complessivo di 145 milioni.

Poste ha intenzione di creare delle «case dei servizi di cittadinanza digitale»: si chiameranno così, infatti, i nuovi uffici postali multi-funzione. In totale saranno coinvolti 6.910 uffici postali, di piccoli borghi oppure in aree remote.

Il progetto comincerà in Lazio, nei Comuni di Campagnano di Roma, Fara in Sabina e San Felice Circeo, dove si starebbero già realizzando i primissimi prototipi.

Il Sole 24 Ore, lo scorso novembre, ha anticipato che, con il progetto Polis, si potranno richiedere alle Poste documenti come il passaporto, carta d’identità elettronica, certificati anagrafici e di stato civile, visure di planimetrie catastali, l’esenzione dal canone Rai, estratti conti fiscali e debitori, l’emissione del codice fiscale, dichiarazioni di trasporto o smarrimento di armi, certificati giudiziari, duplicati della patente di guida e il rilascio della patente nautica.

L’obiettivo è la riduzione delle distanze tra gli abitanti dei piccoli Comuni o delle aree più remote e gli uffici pubblici che si trovano nei grandi centri e del risparmio di tempo e denaro. Oltre a ciò, è prevista anche la creazione di 250 spazi destinati al coworking e alla formazione.

Poste Italiane, si legge nella convenzione, è titolare anche del trattamento dei dati, ed è a capo della tutela della riservatezza di tutte le informazioni. Nonostante ciò, il Garante della Privacy non è stato coinvolto in alcun modo per gestire i flussi di dati del Progetto Polis.

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Lensa si è rivelata un gran successo globale: più di 4 milioni di persone in tutto il mondo hanno scaricato l’app soltanto nei primi cinque giorni dello scorso dicembre, spendendo più di otto milioni di dollari. Si tratta di un servizio che utilizza un’IA per generare avatar di qualsiasi tipo, partendo dai selfie che l’utente carica nell’app.

Tuttavia, le immagini generate hanno sin da subito sollevato dei dubbi.

Privacy

Prima di utilizzare l’app, sarebbe bene dedicare almeno un minuto all’informativa privacy e alle condizioni d’uso per comprendere in che modo l’app utilizza i dati. «Dobbiamo sempre essere consapevoli quando i nostri dati biometrici vengono utilizzati per un qualsiasi scopo. Si tratta di dati sensibili, dovremmo essere molto cauti», spiega il responsabile della ricerca sull’etica e sull’innovazione presso l’Alan Turing Institute.

Secondo Andrey Usoltev, CEO di Prisma Labs, l’azienda produttrice di Lensa, ha dichiarato a Wired US che l’azienda sta lavorando ad un aggiornamento dell’informativa sulla privacy. «Lensa utilizza una copia del modello di Stable Diffusion, a cui insegna a riconoscere il volto sulle immagini caricate per ogni caso particolare. Ciò significa che esiste un modello separato per ogni singolo utente».

«Le foto degli utenti», continua, «sono eliminate dai nostri server non appena vengono generati gli avatar. I server si trovano negli Stati Uniti».

Lensa ha un problema con le donne

Chiunque abbia provato ad utilizzare Lensa IA si è accorto che qualcosa è andato storto.

Per riuscire a testare il software basta caricare 10 immagini, così come richiesto dall’app. In questo modo l’intelligenza artificiale che sta alla base dell’app genera i Magic Avatar, ovvero dei selfie trasformati in opera d’arte.

Il risultato, per una donna, non è un dipinto ad olio con tratti stilizzati, ma un’eccessiva sessualizzazione delle immagini caricate, con seni grandi, spalle scoperte e sguardi ammiccanti. Femme fatale immersa nella natura, protagonista di un manga erotico, eroina spaziale: si ottengono una sfilza di immagini in cui il volto e il corpo diventano oggetti di un desiderio tipicamente maschilista.

Misoginia e razzismo

La sessualizzazione delle persone che caricano i selfie del volto, oltre ad essere disturbante, risulta anche pericolosa. Brandee Barker, una femminista che ha lavorato nel mondo della tecnologia ha scritto su Twitter: «Sono solo io o queste app di generatori di selfie AI stanno perpetuando la misoginia?».

Un’altra donna che ha visto comparire sue immagini di nudo all’interno dell’app ha dichiarato: «Onestamente mi sono sentita molto violata dopo averle viste».

Lensa non è soltanto un’app misogina, ma è anche razzista. Donne nere sostengono che Lensa abbia anglicizzato i loro tratti e sbiancato la loro pelle. Donne asiatiche, invece, si sono lamentate di come l’IA abbia occidentalizzato il loro volto, oppure di come le abbia riprodotte in stile manga erotico. L’intelligenza artificiale è intervenuta anche sul peso, dato che le donne vengono sempre ritratte magre e snelle.

La cosa peggiore in tutto questo è che anche i minori non sfuggono alla sessualizzazione dell’app. Una ricercatrice dell’UCLA, Olivia Snow, ha caricato delle foto della sua infanzia, ottenendo dei ritratti in stile lolita, con un corpo da adulta scoperto e un viso da bambina con ammiccamenti erotici.

Lensa potrebbe diventare una fabbrica per la generazione di materiale pornografico e pedopornografico. Il tutto all’insaputa del soggetto che ha caricato le foto sull’app.

L’IA sarebbe stata addestrata attraverso contenuti trovati online non filtrati: dunque, le immagini riflettono i pregiudizi delle persone.

I creatori dell’app sostengono che «il prodotto non è destinato all’uso di minori e noi avvertiamo gli utenti sui potenziali rischi del contenuto. Ci asteniamo anche dall’utilizzare tali immagini nel nostro materiale promozionale».

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Seguendo la scia autarchica favorita dal governo locale, l’India sta testando BharOs, un nuovissimo sistema operativo nazionale mobile, che si propone come alternativa ai due giganti che dominano il mercato: iOS e Android.

Sembra che l’obiettivo principale dell’offensiva recentemente lanciata da Nuova Delhi a seguito della decisione dell’antitrust locale di imporre l’utilizzo di store esterni sia Google. Il governo indiano sta infatti cercando di sfuggire al monopolio di Play Store. Al momento, il sistema operativo si trova in una fase di pre lancio.

L’anno scorso l’India aveva deciso di fare una multa a Google a causa della sua posizione dominante con Play Store. Google, infatti, offre applicazioni e contenuti per smartphone Android occupando un’ampia fetta di mercato. Si pensi che in India il 97% dei dispositivi mobili ospita il Play Store Android.

Ora, però, l’India ha obbligato Google ad ospitare anche app store di terze parti, al fine di fornire una scelta più ampia per gli utenti. Anche se non è ancora del tutto sufficiente, dato che il passo finale è un sistema operativo completamente made in India.

Sono appena cominciati i test ufficiali su BharOs. Secondo il ministro indiano per lo sviluppo dell’imprenditorialità e delle competenze Dharmendra Pradhan c’è «ancora molta strada da fare, ma se ciò accade, il monopolio se ne andrà».

Sicuramente il governo punta molto sul progetto, visto che segue perfettamente la filosofia di Narendra Modi, primo ministro indiano, che mira all’autosufficienza e a spingere le startup nazionali e la produzione locale.

Ma come sarà, alla fine, il nuovo sistema operativo indiano?

Open-source, sviluppato presso l’Indian Institute of Technology Madras, per ora non ha rilasciato immagini definitive. Dalle prime informazioni, tuttavia, sappiamo che BharOs si concentrerà molto sulla sicurezza e sulla privacy.

Inoltre, ci sarà piena libertà per quanto riguarda l’installazione di app dai vari market, anche di terze parti, con una lista di software che hanno ricevuto la certificazione per un utilizzo sicuro. Troviamo anche la funzione NDA, No Default Apps, che garantisce agli utenti la libera scelta su quali utilità o client installare.

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