Confisca di Prevenzione: La Cassazione limita i diritti del terzo intestatario

Con una decisione del 27 marzo 2025, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno fornito una lettura restrittiva riguardo ai diritti del terzo intestatario di beni oggetto di confisca di prevenzione. Secondo la sintesi provvisoria della sentenza, il terzo intestatario, qualora i beni siano ritenuti fittiziamente a lui intestati, può solo rivendicare l’effettiva titolarità dei beni confiscati. Non avrà, invece, il diritto di contestare i presupposti per l’applicazione della misura, come la pericolosità del proposto, la sproporzione tra il valore del bene e il reddito dichiarato, né la provenienza del bene stesso.

La questione è nata a seguito di un contrasto giuridico sollevato dalla VI Sezione penale, che si è trovata a decidere un ricorso contro una confisca confermata in appello. In tale caso, i familiari del soggetto ritenuto pericoloso, ritenuti intestatari fittizi di beni immobili e quote societarie, avevano contestato la fittizietà dell’intestazione, sostenendo la loro attività legittima e l’assenza di pericolosità del proposto. La Corte ha quindi rimesso la questione alle Sezioni Unite, chiedendo di chiarire se il terzo intestatario, oltre a rivendicare la titolarità dei beni, avesse il diritto di contestare i presupposti della misura di prevenzione.

Il massimo consesso della Cassazione ha optato per un orientamento che limita fortemente i diritti di difesa del terzo intestatario, adottando una lettura che restringe il campo delle contestazioni. Infatti, secondo la decisione, il terzo può solo dedurre elementi relativi alla proprietà dei beni confiscati, senza poter sollevare questioni sulle condizioni che hanno giustificato l’applicazione della confisca, che possono essere sollevate solo dal proposto.

Si sono presentati, comunque, tre orientamenti giurisprudenziali differenti in merito. Il primo, maggioritario, limita i diritti del terzo intestatario alla rivendicazione della titolarità dei beni, senza possibilità di contestare gli altri presupposti della confisca. Un orientamento minoritario, invece, sosteneva che il terzo potesse anche contestare la fittizietà dell’intestazione e gli altri presupposti della misura di prevenzione. Un terzo orientamento, intermedio, prevedeva un’ulteriore evoluzione, riconoscendo la possibilità per il terzo di contestare esclusivamente i presupposti oggettivi della confisca.

La decisione della Cassazione richiama anche la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 17 giugno 2014, che aveva sottolineato la necessità di garanzie giurisdizionali effettive per i terzi intestatari, nonché la recente Direttiva 2024/1260, che prevede la protezione dei diritti fondamentali dei terzi nell’ambito della confisca in ambito europeo.

In attesa delle motivazioni ufficiali, la sentenza delle Sezioni Unite segna un importante passo verso una lettura restrittiva dei diritti del terzo intestatario, limitando le sue possibilità di difesa e rivendicazione, in un contesto di applicazione della confisca di prevenzione.


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Imputabilità e vizio di mente: la Cassazione chiarisce che la mancanza anche di una sola delle capacità esclude la punibilità

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12283/2025, ha ribadito un principio fondamentale del diritto penale: l’imputabilità di un soggetto è esclusa quando manca la capacità di intendere e volere, anche se solo una delle due capacità è compromessa. In questo caso, la Corte ha annullato la condanna di un imputato accusato di molestie, sottolineando che è necessario un accertamento completo della sua capacità di volere, pur essendo già stata riconosciuta quella di intendere.

L’imputato, infatti, era stato sottoposto a perizia da parte dell’ausiliario del giudice, la quale aveva evidenziato una malattia mentale di tipo paranoide che comprometteva la capacità dell’uomo di resistere agli impulsi. Nonostante ciò, il giudice d’appello aveva confermato la condanna, ritenendo il vizio di mente solo parziale, anche in virtù della sua resistenza a sottoporsi alle cure psichiatriche necessarie.

La Cassazione ha però contestato questa conclusione, rilevando un errore nei ragionamenti dei giudici di merito. Secondo la Corte, il fatto che l’imputato si fosse sottratto alle terapie non poteva giustificare la considerazione di un vizio di mente parziale. Infatti, la perizia aveva chiarito che il disturbo psichiatrico impediva al soggetto di prendere consapevolezza della sua malattia, il che rendeva inutile l’eventuale trattamento terapeutico.

Il vizio di mente, ha affermato la Cassazione, è da considerarsi totale quando una delle due capacità fondamentali (intendere o volere) manca completamente. In tal caso, non è possibile applicare una condanna, poiché il presupposto per l’imputabilità è venuto meno. Questo principio ribadisce che, per escludere l’imputabilità, è sufficiente la mancanza anche di una sola delle due capacità, senza dover considerare fattori esterni come il rifiuto delle cure.


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La prescrizione dei reati commessi nella vigenza della legge Orlando

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8863/2025, ha chiarito l’applicazione della disciplina della sospensione della prescrizione introdotta dalla legge n. 103/2017, per i reati commessi dal 3 agosto 2017 al 31 dicembre 2019. Secondo la giurisprudenza, per tali fatti resta applicabile la sospensione dei termini di prescrizione prevista dall’art. 159, commi secondo, terzo e quarto, del codice penale, anche dopo l’abrogazione della legge da parte della legge n. 134/2021.

Il fatto
La sentenza si origina dal ricorso presentato contro una condanna a due mesi di arresto, con sospensione condizionale, per reati legati alla violazione delle norme sulla caccia. L’imputato era stato sorpreso il 18 ottobre 2018 mentre esercitava pratiche illegali come l’uccellagione mediante reti e l’uso di richiami acustici elettromagnetici, oltre alla detenzione di uccelli selvatici protetti.

La questione giuridica
Il ricorso sollevava la questione della prescrizione dei reati in relazione alle modifiche normative introdotte dalla legge Orlando e dalla successiva riforma Bonafede. In particolare, la difesa contestava che la sospensione dei termini di prescrizione prevista dalla legge n. 103/2017 non dovesse applicarsi ai reati commessi durante l’arco temporale tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019, in seguito alla modifica dell’art. 159 del codice penale. Inoltre, si invocava l’abrogazione delle disposizioni che sospendevano il corso della prescrizione per i procedimenti di appello e cassazione, sostenendo che le nuove norme fossero retroattive e dovessero prevalere.

La sentenza della Cassazione
Nel risolvere il contrasto interpretativo, la Corte ha confermato la validità della disciplina della sospensione introdotta dalla legge Orlando, applicabile anche ai reati commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019. La sospensione, quindi, continua a influire sul decorso della prescrizione, con periodi non superiori a un anno e sei mesi, sia per la motivazione della sentenza di primo grado che per quella di secondo grado, come stabilito dalla legge n. 103/2017.

In relazione al caso specifico, i giudici hanno ritenuto infondati anche i motivi relativi alla penale responsabilità dell’imputato, apprezzando le prove raccolte durante il processo. Hanno sottolineato come i reati contestati fossero già perfezionati con atti diretti alla cattura degli uccelli, senza necessità di un’azione successiva come l’effettiva cattura.

Commento finale
La sentenza della Corte di Cassazione chiarisce in maniera definitiva l’applicazione delle modifiche normative sulla prescrizione, ribadendo l’importanza di considerare le sospensioni previste dalla legge Orlando per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2019. Nonostante le modifiche successive apportate dalla legge Bonafede e dalla Riforma Cartabia, il quadro giuridico stabilito dalla legge n. 103/2017 resta applicabile per i reati commessi durante quel periodo, stabilendo così un precedente importante per la gestione delle prescrizioni nei procedimenti penali.


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Diritti di copia nel procedimento penale: forfettizzati anche senza fascicolo informatico

Il Ministero della Giustizia ha fornito nuovi chiarimenti in merito ai diritti di copia nel procedimento penale, stabilendo che, anche in mancanza del fascicolo informatico e del relativo applicativo gestionale, i diritti devono essere pagati secondo il regime forfettizzato introdotto dalla Legge di Bilancio 2025. La normativa prevede il pagamento di una cifra fissa, a prescindere dal numero di pagine, per la trasmissione telematica dei duplicati e delle copie informatiche del procedimento penale.

Il chiarimento arriva con una nota del 5 marzo 2025, in risposta a un quesito posto dalla Corte di Appello di Ancona. La Corte aveva chiesto se, nel caso di indisponibilità del fascicolo informatico, i diritti di copia dovessero essere calcolati secondo il tradizionale sistema basato sul numero di pagine, come previsto dagli articoli 267 e 268 del Testo Unico delle Spese di Giustizia (TUSG).

In base alla nuova normativa, che ha introdotto l’articolo 269 bis nel D.P.R. n. 115/2002, il pagamento dei diritti di copia per la trasmissione telematica di documenti può essere effettuato in due modalità: 25 euro per il riversamento su supporti fisici come USB, DVD o CD, e 8 euro per la trasmissione tramite posta elettronica o portali web. Tuttavia, l’indisponibilità del fascicolo informatico ha sollevato dubbi sull’applicazione di queste tariffe.

Il Ministero ha confermato che, nonostante la mancata attuazione completa del processo penale telematico, il diritto forfettizzato deve essere applicato per le richieste di trasmissione telematica della documentazione. Questo principio vale a prescindere dalla disponibilità del fascicolo informatico, alimentato tramite registri e documenti preesistenti.

Nonostante ciò, la nota precisa che resta pienamente consentito, fino alla piena operatività del fascicolo informatico, il rilascio di copia cartacea, per il quale continua a essere applicato il sistema tradizionale di calcolo dei diritti in base al numero di pagine.


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L’IA, ChatGPT e l’invasione dei meme in stile Studio Ghibli: la polemica sul diritto d’autore

Il rilascio dell’ultimo generatore di immagini di ChatGPT ha preso d’assalto il web, dando vita a una serie di meme in stile Studio Ghibli, il celebre studio giapponese noto per i suoi capolavori d’animazione come Il mio vicino Totoro e La principessa Mononoke. In poche ore, i social network sono stati invasi da repliche di scene famose, tutte riproposte con l’inconfondibile estetica Ghibli. Gli utenti hanno chiamato questo fenomeno “Ghiblification”, un termine che ormai spopola su internet, mentre il dibattito si fa sempre più acceso.

Il trend ha conquistato ogni angolo della rete: dalle rielaborazioni di eventi storici, come l’omicidio Kennedy o gli attentati dell’11 settembre, a momenti sportivi iconici, passando per rappresentazioni di figure politiche come Trump e Zelensky. Non solo i creatori indipendenti, ma anche canali ufficiali – come ambasciate e squadre di calcio – si sono uniti al fenomeno, compreso il CEO di OpenAI, Sam Altman, che ha adattato la sua immagine del profilo su X (ex Twitter) allo stile dell’animazione giapponese.

Tuttavia, il fenomeno ha sollevato una serie di problematiche legate al diritto d’autore e all’etica. OpenAI, la società madre di ChatGPT, si è già trovata al centro di controversie legali per l’uso non autorizzato di materiale protetto da copyright, inclusi casi rilevanti con il New York Times e varie denunce da parte di artisti e editori. Alla domanda su come l’uso dello stile Ghibli possa influenzare la proprietà intellettuale dello studio, OpenAI ha risposto che l’azienda sta perfezionando continuamente il modello per consentire la massima libertà creativa, pur evitando l’uso diretto degli stili di artisti viventi.

“Continuiamo a prevenire le generazioni nello stile dei singoli artisti viventi, ma permettiamo gli stili più ampi, che sono stati utilizzati per generare alcune creazioni originali davvero deliziose e ispirate”, ha dichiarato un portavoce dell’azienda. Tuttavia, la rete non sembra cedere facilmente alla diffusione di questo tipo di contenuti. “E’ un insulto all’arte”, ha commentato uno degli utenti, sottolineando la distanza tra l’emozione autentica di un’opera come quella dello Studio Ghibli e la produzione automatica di immagini.

Anche il leggendario regista dello Studio Ghibli, Hayao Miyazaki, ha espresso forti critiche nei confronti dell’intelligenza artificiale. In un video del 2016, Miyazaki ha dichiarato: “Non vorrei mai incorporare questa tecnologia nel mio lavoro. Sento fortemente che questo è un insulto alla vita stessa”. La sua visione, lontana dall’intento di semplificare la creazione artistica, riflette il valore intrinseco della manualità e della passione che caratterizzano le sue opere.

Le polemiche hanno spinto OpenAI a rivedere alcune delle sue politiche. Secondo le ultime linee guida, infatti, non sarà più possibile trasformare immagini esistenti in ritratti in stile Ghibli. Quando gli utenti tentano di farlo, appare un messaggio che limita la possibilità di creare somiglianze di persone reali. Nonostante ciò, rimane ancora possibile generare immagini completamente nuove in stile Ghibli, continuando a suscitare l’entusiasmo di chi apprezza la libertà creativa, ma anche il malcontento di chi considera la perdita di unicità e significato un danno per l’arte.

In un momento di transizione, OpenAI sta lavorando a stretto contatto con il Congresso degli Stati Uniti per spingere affinché l’uso di contenuti protetti da copyright nell’IA rientri nella dottrina del “fair use”, che potrebbe consentire un uso più libero di materiale protetto per scopi di satira e meme. Intanto, la discussione sulla fusione tra arte tradizionale e intelligenza artificiale resta aperta, con gli utenti e i creatori di contenuti divisi tra l’esaltazione della nuova tecnologia e la difesa della tradizione artistica.

In questo scenario, si pone una domanda cruciale: qual è il futuro delle opere d’arte in un mondo sempre più dominato dalla generazione automatica di immagini? Solo il tempo potrà dare una risposta.


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Google acquisisce Wiz per 32 miliardi: un affare tra innovazione e geopolitica

Alphabet, la società madre di Google, ha ufficializzato l’acquisizione di Wiz, startup israeliana specializzata in sicurezza cloud, per 32 miliardi di dollari. Si tratta della più grande operazione nella storia dell’azienda americana, finalizzata a rafforzare Google Cloud nella competizione con Amazon e Microsoft.

Ma l’accordo non è solo una questione economica: Wiz è nata nel 2020 da un gruppo di ex membri dell’Unità 8200, il reparto d’élite dell’intelligence israeliana noto per il suo ruolo chiave nella cybersecurity e nelle operazioni di sorveglianza digitale. Questo legame ha alimentato il dibattito sull’influenza delle tecnologie militari nel mercato civile e sulle implicazioni etiche della sorveglianza globale.

La startup che ha conquistato le big tech

In soli quattro anni, Wiz si è imposta come un leader della sicurezza cloud, offrendo strumenti avanzati per l’identificazione e la prevenzione delle minacce informatiche. Il suo sistema permette di mappare l’intero ambiente cloud di un’azienda, rilevare vulnerabilità in tempo reale e intervenire prima che i dati siano compromessi.

La sua crescita esponenziale ha attirato l’attenzione di big tech e investitori: nel 2023, Google aveva già tentato un’acquisizione per 23 miliardi di dollari, ma il rischio di violazioni antitrust aveva bloccato l’operazione. Ora, con un’offerta ancora più alta e un contesto di mercato mutato, l’affare è stato chiuso, in attesa dell’approvazione delle autorità di regolamentazione.

Il lato oscuro dell’Unità 8200

Dietro il successo tecnologico di Wiz si cela un aspetto meno noto ma cruciale: il suo legame con l’Unità 8200. Spesso paragonata alla NSA americana, questa divisione delle Forze di Difesa Israeliane è specializzata in cyber-intelligence e sorveglianza. Dall’Unità 8200 sono nati numerosi colossi della cybersecurity, tra cui Check Point, Palo Alto Networks e NSO Group (produttrice dello spyware Pegasus).

L’uso delle tecnologie sviluppate dall’Unità 8200 è stato spesso oggetto di controversie internazionali, soprattutto per la loro applicazione nella sorveglianza dei territori palestinesi. Sistemi come Blue Wolf e Red Wolf identificano i cittadini ai checkpoint tramite riconoscimento facciale, mentre spyware come Pegasus è stato utilizzato per monitorare giornalisti e attivisti.

Queste tecnologie, testate nei territori occupati, vengono poi esportate a livello globale con il marchio “combat-proven”. È il caso del Progetto Nimbus, l’accordo da 1,2 miliardi di dollari tra Israele, Google e Amazon per la gestione dei dati e l’analisi della popolazione palestinese.

Un accordo tra affari e geopolitica

L’acquisizione di Wiz da parte di Google non è solo un’operazione commerciale, ma solleva interrogativi più ampi sul rapporto tra big tech e sicurezza globale. Se da un lato il colosso di Mountain View rafforza la sua presenza nel cloud, dall’altro emerge il rischio di una crescente commistione tra tecnologie private e strategie di sorveglianza statale.

Le organizzazioni per i diritti umani denunciano da tempo l’utilizzo della cybersecurity per il controllo e la repressione. E mentre Google si appresta a integrare Wiz nei suoi sistemi, il dibattito su privacy, libertà e sicurezza nel mondo digitale si fa sempre più acceso.


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OCF: “Criticità urgenti sul processo penale telematico”

Roma, 31 marzo 2025 – Da domani, 1° aprile, le iscrizioni al Registro delle Notizie di Reato e i depositi relativi ai giudizi abbreviati, direttissimi e immediati dovranno avvenire esclusivamente in via telematica, come previsto dal DM Giustizia n. 206/2024. Tuttavia, l’OCF esprime forte preoccupazione per le numerose criticità ancora presenti, che rischiano di compromettere il diritto di difesa e il corretto funzionamento della giustizia.

A gennaio, 87 Presidenti di Tribunale hanno sospeso l’efficacia del DM nei rispettivi circondari a fronte di segnalazioni di malfunzionamento dai rispettivi RID (Referente Distrettuale per l’Innovazione) e MAGRIF (Magistrato di Riferimento per l’Innovazione). Alcuni decreti di sospensione sono stati prorogati nei giorni scorsi e altri potrebbero seguire. Restano molte inefficienze, tra cui ritardi nelle iscrizioni al Registro Notizie di Reato, mancata annotazione delle nomine che impedisce il deposito di atti successivi, richiesta sistematica del certificato ex art. 335 CPP, mancata attivazione di funzionalità essenziali e rifiuto di accettazione dei depositi.

Inoltre, l’assenza di un atto generico impedisce il deposito di richieste non previste espressamente, mentre le diverse interpretazioni della normativa da parte dei magistrati generano incertezza applicativa. Alcuni uffici giudiziari escludono la costituzione di Parte Civile o la produzione documentale se non previamente depositata sul Portale depositi atti penali, altri richiedono il doppio deposito cartaceo e telematico nella stessa giornata, ignorando le difficoltà di accesso al fascicolo telematico da parte delle parti processuali.

L’OCF ribadisce il proprio impegno per la digitalizzazione della giustizia, ma senza compromessi sulle garanzie difensive e le regole del giusto processo. Chiediamo interventi urgenti per risolvere le criticità evidenziate, garantendo uniformità e funzionalità al sistema telematico. Continueremo a monitorare la situazione per evitare disservizi e pregiudizi ai diritti delle parti processuali.

Così in una nota l’Organismo Congressuale Forense.


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La truffa su WhatsApp: la ballerina e il falso sondaggio, l’ultimo inganno digitale

Dopo il caso del “falso curriculum”, che ha messo in guardia milioni di utenti, una nuova truffa sta imperversando sui telefonini, e questa volta passa attraverso WhatsApp. Il meccanismo è subdolo e sfrutta un inganno che si basa sulla fiducia tra amici. Un messaggio apparentemente innocuo, che arriva da un contatto conosciuto, promette una borsa di studio a una giovane ballerina, se solo si partecipa a un semplice sondaggio.

Il testo del messaggio è chiaro e conciso: “Ciao! Per favore votate per Federica in questo sondaggio, è la figlia di una mia amica.” Segue un link che sembra innocuo, senza alcuna richiesta economica, ma con la garanzia di un amico fidato. “Il premio principale è una borsa di studio per l’istruzione gratuita per tutto il prossimo anno, questo è molto importante per lei. Grazie mille! (e di seguito il link per votare).”

Il passo successivo, però, è quello fatale. Chi clicca sul link viene indirizzato a una pagina che chiede di effettuare il login e, successivamente, di copiare un codice inviato via SMS. A questo punto, i dati dell’utente sono già nelle mani dei truffatori. Il link, infatti, viene inviato automaticamente a tutti i contatti della rubrica WhatsApp della vittima, creando una catena che può diffondersi velocemente.

Il colpo finale avviene quando WhatsApp della vittima si blocca, impedendo di salvare i messaggi ricevuti. L’intero processo si traduce nell’acquisizione dell’account WhatsApp da parte dei cyber-criminali, che possono utilizzarlo per perpetrare ulteriori frodi e accedere ai contatti della rubrica.

La Polizia Postale ha confermato che si tratta di un metodo utilizzato dai truffatori per sottrarre account WhatsApp, sfruttando il servizio di messaggistica per ingannare altri utenti e compromettere la loro sicurezza. La raccomandazione principale in questi casi è quella di verificare sempre l’affidabilità del mittente. Se si riceve un messaggio sospetto, è importante contattare telefonicamente il presunto mittente per verificare che il suo account non sia stato violato.

Le raccomandazioni della Polizia Postale

  • Non cliccare su link sospetti: È fondamentale non aprire link provenienti da fonti non verificate o sconosciute.
  • Verificare sempre con il mittente: Se si riceve un messaggio inaspettato o sospetto, contattare telefonicamente la persona che sembra aver inviato il messaggio per confermare che non sia stata vittima di un attacco.
  • Segnalare i messaggi sospetti: È possibile segnalare i messaggi anomali a WhatsApp, oltre a bloccare il mittente.
  • Evitare di fornire dati sensibili: Non condividere mai informazioni personali o dati sensibili attraverso canali non sicuri.

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Eredità digitale: il decalogo del Notariato per tutelare il proprio lascito online

Con l’avvento della digitalizzazione, la nostra vita quotidiana è sempre più connessa al mondo online. Oltre ai tradizionali beni materiali, come proprietà e conti bancari, oggi possediamo una vasta gamma di “beni immateriali” che hanno valore, affettivo ed economico. I nostri account online, profili social, documenti digitali e perfino le criptovalute sono ormai parte integrante del nostro patrimonio, ma quando non ci saremo più, cosa accadrà a tutto ciò?

In assenza di una legislazione specifica sull’eredità digitale, il Consiglio Nazionale del Notariato ha stilato un decalogo di informazioni utili per tutelare il proprio “lascito digitale”, evitando problematiche e controversie che potrebbero sorgere tra i familiari e gli eredi.

Cos’è l’eredità digitale?

L’eredità digitale comprende tutti quei beni, materiali e immateriali, che ci appartengono nel mondo virtuale, e si suddivide in due categorie principali:

  1. Risorse offline: file personali, software, documenti informatici creati o acquistati.
  2. Risorse online: account di posta elettronica, profili social, piattaforme di e-commerce, account finanziari e criptovalute.

Sebbene questi beni possano avere un valore affettivo, economico o entrambi, la loro gestione post mortem è spesso complessa, soprattutto in mancanza di una legislazione chiara. La situazione si complica ulteriormente quando gli account sono legati a piattaforme estere, che possono rendere difficile determinare la giurisdizione legale e le modalità di risoluzione delle controversie.

I rischi della mancanza di norme

L’assenza di disposizioni precise può comportare difficoltà significative per i familiari del defunto nell’accedere a informazioni o conti importanti. Inoltre, molti servizi online sono soggetti a contratti legali che, a causa della mancanza di specifiche normative europee o italiane, potrebbero portare a controversie internazionali. Gli eredi potrebbero trovarsi di fronte a un vero e proprio “muro digitale”, con difficoltà ad accedere a risorse vitali senza le dovute disposizioni.

Cosa non entra nell’eredità digitale

Non tutti i beni digitali fanno parte dell’eredità. Sono esclusi:

  • beni ottenuti illegalmente o tramite pirateria;
  • account a pagamento con licenza (es. servizi di streaming, software);
  • identità digitale e firme elettroniche;
  • password, che sono considerate solo chiavi di accesso e non beni veri e propri.

Pertanto, semplicemente consegnare le proprie credenziali a una persona di fiducia non è sufficiente a conferirle il diritto di gestione. È necessario redigere disposizioni precise, eventualmente attraverso strumenti giuridici come il mandato post mortem o il testamento.

Le soluzioni per gestire l’eredità digitale

  1. Mandato post mortem: Consente di affidare a una persona di fiducia la gestione dei propri dati digitali, inclusi la loro distruzione o il loro trasferimento a qualcuno in particolare.
  2. Testamento: Rimane il metodo più sicuro per garantire il passaggio di beni digitali di valore economico, come criptovalute o documenti rilevanti.
  3. Impostazioni di contatto erede: Alcune piattaforme consentono di designare un “contatto erede” che possa gestire o eliminare i dati in caso di decesso.

Decalogo per la gestione dell’eredità digitale

Il Consiglio Nazionale del Notariato ha stilato un decalogo con le principali linee guida per la gestione dell’eredità digitale, tra cui:

  • Pianificare in anticipo la successione dei beni digitali, tenendo traccia delle credenziali di accesso e aggiornandole periodicamente.
  • Trattare i conti correnti online come estensioni virtuali dei conti bancari tradizionali, considerando le implicazioni post mortem.
  • Informarsi sulle opzioni offerte dalle piattaforme online per la gestione dei dati in caso di decesso.

La responsabilità del testatore

Solo noi, in qualità di proprietari dei nostri dati digitali, possiamo garantire che le informazioni e i beni a cui abbiamo accesso vengano trasferiti o protetti adeguatamente. Senza le nostre disposizioni, infatti, gli eredi potrebbero trovarsi in difficoltà a causa dell’impossibilità di accedere ai nostri archivi digitali.

La pianificazione dell’eredità digitale non è solo un modo per tutelare i nostri cari, ma anche un atto di responsabilità per non lasciare incompleti i nostri lasciti digitali, che ormai fanno parte integrante della nostra vita. Con un piccolo investimento di tempo nella pianificazione, possiamo evitare complicazioni e assicurarci che il nostro patrimonio online sia trattato con la stessa cura che riserviamo ai beni fisici.


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Banche: risarcimento per gli investimenti sbagliati consigliati anche oltre i dieci anni

La Corte di Cassazione ha introdotto una novità importante in materia di risarcimento per danni derivanti da investimenti finanziari sbagliati consigliati dalle banche. La regola dei dieci anni di tempo massimo per chiedere il risarcimento potrebbe non valere più, con un cambiamento significativo che cambia la data di partenza per il termine di prescrizione.

Secondo la sentenza n. 32226/2024, infatti, il termine decennale per l’azione di risarcimento non decorre più dal momento dell’acquisto dei titoli, ma dal momento in cui l’investitore acquisisce consapevolezza della perdita effettiva subita. Una decisione che potrebbe avere effetti notevoli sui contenziosi in corso, e che si inserisce in un contesto giuridico in cui gli investitori sono spesso in difficoltà nel far valere i propri diritti su contratti finanziari risalenti anche a oltre dieci anni fa.

Il caso delle obbligazioni Lehman Brothers

La sentenza della Corte di Cassazione prende spunto da un caso relativo agli investimenti in obbligazioni Lehman Brothers, effettuati nel 2003 attraverso la Banca Popolare dell’Alto Adige. Gli investitori, con un basso livello di istruzione e scarsa esperienza nel campo finanziario, avevano seguito i consigli bancari, concentrando l’intero loro portafoglio su un unico titolo, amplificando notevolmente il rischio. La banca, pur facendo sottoscrivere agli investitori una clausola che dichiarava la non coerenza dell’operazione con la linea d’investimento concordata, non fornì informazioni adeguate sui rischi legati alla concentrazione del capitale e alla natura delle obbligazioni.

Nel 2008, con il default di Lehman Brothers, il capitale investito subì una perdita quasi totale. Nonostante la scadenza dei titoli nel 2013, gli investitori non ricevettero alcuna restituzione, aggravando la loro situazione finanziaria. Fu solo nel 2014 che gli eredi degli investitori citano in giudizio la banca per chiedere il risarcimento dei danni, invocando la violazione degli obblighi informativi previsti dalla Consob e contestando la scarsa trasparenza nei consigli di investimento.

La decisione della Corte

La Corte ha considerato che la documentazione fornita dalla banca non fosse sufficiente a informare adeguatamente gli investitori sui rischi specifici legati a un investimento così concentrato. La clausola firmata dagli investitori non specificava in modo chiaro se fossero state fornite informazioni esaurienti sui rischi, lasciando gli investitori senza un quadro chiaro delle implicazioni. Inoltre, la Corte ha stabilito che il termine di prescrizione non potesse partire dalla data di sottoscrizione dei titoli, ma dovesse decorrere dal momento in cui gli investitori presero consapevolezza del danno subito.

La decisione della Cassazione è destinata a far riflettere non solo gli investitori, ma anche le banche e gli intermediari finanziari. In futuro, infatti, le istituzioni bancarie dovranno fare molta attenzione alla documentazione e alle informazioni fornite agli investitori, anche molti anni dopo la sottoscrizione dei contratti.

Implicazioni per il settore bancario

Una delle conseguenze più rilevanti della sentenza è che la decisione potrebbe obbligare le banche a conservare la documentazione relativa agli investimenti per un periodo di tempo ben superiore ai dieci anni. In pratica, gli istituti bancari potrebbero essere chiamati a rispondere in giudizio su contratti risalenti a decenni, ma senza più a disposizione tutta la documentazione necessaria per difendersi.

Questa novità potrebbe avere un impatto importante anche sui contenziosi in corso, dove gli investitori hanno già avviato cause contro gli intermediari, ma in molti casi, le banche potrebbero non essere in grado di difendersi in maniera adeguata, in quanto la documentazione potrebbe essere andata perduta o non essere più disponibile.


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