Pechino mette nel mirino Nvidia: indagine antitrust sull’acquisizione Mellanox

Pechino. La tensione tecnologica tra Stati Uniti e Cina si arricchisce di un nuovo capitolo: la State Administration for Market Regulation (SAMR) ha accusato Nvidia di aver violato la normativa antitrust nell’acquisizione della israeliana Mellanox Technologies, operazione conclusa nel 2020.

Secondo l’autorità cinese, il gruppo guidato da Jensen Huang non avrebbe rispettato pienamente le condizioni stabilite al momento dell’approvazione del deal. Non sono stati resi noti i dettagli dell’inadempimento, né le eventuali sanzioni. Tuttavia, la sola apertura del procedimento rappresenta un segnale forte che alza ulteriormente il livello dello scontro economico e regolatorio tra le due superpotenze.

Impatto finanziario contenuto, ma rischio elevato

Nonostante la rilevanza della notizia, le reazioni dei mercati sono state relativamente moderate: il titolo Nvidia ha segnato un lieve ribasso a Wall Street. Gli analisti sottolineano che le multe antitrust in Cina possono variare dall’1% al 10% del fatturato annuo, e nel caso di Nvidia la posta in gioco potrebbe essere miliardaria. Il mercato cinese pesa infatti tra il 10 e il 17% dei ricavi complessivi della società.

Una mossa politica oltre che economica

Molti osservatori ritengono che la scelta di Pechino abbia una valenza politica. L’intervento contro Nvidia si colloca in un contesto di crescente pressione da parte di Washington, che negli ultimi anni ha imposto restrizioni sempre più severe sull’export di semiconduttori avanzati verso la Cina. Con questa decisione, Pechino sembra voler mostrare di essere pronta a rispondere con strumenti analoghi.

Secondo fonti citate dal Financial Times, la mossa della SAMR rientrerebbe in una più ampia strategia volta a ridurre la dipendenza tecnologica dalle aziende statunitensi e a favorire lo sviluppo di player locali come Huawei e Cambricon, già impegnati nella produzione di chip per l’intelligenza artificiale.

Il precedente che ribalta i ruoli

Per anni gli Stati Uniti hanno utilizzato il diritto antitrust come leva contro le società cinesi – emblematico il caso Huawei. Ora il copione sembra rovesciarsi: è la Cina a contestare i comportamenti di un gigante Usa, in un settore – quello dei chip AI – che rappresenta uno dei fronti più caldi della “guerra tecnologica”.

Le prossime mosse

Resta da capire se le accuse sfoceranno in sanzioni concrete. Un’eventuale multa, anche se onerosa, potrebbe non essere il vero problema per Nvidia: la posta più alta riguarda la possibilità di operare senza ostacoli in Cina, un mercato fondamentale per il futuro dell’AI.

Per mantenere un accesso parziale, l’azienda ha già sviluppato chip “adattati” alle regole locali, come l’H20, progettato con prestazioni ridotte per rispettare i limiti imposti dalle autorità. Una strategia che finora ha funzionato, ma che rischia di non bastare più in un contesto sempre più politicizzato.

Con i negoziati tra Pechino e Washington riaperti a Madrid, la tempistica dell’annuncio sembra tutt’altro che casuale: il caso Nvidia potrebbe trasformarsi in una pedina importante sul tavolo delle trattative.


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Washington e Pechino trovano un’intesa su TikTok

New York. Una svolta che sembrava impensabile fino a poche settimane fa: Stati Uniti e Cina hanno raggiunto un accordo preliminare sulla sorte di TikTok, il social di condivisione video con 170 milioni di utenti americani. L’intesa prevede la cessione della proprietà dal gruppo cinese ByteDance a una società americana, condizione indispensabile per evitare il bando imposto dal Congresso con motivazioni di sicurezza nazionale.

Ad annunciare la novità è stato il segretario al Tesoro Scott Bessent, a margine di un round negoziale a Madrid con il vicepremier cinese He Lifeng. «I termini commerciali sono stati definiti – ha dichiarato – l’operazione metterà TikTok sotto una proprietà statunitense». Il presidente Donald Trump completerà il dossier venerdì in un atteso colloquio con Xi Jinping, definito dallo stesso leader americano «un incontro che sarà molto positivo».

Una trattativa al fotofinish

L’accordo è arrivato a poche ore dalla scadenza dell’ultima proroga concessa da Washington: senza un’intesa, TikTok sarebbe stato bloccato dagli store digitali già da domani. La legge bipartisan firmata nel 2024 dall’allora presidente Joe Biden prevedeva infatti l’uscita della piattaforma dal mercato Usa se non fosse stata acquisita da un soggetto americano.

Trump, che ha più volte rinviato l’applicazione della misura, ha commentato su Truth Social: «Abbiamo trovato una soluzione per un’azienda molto amata dai giovani. Saranno felici».

I nodi ancora aperti

Rimane da chiarire il destino dell’algoritmo, cuore tecnologico di TikTok e fino a oggi considerato da Pechino una tecnologia strategica soggetta a restrizioni all’export. Alcuni osservatori leggono il compromesso come una concessione di Xi per spianare la strada a una sua visita di Stato negli Usa, mentre in parallelo l’antitrust cinese ha lanciato segnali distensivi nei confronti di gruppi americani come Nvidia.

Sul fronte degli acquirenti restano invece top secret i dettagli: indiscrezioni citano nomi di primo piano come Oracle, Elon Musk e cordate miste tra Big Tech e fondi di investimento.

Una partita politica e commerciale

La vicenda TikTok è diventata uno dei dossier più delicati nei rapporti tra le due superpotenze. Da un lato Washington rivendica la necessità di tutelare i dati sensibili dei cittadini americani, dall’altro Pechino denuncia restrizioni arbitrarie e chiede maggiore stabilità nelle relazioni economiche.

Al di là della tecnologia, l’accordo rappresenta il segnale di una più ampia ripresa del dialogo commerciale tra Stati Uniti e Cina, rilanciato proprio nei colloqui madrileni. «Un confronto rispettoso e di ampio respiro», lo ha definito Bessent. Resta ora da vedere se la diplomazia riuscirà a trasformare questo fragile compromesso in un’intesa duratura.


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Telecamere “intelligenti” o occhi indiscreti? Servicematica rilancia l’allarme sulla sorveglianza digitale

Già dieci anni fa Servicematica denunciava per prima i pericoli insiti nella diffusione massiva delle telecamere di videosorveglianza. Oggi, purtroppo, i fatti di cronaca parlano da soli. La promessa di maggiore sicurezza rischia di trasformarsi in un boomerang per la privacy e la tutela dei cittadini, con sistemi che – anziché garantire protezione – espongono utenti e imprese a un controllo occulto senza precedenti.

Test inquietanti: dati in Asia anche a telecamere spente

Le verifiche condotte da Servicematica e da altri osservatori indipendenti su un ampio campione di dispositivi hanno evidenziato due criticità principali:

  • facilità di hackeraggio, con possibilità per terzi non autorizzati di accedere alle immagini in diretta;

  • trasmissione continua di dati verso server collocati in Asia, anche quando le telecamere risultano apparentemente spente.

Un fenomeno che non si limita a compromettere la sicurezza informatica, ma che alimenta una vera e propria rete globale di controllo: i produttori asiatici, che dominano il mercato grazie a prezzi estremamente competitivi, finiscono così per estendere la loro influenza ben oltre i confini nazionali.

L’illusione del “buon affare”

Il consumatore medio, attratto da offerte vantaggiose, pensa di risparmiare acquistando questi dispositivi. In realtà, installa inconsapevolmente in casa o in ufficio un “cavallo di Troia digitale”, che rende i propri dati accessibili a infrastrutture estere con finalità poco trasparenti.

«La sete di controllo massivo trova forza proprio nell’ingenuità degli acquirenti» – commentano i tecnici di Servicematica. – «Chi crede di aumentare la propria sicurezza con queste telecamere spesso ottiene l’effetto opposto: esporsi a intrusioni e sorveglianza invisibile».

Non solo telecamere: Alexa e social nella stessa partita

Il problema non riguarda solo la videosorveglianza. Assistenti vocali, social network e dispositivi domestici “intelligenti” raccolgono quotidianamente parametri fisici, abitudini di consumo e dati personali. Il risultato è una mappa dettagliata delle nostre vite che viene gestita da soggetti privati e, spesso, archiviata su server extraeuropei, fuori da ogni reale controllo democratico.

L’assenza del Garante

In questo scenario, appare evidente il ruolo evanescente delle istituzioni di vigilanza. Il Garante per la protezione dei dati personali, a fronte di fenomeni così invasivi, sembra inadeguato e impreparato. La stessa inefficacia si osserva nel settore dei call center, dove da anni i cittadini subiscono telefonate indesiderate nonostante l’esistenza del Registro delle Opposizioni.

Un sistema che, nei fatti, si è rivelato poco più che simbolico: davvero qualcuno pensa che i call center “selvaggi” vadano a controllare se l’utente è iscritto al registro prima di chiamare? L’esperienza quotidiana dei cittadini dice l’esatto contrario.

Il risultato è paradossale: strumenti pensati per tutelare finiscono per essere percepiti come una beffa, alimentando sfiducia e rassegnazione.

Servicematica, un impegno di lungo periodo

Servicematica non si limita a denunciare: da oltre dieci anni studia soluzioni tecnologiche affidabili, sviluppa sistemi sicuri e sensibilizza utenti e imprese sui rischi della sorveglianza digitale. L’obiettivo è duplice: garantire la protezione reale delle persone e spingere il legislatore a dotarsi di strumenti concreti per contrastare un fenomeno che non è più futuro, ma presente.

«La sfida – ribadisce l’azienda – non è solo tecnologica, ma culturale: bisogna capire che la sicurezza non si compra al ribasso, e che la libertà oggi passa soprattutto  dalla difesa dei dati personali, dalla difesa della sfera personale violentata ogni giorno dal cyber mondo».


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Trappola delle recensioni false: hotel e ristoranti sotto la lente dell’Europa

Un sogno di vacanza trasformato in incubo: cinque stelle su TripAdvisor, commenti entusiastici, foto da cartolina. Ma dietro quei giudizi brillanti, pagati a pacchetto come fossero caramelle, si nascondeva una realtà ben diversa: aria condizionata rotta, colazione al distributore automatico e personale tutt’altro che accogliente. È l’altra faccia del turismo digitale, quella delle recensioni false, un fenomeno che solo nel 2022 ha costretto TripAdvisor a cancellare 1,3 milioni di commenti fraudolenti, pari al 4,3% del totale.

Un business globale che pesa sulle scelte

Il mercato delle recensioni truccate prospera soprattutto in Italia, India, Russia, Stati Uniti, Turchia e Vietnam. E le conseguenze sono enormi: l’82% delle prenotazioni alberghiere e il 70% delle scelte nei ristoranti dipendono da quelle “stelline”. In pratica, otto consumatori su dieci scelgono dove dormire o cenare basandosi su giudizi che potrebbero essere completamente inventati. Un meccanismo che altera non solo le classifiche online, ma anche i prezzi e le mode.

La stretta normativa

L’Unione Europea ha deciso di intervenire con un codice di condotta vincolante. L’Italia, entro fine anno, approverà un decreto che estenderà il giro di vite non solo agli hotel, ma anche ai ristoranti. Stop dunque ai commenti lasciati da chi non ha mai usufruito del servizio: d’ora in avanti, solo chi ha soggiornato o consumato potrà recensire, e le opinioni dovranno essere pubblicate entro 15 giorni dall’esperienza. Dopo due anni, quelle “vecchie” potranno essere rimosse.

«Garantire recensioni autentiche è fondamentale per rafforzare la fiducia dei consumatori e promuovere un turismo di qualità», ha dichiarato il ministro del Turismo Daniela Santanchè.

Il precedente Amazon

Il problema riguarda anche l’e-commerce. Nel marzo scorso, Amazon ha vinto la prima causa civile in Italia contro le recensioni fake, ottenendo la chiusura del sito Realreviews.it che offriva rimborsi ai clienti in cambio di valutazioni positive. Il tribunale di Milano ha riconosciuto la pratica come concorrenza sleale, fissando un precedente importante a tutela di aziende e consumatori.

Quando la recensione diventa diffamazione

Non mancano i casi giudiziari legati all’uso improprio dei commenti. A Recanati, una donna di 53 anni è stata condannata a 7mila euro tra multa e risarcimento per aver definito su Facebook e TripAdvisor un ristorante «una bettola». Il tribunale ha stabilito la differenza tra una critica negativa legittima e una recensione diffamatoria, quindi sanzionabile.

Come difendersi dalle recensioni fasulle

Esistono strumenti online, come ReviewMeta, che aiutano ad analizzare l’autenticità dei commenti. Ma anche l’occhio del consumatore può fare la differenza: diffidare di frasi troppo generiche («Prodotto eccellente!»), di recensioni eccessivamente entusiaste con emoticon o punti esclamativi multipli, così come di giudizi estremamente negativi. Le opinioni autentiche sono quasi sempre più dettagliate, spontanee e coerenti.


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Giustizia civile e Pnrr, Venezia al centro della sfida: se 66 magistrati non bastano

Con la delibera del 3 settembre, il Consiglio superiore della magistratura ha dato attuazione al decreto legge 117/2025, che introduce misure emergenziali per centrare gli obiettivi del Pnrr in materia di giustizia civile. Il traguardo fissato dall’Europa è ambizioso: ridurre del 40% i tempi medi dei procedimenti entro giugno 2026, portando il disposition time nazionale da 2.512 a 1.507 giorni, considerando i tre gradi di giudizio.

Le applicazioni straordinarie

Il Csm ha individuato sedi e numeri dei magistrati applicabili in via straordinaria nei tribunali e nelle corti d’appello. L’Ufficio statistico di Palazzo dei Marescialli ha lavorato in tempi strettissimi: i dati ministeriali erano arrivati solo il 27 agosto. Ora spetta ai capi degli uffici elaborare piani straordinari di smaltimento, benché resti da chiarire quale parametro utilizzare: l’obiettivo generale del -40% o quelli differenziati fissati da una circolare ministeriale del 2021 (-56% per tribunali e corti d’appello, -25% per la Cassazione).

Venezia, il nodo più critico

Il caso emblematico è quello di Venezia, che registra un boom di sopravvenienze, soprattutto in materia di cittadinanza: 44.983 procedimenti pendenti al 30 giugno 2025. Al tribunale lagunare sono stati assegnati 66 magistrati, ma il calcolo delle potenzialità lascia pochi margini di ottimismo.

Anche considerando che ciascun applicato possa definire fino a 100 procedimenti, l’apporto aggiuntivo non supererebbe le 6.600 cause, cui si sommano le circa 12.226 definizioni attese con l’organico ordinario. Una stima semplice ma significativa: il disposition time del tribunale veneziano, a giugno 2026, si attesterebbe a 854 giorni, ancora lontanissimo dai 334 previsti come obiettivo Pnrr per i tribunali di primo grado.

Le disparità e i dubbi

Le scelte del Csm sollevano più di una perplessità. Alcuni uffici con alti carichi e performance ancora critiche, come Santa Maria Capua Vetere o Messina, non hanno ricevuto rinforzi, mentre altre sedi più contenute – come Urbino o Forlì – sono state incluse. Discrepanze emergono anche nel confronto tra Catania e Napoli: tempi medi simili, ma solo la città partenopea ha ottenuto ben 67 applicazioni straordinarie.

Il ruolo della Cassazione

Resta infine il peso della Corte di Cassazione, che a marzo 2025 presentava un disposition time di 942 giorni, il più alto in assoluto, contro i 492 delle corti d’appello e i 467 dei tribunali. Senza un intervento incisivo sul giudizio di legittimità, anche gli sforzi di redistribuzione straordinaria dei magistrati rischiano di non bastare.


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Notifiche fiscali, la prova arriva dal tracciato informatico delle raccomandate

Milano – Una pagina di tracciamento online non basta, ma il tracciato informatico ufficiale di Poste Italiane sì. Con la sentenza n. 1305/25/2025, depositata il 19 maggio, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia ha chiarito che la notifica di un avviso di liquidazione può dirsi validamente perfezionata per compiuta giacenza quando l’ufficio produce il documento estratto dal sistema informatico postale, che descrive l’attività del portalettere e l’avvenuto deposito dell’avviso nella cassetta del destinatario.

Il caso

Un contribuente aveva impugnato una cartella di pagamento, sostenendo che l’atto presupposto – l’avviso di liquidazione – non fosse mai stato notificato. In primo grado il giudice gli aveva dato ragione, osservando che l’amministrazione si era limitata a produrre la stampa della tracciatura online della raccomandata, priva di valore probatorio perché non attestava l’inserimento dell’avviso di giacenza.

L’ufficio ha fatto appello, spiegando di avere effettuato la notifica con raccomandata ordinaria, con due tentativi di consegna andati a vuoto e con l’inserimento in cassetta degli avvisi di giacenza. A sostegno ha depositato il tracciato informatico dettagliato della spedizione, generato da Poste Italiane.

La decisione

I giudici di secondo grado hanno accolto l’appello. Hanno ricordato che, secondo giurisprudenza costante della Cassazione (tra cui ordinanza n. 37148/2021), la cartella di pagamento deve essere preceduta dall’avviso di liquidazione. La validità di quest’ultimo dipende quindi dall’esito della notifica.

Il collegio ha ritenuto sufficiente e idonea la prova prodotta in appello: il tracciato informatico non solo riporta il percorso della raccomandata, ma attesta in modo puntuale l’attività svolta dal portalettere, compreso il deposito dell’avviso nella cassetta postale. Tale documento è stato ritenuto ammissibile anche in fase di appello, ai sensi dell’articolo 58 del Dlgs 546/1992.


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La finanza vacilla, la terra resiste. Nel 2025 cresce l’appeal dei vigneti e degli uliveti come nuovo bene rifugio per gli High Net Worth Individuals (Hnwi), i grandi investitori internazionali. Un trend che non riguarda solo l’Italia ma si estende a Francia, Spagna, Portogallo e Grecia, dove il mercato immobiliare agricolo di lusso è trainato da un mix di fattori: redditività stabile, incentivi fiscali, domanda globale di vino e olio premium e, soprattutto, uno stile di vita legato alla natura e alle tradizioni.

Toscana e Piemonte sul podio

Secondo l’ultima indagine di Knight Frank, in Italia il Barolo e il Brunello di Montalcino segnano un +5% sul 2024, mentre Bolgheri e Chianti Classico crescono del 3%. A livello europeo spiccano la Loira (+5%) e la Champagne (+2%), mentre Bordeaux (-4%) e Côtes du Rhône (-10%) mostrano segni di rallentamento.

La Toscana si conferma tra le mete più richieste, terza nella top 5 delle destinazioni extra urbane più ambite, seguita dal Piemonte. Accanto alla vocazione produttiva, queste regioni offrono anche un valore esperienziale fatto di agriturismo, ospitalità di lusso e produzioni biologiche, elementi che attraggono soprattutto investitori anglosassoni e nordamericani.

Prezzi da record e nuove strategie

I numeri parlano chiaro: un ettaro di vigna in Toscana o in Provenza può superare i 100mila euro, mentre in aree emergenti come l’Andalusia restano accessibili intorno ai 5mila euro. Le bottiglie dei marchi più prestigiosi oscillano tra i 30 e i 150 euro, mentre l’olio extra vergine premium tocca i 30 euro al litro, spinto dalla crescita della domanda internazionale.

Il fenomeno si lega anche al trend del “try before you buy”, sempre più diffuso: gli acquirenti testano una destinazione con l’affitto di una tenuta prima di investire nell’acquisto definitivo.

Tra incentivi e identità

Gli incentivi europei per l’agricoltura biologica e regimi fiscali agevolati sul capital gain agricolo rendono l’investimento ancora più interessante. Ma, oltre alla redditività, ciò che spinge i grandi patrimoni a puntare sul settore è la dimensione identitaria: una tenuta agricola come progetto di vita e di famiglia, capace di unire ritorni economici, sostenibilità e qualità della vita.


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L’avvocato digitale: formazione obbligatoria e nuovi rischi con l’AI

L’intelligenza artificiale è entrata stabilmente negli studi professionali, dagli avvocati ai consulenti fiscali, dagli ingegneri agli architetti. Le potenzialità sono enormi, ma insieme alle opportunità crescono anche i rischi: tecnici, giuridici, etici e reputazionali. Il messaggio che arriva dall’AI Act, il regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, è chiaro: non si tratta solo di usare nuovi strumenti, ma di costruire una cultura digitale consapevole, capace di comprendere il funzionamento degli algoritmi e di rispettare un quadro normativo complesso.

Formazione obbligatoria: tre dimensioni da conoscere

Il regolamento europeo stabilisce di fatto un obbligo formativo per fornitori e utilizzatori di sistemi di AI. La formazione dovrà coprire tre aree fondamentali:

  • Tecnica: capire come funzionano gli algoritmi, riconoscere bias e limiti del machine learning.
  • Giuridica: conoscere le regole di AI Act, GDPR e normative nazionali, comprese le responsabilità per eventuali violazioni.
  • Etica: prevenire discriminazioni, garantire equità e tutelare la dignità delle persone.

Per i professionisti significa non accettare passivamente le soluzioni tecnologiche, ma valutarne criticamente l’impatto, documentando scelte e conseguenze.

Trasparenza verso clienti e utenti

Altro principio cardine dell’AI Act è la trasparenza. Chi sviluppa o fornisce sistemi di intelligenza artificiale deve spiegare in modo chiaro obiettivi, logiche di addestramento e rischi connessi. Gli studi professionali che adottano queste tecnologie devono a loro volta informare i clienti, rendendoli consapevoli del modo in cui i loro dati vengono trattati.

Il Parlamento italiano, con il disegno di legge sull’intelligenza artificiale in discussione, introduce un ulteriore passo: l’obbligo di informativa preventiva al cliente sull’uso di strumenti di AI. Un vincolo che si affianca alla necessità di mantenere un rapporto fiduciario basato sulla massima chiarezza.

La responsabilità non si delega al fornitore

L’utilizzo di piattaforme sviluppate da terzi non solleva gli studi dalle proprie responsabilità. Al contrario, la fase pre-contrattuale diventa cruciale: bisogna analizzare documentazione tecnica e contrattuale, verificare il livello di rischio del sistema (minimo, limitato, alto o inaccettabile), controllare le misure di cybersecurity adottate e chiedere al fornitore test documentati su bias e discriminazioni.

La conformità al GDPR è un altro tassello obbligato: serve valutare se il trattamento dei dati è lecito, effettuare una DPIA (valutazione d’impatto sulla protezione dei dati) quando necessario e verificare che l’anonimizzazione sia reale e dimostrabile.


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Avvocati, cambia l’accesso alla professione: pratica in studio e nuovo esame di Stato

Roma – Un ritorno alle origini, ma con strumenti aggiornati. È questa la filosofia che anima il disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento forense, approvato il 4 settembre dal Consiglio dei ministri e destinato a sostituire la legge professionale 247/2012. Al centro, due nodi cruciali: il tirocinio obbligatorio e il nuovo modello di esame di Stato.

Il tirocinio: 18 mesi tra pratica e formazione

Il testo conferma la durata di 18 mesi continuativi, da svolgere principalmente presso lo studio di un avvocato, l’Avvocatura dello Stato o l’ufficio legale di un ente pubblico. L’esperienza dovrà garantire l’apprendimento delle competenze tecniche necessarie a esercitare la professione e a gestire uno studio, senza trascurare i principi etici e le regole deontologiche.

Accanto alla pratica, diventa obbligatoria la frequenza a corsi di formazione professionale della durata di 18 mesi, organizzati da scuole forensi accreditate, ordini professionali o università. Previsti anche periodi all’estero, fino a sei mesi, presso studi legali di Paesi Ue, o in parte durante l’ultimo anno di università. Vengono invece esclusi percorsi alternativi come gli stage in tribunale, oggi in parte riconosciuti come equivalenti.

«Chi vuole fare l’avvocato deve formarsi nello studio di un legale», osserva Francesco Napoli, vicepresidente del Consiglio nazionale forense. «La riforma intende restituire autorevolezza alla professione, assicurando una preparazione più solida ai giovani».

L’esame di Stato: due scritti e un orale

Sul fronte dell’esame, la riforma introduce un modello a due prove scritte e una orale. Gli scritti consisteranno in un parere motivato e in un atto giudiziario, entrambi in una materia scelta dal candidato tra diritto privato, penale e amministrativo. Si svolgeranno in presenza, con modalità di videoscrittura e l’uso di codici annotati con la giurisprudenza.

La prova orale si articolerà in tre momenti: illustrazione delle prove scritte, discussione di un caso pratico e colloquio su procedura civile e penale, diritto civile e penale, ordinamento e deontologia forense, più due materie a scelta del candidato tra diritto amministrativo, commerciale, costituzionale, del lavoro, tributario, ecclesiastico ed europeo.

Una riforma attesa da anni

Dal 2012 ad oggi, il percorso di accesso alla professione è stato oggetto di continue proroghe e modifiche. Il vecchio modello a tre scritti e un orale non è mai entrato a regime: la pandemia ha introdotto prove orali straordinarie, poi sostituite da formule ibride prorogate fino al 2024.

Anche i numeri riflettono il cambiamento: dai 22.750 candidati del 2020 si è scesi ai 10.316 del 2024, con tassi di successo oscillanti tra il 46 e il 52%. Ora, con la delega, si punta a un assetto definitivo che riduca incertezze e valorizzi le competenze pratiche.

Tempi e prospettive

Il provvedimento dovrà ora affrontare l’iter parlamentare e sarà seguito dall’emanazione dei decreti legislativi, previsti entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Se il cronoprogramma sarà rispettato, le nuove regole potrebbero entrare in vigore già per le prossime sessioni d’esame.


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Scuole: metà degli edifici senza agibilità

Roma – A venticinque anni dalla prima edizione, il report Ecosistema Scuola di Legambiente restituisce l’immagine di un sistema scolastico che fatica a uscire dalle sue fragilità strutturali. L’analisi, che ha coinvolto 97 Comuni capoluogo su 112, coprendo oltre 7mila edifici, fotografa un’Italia in cui meno della metà delle scuole ha il certificato di agibilità e solo il 45% dispone del collaudo statico.

Nonostante decenni di finanziamenti straordinari – dalla Buona Scuola al PNRR – e programmi di edilizia scolastica, il 54,8% degli edifici in zone sismiche non ha mai effettuato una verifica di vulnerabilità e meno del 15% è stato progettato o adeguato alle normative antisismiche.

Solai, manutenzione e fondi frammentati

Un capitolo delicato riguarda i solai: solo il 31,2% degli edifici è stato sottoposto a diagnosi negli ultimi cinque anni, e appena il 10,9% ha visto interventi di messa in sicurezza. Le differenze regionali sono marcate: al Sud la percentuale sale al 17%, mentre nel Centro si ferma al 7,7%.

Sul fronte della manutenzione, i numeri parlano chiaro. Nel 2024 i fondi per interventi straordinari sono scesi a 39.648 euro di media nazionale, ma la spesa effettiva si è fermata a 29mila euro. Al Nord le risorse sono più consistenti (oltre 41mila euro), mentre Sud e Isole restano molto indietro, con appena 5mila euro a edificio. Anche la manutenzione ordinaria arranca: la media si ferma a 8.338 euro annui.

Secondo Claudia Cappelletti, responsabile scuola di Legambiente, il problema non è solo economico ma organizzativo: «Da anni vengono stanziati fondi, ma restano frammentati tra diverse fonti e livelli di governo. Questo genera dispersione e ostacola la pianificazione strategica».

L’Italia poco sostenibile: tra energia e rinnovabili

Se la sicurezza resta il primo allarme, la sostenibilità ambientale non è da meno. Solo il 16% degli edifici ha beneficiato di interventi di efficientamento energetico, e appena il 6,5% è in classe A. La maggioranza schiacciante (66,6%) ricade ancora nelle classi E, F e G.

Paradossale la situazione sul fronte delle fonti rinnovabili: nonostante il sole della penisola, solo il 21% delle scuole utilizza impianti green, con punte minime nelle Isole, ferme al 10,8%.

Amianto e DVR: un quarto di secolo dopo, i nodi restano

L’edizione 2025 del report ha integrato i dati dell’Anagrafe nazionale dell’edilizia scolastica, che fotografa oltre 39mila edifici pubblici. Solo nel 79,6% dei casi è presente il Documento di valutazione dei rischi (DVR) previsto dal Dlgs 81/2008.

Lo sguardo sul lungo periodo è impietoso: nel 2004 il 16% delle scuole conviveva con l’amianto; oggi, dopo vent’anni, la percentuale è scesa solo al 10%.

Legambiente: serve una strategia di lungo periodo

Per Elena Ferrario, presidente scuola e formazione di Legambiente, la risposta non può più essere episodica: «Servono programmazione stabile, manutenzione ordinaria come pilastro della prevenzione, più rinnovabili e un Osservatorio sull’edilizia scolastica funzionante come luogo di co-programmazione».


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