Avvocati, cambia l’accesso alla professione: pratica in studio e nuovo esame di Stato

Roma – Un ritorno alle origini, ma con strumenti aggiornati. È questa la filosofia che anima il disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento forense, approvato il 4 settembre dal Consiglio dei ministri e destinato a sostituire la legge professionale 247/2012. Al centro, due nodi cruciali: il tirocinio obbligatorio e il nuovo modello di esame di Stato.

Il tirocinio: 18 mesi tra pratica e formazione

Il testo conferma la durata di 18 mesi continuativi, da svolgere principalmente presso lo studio di un avvocato, l’Avvocatura dello Stato o l’ufficio legale di un ente pubblico. L’esperienza dovrà garantire l’apprendimento delle competenze tecniche necessarie a esercitare la professione e a gestire uno studio, senza trascurare i principi etici e le regole deontologiche.

Accanto alla pratica, diventa obbligatoria la frequenza a corsi di formazione professionale della durata di 18 mesi, organizzati da scuole forensi accreditate, ordini professionali o università. Previsti anche periodi all’estero, fino a sei mesi, presso studi legali di Paesi Ue, o in parte durante l’ultimo anno di università. Vengono invece esclusi percorsi alternativi come gli stage in tribunale, oggi in parte riconosciuti come equivalenti.

«Chi vuole fare l’avvocato deve formarsi nello studio di un legale», osserva Francesco Napoli, vicepresidente del Consiglio nazionale forense. «La riforma intende restituire autorevolezza alla professione, assicurando una preparazione più solida ai giovani».

L’esame di Stato: due scritti e un orale

Sul fronte dell’esame, la riforma introduce un modello a due prove scritte e una orale. Gli scritti consisteranno in un parere motivato e in un atto giudiziario, entrambi in una materia scelta dal candidato tra diritto privato, penale e amministrativo. Si svolgeranno in presenza, con modalità di videoscrittura e l’uso di codici annotati con la giurisprudenza.

La prova orale si articolerà in tre momenti: illustrazione delle prove scritte, discussione di un caso pratico e colloquio su procedura civile e penale, diritto civile e penale, ordinamento e deontologia forense, più due materie a scelta del candidato tra diritto amministrativo, commerciale, costituzionale, del lavoro, tributario, ecclesiastico ed europeo.

Una riforma attesa da anni

Dal 2012 ad oggi, il percorso di accesso alla professione è stato oggetto di continue proroghe e modifiche. Il vecchio modello a tre scritti e un orale non è mai entrato a regime: la pandemia ha introdotto prove orali straordinarie, poi sostituite da formule ibride prorogate fino al 2024.

Anche i numeri riflettono il cambiamento: dai 22.750 candidati del 2020 si è scesi ai 10.316 del 2024, con tassi di successo oscillanti tra il 46 e il 52%. Ora, con la delega, si punta a un assetto definitivo che riduca incertezze e valorizzi le competenze pratiche.

Tempi e prospettive

Il provvedimento dovrà ora affrontare l’iter parlamentare e sarà seguito dall’emanazione dei decreti legislativi, previsti entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Se il cronoprogramma sarà rispettato, le nuove regole potrebbero entrare in vigore già per le prossime sessioni d’esame.


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Scuole: metà degli edifici senza agibilità

Roma – A venticinque anni dalla prima edizione, il report Ecosistema Scuola di Legambiente restituisce l’immagine di un sistema scolastico che fatica a uscire dalle sue fragilità strutturali. L’analisi, che ha coinvolto 97 Comuni capoluogo su 112, coprendo oltre 7mila edifici, fotografa un’Italia in cui meno della metà delle scuole ha il certificato di agibilità e solo il 45% dispone del collaudo statico.

Nonostante decenni di finanziamenti straordinari – dalla Buona Scuola al PNRR – e programmi di edilizia scolastica, il 54,8% degli edifici in zone sismiche non ha mai effettuato una verifica di vulnerabilità e meno del 15% è stato progettato o adeguato alle normative antisismiche.

Solai, manutenzione e fondi frammentati

Un capitolo delicato riguarda i solai: solo il 31,2% degli edifici è stato sottoposto a diagnosi negli ultimi cinque anni, e appena il 10,9% ha visto interventi di messa in sicurezza. Le differenze regionali sono marcate: al Sud la percentuale sale al 17%, mentre nel Centro si ferma al 7,7%.

Sul fronte della manutenzione, i numeri parlano chiaro. Nel 2024 i fondi per interventi straordinari sono scesi a 39.648 euro di media nazionale, ma la spesa effettiva si è fermata a 29mila euro. Al Nord le risorse sono più consistenti (oltre 41mila euro), mentre Sud e Isole restano molto indietro, con appena 5mila euro a edificio. Anche la manutenzione ordinaria arranca: la media si ferma a 8.338 euro annui.

Secondo Claudia Cappelletti, responsabile scuola di Legambiente, il problema non è solo economico ma organizzativo: «Da anni vengono stanziati fondi, ma restano frammentati tra diverse fonti e livelli di governo. Questo genera dispersione e ostacola la pianificazione strategica».

L’Italia poco sostenibile: tra energia e rinnovabili

Se la sicurezza resta il primo allarme, la sostenibilità ambientale non è da meno. Solo il 16% degli edifici ha beneficiato di interventi di efficientamento energetico, e appena il 6,5% è in classe A. La maggioranza schiacciante (66,6%) ricade ancora nelle classi E, F e G.

Paradossale la situazione sul fronte delle fonti rinnovabili: nonostante il sole della penisola, solo il 21% delle scuole utilizza impianti green, con punte minime nelle Isole, ferme al 10,8%.

Amianto e DVR: un quarto di secolo dopo, i nodi restano

L’edizione 2025 del report ha integrato i dati dell’Anagrafe nazionale dell’edilizia scolastica, che fotografa oltre 39mila edifici pubblici. Solo nel 79,6% dei casi è presente il Documento di valutazione dei rischi (DVR) previsto dal Dlgs 81/2008.

Lo sguardo sul lungo periodo è impietoso: nel 2004 il 16% delle scuole conviveva con l’amianto; oggi, dopo vent’anni, la percentuale è scesa solo al 10%.

Legambiente: serve una strategia di lungo periodo

Per Elena Ferrario, presidente scuola e formazione di Legambiente, la risposta non può più essere episodica: «Servono programmazione stabile, manutenzione ordinaria come pilastro della prevenzione, più rinnovabili e un Osservatorio sull’edilizia scolastica funzionante come luogo di co-programmazione».


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Esplode il contenzioso sul lavoro pubblico: scuola, sanità ed enti locali guidano la corsa alle cause

Il contenzioso in materia di lavoro e previdenza continua a crescere, trainato soprattutto dal pubblico impiego. Nel 2024 i tribunali italiani hanno registrato 77.941 cause avviate da dipendenti della Pubblica amministrazione, contro le meno di 20mila del 2019: un incremento di oltre il 290% in cinque anni.

Il dato emerge dal sesto rapporto annuale del Ministero della Giustizia, confermato anche dal monitoraggio dei principali tribunali nei primi mesi del 2025. Complessivamente, i procedimenti di lavoro e previdenza iscritti nel 2024 sono stati 314.288, con un aumento dell’11,7% rispetto al 2023 e del 3,2% oltre i livelli pre-Covid.

La scuola, epicentro della conflittualità

La parte più consistente delle liti arriva dal mondo scolastico. Negli ultimi anni il contenzioso si è trasformato: dalle cause individuali per titoli e graduatorie si è passati a ricorsi seriali su quattro questioni principali:

  • Carta del docente anche per i precari;
  • indennità per ferie non godute ai docenti con contratto a termine;
  • ricostruzione di carriera senza il “vuoto” del 2013, anno del blocco degli stipendi;
  • riconoscimento del servizio prestato nelle scuole paritarie.

La Corte di giustizia dell’UE ha recentemente confermato la legittimità della normativa italiana che distingue tra esperienza maturata in scuole statali e paritarie, ridimensionando così parte del contenzioso. La Cassazione, invece, ha riconosciuto il diritto alla Carta del docente anche ai precari e, con le sentenze 14268/2022 e 16715/2024, ha stabilito che i docenti a termine hanno diritto alla monetizzazione delle ferie non fruite se il datore di lavoro non ha garantito condizioni adeguate per usufruirne.

Sanità ed enti locali: altri fronti caldi

Secondo l’avvocata Aurora Notarianni, responsabile dell’ufficio di direzione dell’Agi (Associazione giuslavoristi italiani), l’ondata di cause non riguarda solo la scuola. Nella sanità pesano i ricorsi legati all’uso massiccio di straordinari in un contesto di grave carenza di personale. Negli enti locali, invece, dopo le stabilizzazioni avviate con la legge Madia, molti lavoratori socialmente utili chiedono il passaggio dal part-time al tempo pieno. A ciò si aggiungono le liti nelle società partecipate, che gestiscono servizi cruciali come trasporti e assistenza sociale.

Il peso sul lavoro dei tribunali

Il contenzioso del lavoro rappresenta una fetta significativa dell’attività giudiziaria civile. Nel 2024 i procedimenti di lavoro e previdenza hanno costituito il 14% delle nuove cause civili. Se si includono gli accertamenti tecnici preventivi per il riconoscimento delle invalidità previdenziali e assistenziali, la percentuale sale al 23%, con 206.682 nuovi procedimenti in un anno.

Un fenomeno strutturale

Il boom di cause, soprattutto nel settore pubblico, segnala una criticità strutturale. La conflittualità non è più episodica, ma sistematica, alimentata da politiche di reclutamento fragili, blocchi salariali e carenze di organico. Se non si interverrà con riforme e soluzioni strutturali, il rischio è che i tribunali restino congestionati e che la giustizia del lavoro diventi sempre più lenta e complessa.

Torino, boom di ricorsi sul lavoro: il Tribunale riunisce le cause seriali dei precari

Nella sezione lavoro il 97% delle liti riguarda docenti contro il Ministero. Stop alla frammentazione dei ricorsi e apertura ai decreti ingiuntivi anche senza busta paga allegata.

Torino – Il Tribunale del lavoro di Torino si trova a gestire un contenzioso in costante crescita, dominato quasi interamente dal pubblico impiego. Secondo la presidente della sezione, Daniela Paliaga, il 97% delle cause è promosso da insegnanti precari contro il Ministero dell’Istruzione, con rivendicazioni sempre più variegate: dal riconoscimento di benefici economici alle ferie non godute, fino ai diritti legati alla carriera.

La moltiplicazione dei ricorsi

A complicare ulteriormente il quadro è stata la prassi di presentare un ricorso distinto per ciascuna pretesa, anche se proveniente dallo stesso lavoratore. Il risultato? Un’esplosione di fascicoli e un aggravio di lavoro per giudici, avvocati e cancellerie.

Per affrontare il fenomeno, la sezione ha avviato un monitoraggio mirato: le cause riconducibili allo stesso ricorrente vengono ora riunite e affidate a un unico magistrato. Inoltre, nel liquidare le spese processuali, il tribunale tiene conto del frazionamento iniziale, scoraggiando così la proliferazione di ricorsi seriali.

I primi risultati sembrano incoraggianti: stanno arrivando ricorsi che, come già avviene in altri settori, accorpano tutte le domande del lavoratore in un unico procedimento. Una prassi che potrebbe diventare la regola, rendendo più snella la gestione dei processi.

La questione dei decreti ingiuntivi

Un altro fronte caldo è quello delle richieste di somme non corrisposte dai datori di lavoro. Nel 2024, a Torino, i decreti ingiuntivi sono aumentati sensibilmente. «Si tratta per lo più – spiega Paliaga – di retribuzioni non pagate, pur a fronte dell’emissione della busta paga».

Il Tribunale ha adottato un approccio più flessibile: oggi può pronunciare un decreto ingiuntivo anche in assenza della singola busta paga contestata, purché quelle precedenti e successive contengano tutti gli elementi utili a ricostruire la posizione del lavoratore. Resta ovviamente salva la possibilità per il datore di lavoro di proporre opposizione.


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Pagamenti con assegni post-datati: per il CNF violano il decoro professionale

L’avvocato non può accettare assegni post-datati come forma di pagamento dei propri compensi professionali. A sancirlo è il Consiglio nazionale forense (CNF) con la sentenza n. 47/2025, depositata il 6 agosto, che ha confermato un anno di sospensione a carico di un legale accusato di gravi violazioni deontologiche.

Le violazioni accertate

Le indagini disciplinari hanno fatto emergere un quadro pesante:

  • mancata iscrizione a ruolo di 12 cause su 17 affidategli in mandato;
  • ricezione di diversi assegni post-datati, due dei quali usati come titoli esecutivi;
  • assenza di regolare fatturazione delle somme percepite;
  • richiesta di compensi sproporzionati rispetto all’attività svolta;
  • avvio di un atto di precetto nei confronti della cliente, nonostante i suoi inadempimenti professionali.

Secondo l’esposto, la cliente aveva già versato oltre 40mila euro, cui si sarebbero aggiunti assegni post-datati per altri 42mila euro, senza che la maggior parte delle cause fosse portata a termine.

La decisione del Consiglio

Il CNF ha ritenuto la condotta del professionista in palese contrasto con i doveri di probità, dignità e decoro, sottolineando come l’accettazione di assegni post-datati violi la normativa sull’assegno (R.D. n. 1736/1933) ed esponga anche a possibili responsabilità fiscali, inclusa l’evasione dell’imposta di bollo.

La pluralità delle violazioni, il danno arrecato alla cliente e i gravi precedenti disciplinari hanno spinto il Consiglio a confermare la sospensione dall’esercizio della professione per un anno.

Il principio ribadito

La sentenza si inserisce in una linea interpretativa consolidata: i rapporti economici tra avvocato e cliente devono essere improntati alla massima correttezza e trasparenza. L’utilizzo di strumenti di pagamento non conformi alla legge non solo mina la fiducia nel singolo professionista, ma compromette l’onorabilità dell’intera avvocatura.


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Produzione, credito e lavoro: perché senza natura il sistema economico non regge

Il capitale naturale non è più solo una questione ambientale, ma un pilastro economico e finanziario che sostiene imprese, occupazione e credito. Il sesto Rapporto sullo stato del capitale naturale in Italia, pubblicato dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE), fotografa un legame stretto: il 72% delle aziende dell’area euro dipende da almeno un servizio ecosistemico, e quasi il 75% dei prestiti bancari alle imprese non finanziarie è concesso a realtà direttamente legate a questi servizi.

Un quadro internazionale: dall’Accordo di Parigi al Global Biodiversity Framework

Il rapporto colloca l’Italia dentro un contesto globale che va dall’Accordo di Parigi all’Agenda 2030, fino al Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (GBF), firmato da 196 Paesi. Obiettivo: un mondo “in armonia con la natura” entro il 2050, con traguardi intermedi come il 30×30 (proteggere il 30% delle aree terrestri e marine entro il 2030).
Il Target 15 del GBF assegna a imprese e finanza un ruolo decisivo: fermare e invertire la perdita di biodiversità, aprendo la strada a un’economia rigenerativa.

Imprese e rischi concreti: dalla produzione al credito

Il legame tra ecosistemi e sistema economico è ormai evidente: agricoltura, turismo, manifattura ed energia dipendono dalla disponibilità di acqua, suolo fertile, impollinazione, pesca e stabilità climatica. Secondo la Banca Mondiale, il declino di questi servizi può ridurre il PIL globale di 2,7 trilioni di dollari entro il 2030.

Non solo produzione: anche il credito è in gioco. Le banche, infatti, stanno già integrando i Nature-Related Financial Risks (NRFR) nelle proprie valutazioni, così come avviene per i rischi climatici. L’accesso ai finanziamenti dipenderà sempre di più dalla capacità delle imprese di gestire i propri impatti e le proprie dipendenze dalla natura.

Opportunità economiche: rapporto costi/benefici 1:9

Il rapporto evidenzia come la riqualificazione ecologica possa generare enormi benefici. In Italia, 2,4 miliardi di euro di vantaggi a fronte di soli 261 milioni di costi: un rapporto costi/benefici di 1:9, tra i più favorevoli in Europa.
Le Nature Based Solutions (NBS) – infrastrutture verdi, rigenerazione urbana, turismo sostenibile, agricoltura intelligente – offrono co-benefici economici, sociali e culturali. Dalla riduzione dei rischi sanitari al benessere urbano, fino al rafforzamento del legame comunità-territorio.

Fisco e finanza verde: il ruolo delle politiche pubbliche

Il documento dedica ampio spazio alla riforma fiscale ambientale, con l’obiettivo di eliminare i sussidi dannosi (SAD) entro il 2025 e rivedere l’IVA su combustibili fossili, fertilizzanti e pesticidi entro il 2030-2032. Crescono strumenti finanziari come green bond e pagamenti per servizi ecosistemici, che orientano i capitali privati verso la natura.
La Tassonomia UE è ormai la bussola per fondi pubblici e credito bancario: chi non si adegua rischia di restare fuori dai canali di finanziamento.

Raccomandazioni del Comitato per il Capitale Naturale

Il rapporto conclude con un pacchetto di indicazioni:

  • garantire coerenza normativa con gli articoli 9 e 41 della Costituzione;
  • armonizzare strumenti di monitoraggio;
  • rafforzare la contabilità ambientale e i dati sugli ecosistemi;
  • valutare benefici a lungo termine degli investimenti;
  • estendere il principio del Do No Significant Harm (DNSH), con deroghe temporanee per i settori in transizione;
  • istituire una cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio per coordinare le politiche sul capitale naturale.

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Data Act: dal 12 settembre scatta la rivoluzione dei dati

Dal 12 settembre 2025 cambia il modo di intendere e gestire i dati generati dai dispositivi connessi a Internet. Con l’entrata in vigore del Data Act (regolamento UE 2023/2854), le imprese – produttori e fornitori di servizi – sono obbligate a mettere a disposizione degli utenti i dati raccolti da macchinari, dispositivi e sensori IoT, anche se acquistati prima di tale data.

La misura, destinata a incidere profondamente sulle prassi aziendali, si applica a una vasta gamma di prodotti: dagli smartwatch ai fitness tracker, dai dispositivi di telemedicina ai sensori agricoli e industriali, fino ai sistemi di logistica e trasporto merci.

Il cuore della riforma: diritto di accesso e portabilità

Il principio cardine del Data Act è semplice: i dati appartengono all’utente, persona fisica o giuridica che utilizza il prodotto, e non possono più essere trattenuti esclusivamente dal fornitore. L’utente ha diritto ad accedere, utilizzare e condividere i dati, purché non per fini di concorrenza sleale.

La portata della norma è retroattiva: anche i dispositivi già venduti o ceduti prima del 12 settembre 2025 rientrano nel perimetro, purché continuino a generare informazioni.

Nuove regole per imprese e PA

Le imprese devono:

  • garantire l’accesso diretto, sicuro e gratuito ai dati generati;

  • rispettare i limiti posti da privacy, segreti commerciali e sicurezza;

  • predisporre contratti e informative conformi al nuovo regime;

  • favorire l’interoperabilità tra sistemi, evitando blocchi tecnologici e costi nascosti di trasferimento dati.

Dal 12 settembre 2026 i prodotti connessi e i servizi digitali correlati dovranno essere progettati e forniti già con l’accesso ai dati abilitato by default.

Tutela dei consumatori e stop alle pratiche abusive

Il regolamento vieta condotte scorrette dei fornitori, come il vendor lock-in, che ostacola il passaggio da un servizio cloud a un altro imponendo costi eccessivi. Allo stesso tempo, prevede clausole di salvaguardia per i segreti industriali e limita l’uso dei dati da parte degli utenti: non sarà consentito sfruttarli per sviluppare prodotti concorrenti.

Privacy e GDPR: due regimi che convivono

Il Data Act integra e non sostituisce il GDPR: i dati personali rimangono soggetti ai principi di liceità, proporzionalità e sicurezza. Le imprese dovranno dunque contemperare i diritti di accesso con le tutele della privacy e la protezione dei dati sensibili.

Una rivoluzione per il mercato europeo

Secondo la Commissione UE, il nuovo quadro normativo sbloccherà opportunità enormi per l’economia dei dati, agevolando innovazione, riparazioni più convenienti e maggiore efficienza nelle filiere produttive. Agricoltura di precisione, telemedicina, logistica e industria 4.0 saranno i settori più interessati dalla riforma.

Il cronoprogramma è chiaro:

  • 12 settembre 2025: entrata in vigore generale del Data Act.

  • 12 settembre 2026: obbligo di progettare prodotti e servizi già predisposti per l’accesso ai dati.

  • 12 settembre 2027: applicazione delle norme anti-clausole abusive anche ai contratti di lunga durata stipulati prima dell’entrata in vigore.


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  1. APP per i distretti di Corti d’appello di: Ancona, Bologna, Torino, Genova, Milano, Brescia, Venezia, Trento, Trieste;
  2. Iscrizioni Regeweb per i distretti sopra menzionati;
  3. Piattaforma Notifiche Penali di tutta Italia;
  4. Servizio ADI switch.

L’attività è prevista per martedì 16 settembre 2025 e avrà una durata prevista di 2 ore dalle ore 15:00 alle ore 17:00 salvo ulteriori necessità.

Le modifiche potrebbero interessare l’intero territorio nazionale coinvolgendo anche i sistemi di consultazione del civile.

Ricordiamo che sarà possibile depositare telematicamente con Service1 seguendo l’apposita guida disponibile al seguente LINK GUIDE


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Gli alias e i dati pseudonimizzati non sono un modo per sfuggire agli obblighi del Regolamento europeo sulla privacy. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) con la sentenza del 4 settembre 2025 (causa C-413/23), chiarendo che tali informazioni devono essere considerate a tutti gli effetti dati personali qualora sia possibile, anche indirettamente, risalire all’identità delle persone cui si riferiscono.

Una pronuncia che mette fine a prassi elusive riscontrate negli ultimi anni, in cui imprese e organizzazioni hanno tentato di sottrarsi agli obblighi previsti dal GDPR (Regolamento UE 2016/679) sostenendo che, una volta “mascherati” i dati, questi uscissero dall’ambito di applicazione della normativa.

Tre scenari e regole diverse

La Corte ha individuato tre tipologie di flussi di dati pseudonimizzati:

  1. Circolazione interna: quando i dati rimangono all’interno della stessa organizzazione (impresa o pubblica amministrazione) e vengono messi a disposizione dei dipendenti.
  2. Fornitore esterno (outsourcing): quando i dati sono affidati a un soggetto esterno che li tratta per conto dell’organizzazione, in qualità di responsabile del trattamento, vincolato da contratto ex art. 28 GDPR.
  3. Comunicazione a terzi autonomi: quando i dati sono trasferiti a un’altra entità giuridica che li utilizza per finalità proprie, assumendo il ruolo di titolare autonomo.

Se nei primi due casi l’impresa rimane pienamente responsabile del flusso dei dati, nel terzo scenario la questione si complica: il destinatario deve verificare se i dati pseudonimizzati possano condurre, con mezzi ragionevolmente disponibili (incluse fonti pubbliche o strumenti di intelligenza artificiale), all’identificazione dell’interessato.

Pseudonimizzazione ≠ anonimizzazione

La CGUE ha ribadito che la pseudonimizzazione non equivale all’anonimizzazione. La differenza è sostanziale:

  • Dati pseudonimizzati: continuano a rientrare nel GDPR se esiste un rischio di reidentificazione.

  • Dati anonimizzati: escono dal campo di applicazione del regolamento solo se l’identificazione risulta impossibile in modo definitivo e irreversibile.

Obblighi per imprese e PA

Le conseguenze pratiche della sentenza sono rilevanti: sia l’organizzazione che pseudonimizza i dati sia quella che li riceve devono adempiere a precisi obblighi. In particolare:

  • fornire un’informativa completa agli interessati;

  • verificare la base giuridica del trattamento;

  • applicare misure di sicurezza adeguate;

  • consentire l’esercizio dei diritti previsti dal GDPR.

Il titolare del trattamento, inoltre, deve valutare con attenzione se i dati pseudonimizzati possano ancora permettere, direttamente o indirettamente, l’identificazione degli interessati.

Un monito contro gli abusi

Secondo gli esperti, la pronuncia chiude ogni margine interpretativo a favore di chi pensava di “aggirare” il GDPR tramite la pseudonimizzazione. Le imprese e le pubbliche amministrazioni, quindi, non potranno più sostenere che il trasferimento di tali dati a terzi non comporti oneri di compliance.


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Il Comitato, come recita lo statuto, ha “come scopo immediato quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi derivanti dalla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere e sull’importanza di preservare l’attuale sistema di garanzie dei diritti dei cittadini e quindi di promuovere la vittoria del no al referendum costituzionale”.

Potrà inoltre decidere di partecipare ad ogni iniziativa culturale, mediatica e di informazione sul referendum. Il Comitato è aperto a tutti i cittadini ma non a esponenti di partito o a ex politici. Secondo lo Statuto, infatti, possono diventare soci del comitato “esponenti, in quiescenza, della magistratura ordinaria, amministrativa e contabile, professori e ricercatori universitari, esponenti dell’avvocatura, dell’associazionismo e della società civile e cittadini che condividano integralmente le finalità del comitato”.

“In nessun caso possono diventare soci del comitato persone che abbiano o abbiano avuto incarichi in partiti politici o in associazioni con esplicite finalità elettorali o di sostegno a partiti politici o abbiano svolto o svolgano in maniera non occasionale attività in partiti politici o associazioni con esplicite finalità elettorali o di sostegno a partiti politici”.

Oltre ai soci lo statuto prevede anche la figura dei sostenitori e avrà delle articolazioni territoriali. Tra i soci costituenti c’è il presidente dell’Anm Cesare Parodi. Antonio Diella è presidente esecutivo del Comitato. La vicepresidente vicaria è Marinella Graziano, mentre il vicepresidente e segretario è Gerardo Giuliano. Tesoriere è Giulia Locati. Entro 60 giorni sarà eletto un presidente onorario del Comitato.


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L’86% delle tasse va allo stato centrale

Nel 2023[1] il gettito tributario complessivo è stato pari a 613,1 miliardi di euro. Di questi, 529,4 miliardi (pari all’86 per cento del totale) sono stati incassati dallo Stato centrale; gli altri 83,7 (pari al 14 per cento del totale), sono finiti nelle casse delle Regioni e degli Enti locali (vedi Tab. 1). Per contro, la spesa pubblica, al netto delle uscite previdenziali e degli interessi sul debito pubblico, ha sfiorato i 644 miliardi. Di questo importo, 362 miliardi (pari al 56 per cento del totale) sono stati spesi dallo Stato centrale, i rimanenti 281 (pari al 44 per cento del totale) sono usciti dalle casse delle Regioni e degli Enti locali (vedi Graf. 1).

In altre parole, se la quasi totalità delle tasse pagate dagli italiani finisce nelle casse dello Stato centrale, solo poco più della metà della spesa pubblica è in capo sempre a quest’ultimo soggetto. Pertanto, tra questi due livelli di governo vi è una sperequazione tra la distribuzione delle entrate tributarie e della spesa pubblica molto preoccupante. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA.

Ciò implica che gli Enti pubblici locali, i quali sostengono quasi la metà della spesa per i servizi offerti ai cittadini (quali sanità, trasporto pubblico locale, edilizia abitativa, ecc.), ricevono le risorse prevalentemente dallo Stato centrale e solo in misura limitata direttamente dai contribuenti. Di conseguenza, la capacità finanziaria di Regioni e Comuni dipende dai trasferimenti statali, spesso vincolati dall’andamento della spesa storica e dalla capacità delle amministrazioni locali di “negoziare” tali risorse con Roma.

Inoltre, negli ultimi trent’anni numerose funzioni e servizi pubblici sono stati trasferiti dal livello centrale a quello periferico, senza che vi fosse un corrispondente incremento dell’autonomia finanziaria degli enti locali. Spesso, tale situazione ha comportato un doppio onere per i cittadini; per poter disporre di tali servizi i contribuenti dapprima li sovvenzionano con la fiscalità generale e successivamente con l’aggiunta di salatissimi ticket imposti a livello locale.

Tra le entrate tributarie in capo allo Stato e alle Amministrazioni centrali la più onerosa per le tasche dei contribuenti è l’Irpef[2] che, al lordo delle detrazioni e degli oneri deducibili, è costata agli italiani 208,4 miliardi. Segue l’Iva[3] con 140 miliardi e l’Ires[4] con 49,7 miliardi. Per le Regioni le voci in entrata più importanti sono l’Irap[5] con 28,9 miliardi, l’addizionale regionale Irpef con 13,5 e il bollo auto con quasi 6,6 miliardi. Le Province, invece, possono beneficiare del gettito dell’imposta sulla Rc auto che ammonta a 2,1 miliardi e il Pra[6] con 1,7. I Comuni, infine possono contare sulle entrate dall’Imu[7] con 18,6 miliardi, sull’addizionale comunale Irpef con 5,7 e sui contributi riscossi dalle concessioni edilizie con 1,7 (vedi Tab. 2).

Ricordiamo, inoltre, che lo squilibrio finanziario esistente tra centro e periferia ha “spinto” almeno due Amministrazioni regionali italiane – che nel rapporto dare/avere con lo Stato sono particolarmente “penalizzate” – a chiedere più autonomia. Stiamo parlando del Veneto e della Lombardia che, su questa materia, nel 2017 hanno entrambe tenuto un referendum consultivo.

Sebbene sia molto complesso misurarlo, anche perché non esiste un calcolo ufficiale e condiviso, la Banca d’Italia è comunque l’unica istituzione in grado di determinare il residuo fiscale. E’ una variabile importante per capire se i cittadini di una regione danno un contributo positivo o negativo al bilancio pubblico e anche per capire la direzione dei trasferimenti fra regioni che avvengono per mezzo dell’operatore pubblico.

 

Il residuo fiscale è dato dalla differenza tra le spese e le entrate della Pubblica Amministrazione (PA) in una determinata regione e in un dato intervallo di tempo. Se il residuo fiscale è positivo, la PA spende nella regione più delle entrate che si generano su quel territorio. Il che significa che i residenti di questa regione ricevono dal settore pubblico in tutte le sue articolazioni più di quanto non diano. Se il residuo è negativo, nella regione si spende meno delle entrate che si generano su quel territorio: i residenti della regione contribuiscono quindi positivamente al saldo del bilancio pubblico e/o ai trasferimenti ad altre regioni. Se, come spesso accade, si considerano i residui al netto della spesa per interessi, la somma ammonta al bilancio primario della PA[8].

 

Gli ultimi dati disponibili non sono recentissimi, infatti si riferiscono al 2019. Al netto delle Regioni a Statuto Speciale, essi evidenziano come nel rapporto dare-avere tra lo Stato centrale e le regioni, tutte le altre aree del Nord, ad eccezione della Liguria, presentano nelle tre ipotesi elaborate un valore negativo. In altri termini, nei tre approfondimenti realizzati dai ricercatori di via Nazionale, al netto della Liguria, la totalità delle regioni ordinarie del Nord “devolvono” in solidarietà agli altri territori e al bilancio pubblico più di quanto ricevono dallo Stato centrale.

Considerando le tre ipotesi elaborate dalla Banca d’Italia[9], se prendiamo in esame solo quella meno “penalizzante” per le regioni settentrionali emerge che, nel 2019, ciascun abitante di Veneto e Lombardia – vale a dire le due Regioni che più delle altre stanno chiedendo con forza il decollo della riforma sull’autonomia differenziata – ha “alimentato” le casse pubbliche e il resto del Paese rispettivamente con 2.680 e 5.090 euro.

Secondo l’Ufficio studi della CGIA, l’esistenza di un residuo fiscale eccessivamente negativo costituisce una delle motivazioni alla base della richiesta di autonomia differenziata delle due Amministrazioni regionali richiamate più sopra. Anche se con sfaccettature diverse, tutte, comunque, sono in linea di principio consapevoli che il centralismo statale abbia accentuato le disparità tra i territori.

Tornando ai dati sul “residuo fiscale”, le regioni del Mezzogiorno, invece, presentano, tutte un risultato positivo. Questo vuol dire che i flussi finanziari che ricevono dallo Stato centrale sono superiori alle risorse fiscali che “versano” allo stesso. La Campania, ad esempio, sempre nel 2019 ha registrato un “saldo” pro capite pari a +1.380 euro, la Puglia +2.440, la Sicilia +2.989 o e la Calabria +3.085 euro (vedi Tab. 3). Sia chiaro: questo è normale. Da sempre registriamo forti trasferimenti dal Nord al Sud. Tutto ciò, in linea di massima, non è dovuto ad una eccessiva spesa presente nel Sud, ma al fatto che i redditi nel Mezzogiorno sono più bassi e quindi sono più basse le tasse e i contributi versati dai residenti di questa ripartizione geografica.


[1] Ultimo anno in cui i dati sono disponibili.

[2] Imposta sui redditi delle persone fisiche.

[3] Imposta sul valore aggiunto.

[4] Imposta sui redditi delle società di capitali.

[5] Imposta regionale sulle attività produttive.

[6] Pubblico registro automobilistico.

[7] Imposta municipale unica.

[8] OCPI – Università Cattolica Sacro Cuore, “I residui fiscali: più trasparenza migliorerebbe il dibattito sulle autonomie”, 5 settembre 2024.

[9] Banca d’Italia – Economia regionali – “L’economia delle regioni italiane. Dinamiche recenti e aspetti strutturali”, n° 22, novembre 2020. Dall’analisi, l’Ufficio studi della CGIA ha escluso la prima ipotesi che non appare verosimile.


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