Cannabis in Italia: nuove regole, più controlli e scenari futuri

Cannabis e normativa: le ultime novità

La legislazione italiana in materia di cannabis è in costante evoluzione, con aggiornamenti volti a regolamentare il settore in maniera più chiara e rigorosa. Le ultime modifiche legislative intervengono su due fronti principali: la distinzione tra cannabis terapeutica e cannabis light e il controllo sulla produzione di derivati destinati a usi farmaceutici o industriali.

L’Ufficio Centrale Stupefacenti, in attuazione del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti (DPR 309/1990), ha concesso le prime autorizzazioni alla coltivazione di Cannabis Sativa L. da sementi certificate, stabilendo criteri precisi per la filiera. Questo passo mira a garantire la qualità della produzione e a distinguere nettamente tra coltivazione a uso industriale, terapeutico e commerciale.

Un altro aspetto cruciale riguarda la fabbricazione di estratti di cannabis per uso farmaceutico. Le autorizzazioni sono concesse solo alle officine farmaceutiche riconosciute dall’AIFA, che devono attenersi a rigidi protocolli per produrre principi attivi destinati ai medicinali.


Il DDL Sicurezza e la cannabis light: in bilico tra restrizioni e compatibilità UE

Il DDL Sicurezza, attualmente in discussione al Senato, ha sollevato numerose critiche per l’emendamento 13.06, che impone restrizioni alla cannabis light equiparandola a quella non light. Inoltre, il Decreto 27 Giugno 2024 ha inserito il CBD tra le sostanze stupefacenti (Tabella B), limitandone la libera vendita.

Queste misure sono state oggetto di un’interrogazione del Parlamento Europeo, che ne ha contestato la compatibilità con la normativa UE e con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea. Secondo Bruxelles, vietare la vendita di CBD senza evidenze di rischio per la salute pubblica potrebbe costituire una violazione delle regole del mercato unico.

Di contro, il Dipartimento delle Politiche Antidroga sostiene che il DDL Sicurezza non vieta la coltivazione di Cannabis Sativa L., già regolamentata dalla legge 242/2016 per usi industriali. Inoltre, secondo il Governo, la normativa italiana rispetta sia le direttive UE sia la Convenzione Unica sugli Stupefacenti di New York del 1961, garantendo un equilibrio tra regolamentazione e libertà di mercato.


Implicazioni per aziende e consumatori: più regole, più controlli

Le nuove disposizioni richiedono agli operatori del settore un adeguamento normativo che riguarda la produzione, la trasformazione e la vendita dei derivati della cannabis. In particolare:

  • Autorizzazioni: per la produzione di estratti destinati all’uso farmaceutico, le officine devono ottenere il via libera dall’AIFA e rispettare severi standard di qualità.
  • Etichettatura e pubblicità: i rivenditori di cannabis light devono adottare regole più rigide per evitare ambiguità sulla destinazione d’uso dei prodotti.
  • Tracciabilità: aumentano le richieste di documentazione e certificazioni per garantire trasparenza e sicurezza.

Mentre i produttori investono in conformità normativa, i consumatori devono fare attenzione alle nuove regole per evitare acquisti non conformi alle leggi in vigore.


Futuro incerto, tra regolamentazione e sviluppo economico

Il settore della cannabis in Italia resta in bilico tra restrizioni normative e opportunità economiche. Il dibattito sulle regole per la cannabis light e il CBD è tutt’altro che chiuso, con una forte pressione da parte delle associazioni di settore affinché il quadro normativo tenga conto delle esigenze del mercato.

Il confronto tra imprese, istituzioni e organismi europei sarà determinante per delineare il futuro della cannabis in Italia, cercando un equilibrio tra sicurezza, tutela della salute pubblica e crescita economica.


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Danno parentale anche senza legame di sangue: la Cassazione apre un nuovo scenario

La perdita di una persona cara può essere risarcita anche in assenza di un legame di sangue, purché sia dimostrata una relazione affettiva stabile e significativa. Con la sentenza n. 5984, depositata il 7 marzo, la Corte di Cassazione ha confermato il diritto al risarcimento del danno parentale per il compagno della madre di una bambina di quattro anni, deceduta in un tragico incidente stradale.

La decisione ribadisce un principio già affermato dalla giurisprudenza: non è necessario un vincolo di consanguineità per riconoscere il danno da perdita di un rapporto affettivo. Ciò che conta è la qualità del legame e il ruolo effettivamente svolto nella vita della vittima.

Il caso: una figura paterna vicaria

La vicenda riguarda un incidente mortale in cui ha perso la vita una bambina di quattro anni. Il compagno della madre, pur non essendo il padre biologico né convivente con la minore, aveva svolto per anni il ruolo di figura paterna sostitutiva. La Corte d’Appello di Trento aveva riconosciuto il suo diritto al risarcimento, liquidando la stessa somma assegnata alla madre, pari a 249.047 euro.

L’Ufficio Centrale Italiano (Uci), chiamato in causa in quanto il conducente responsabile dell’incidente era tedesco e il veicolo immatricolato in Germania, ha impugnato la decisione, sostenendo che mancassero i requisiti per riconoscere il danno parentale al compagno della madre. Secondo l’Uci, l’assenza di convivenza e di una prova chiara dell’effettivo ruolo genitoriale del ricorrente avrebbero dovuto escludere il diritto al risarcimento.

La decisione della Cassazione

La Terza Sezione Civile della Cassazione ha respinto il ricorso, confermando il ragionamento della Corte d’Appello. I giudici hanno ritenuto provato il ruolo di “padre vicario” del ricorrente, sottolineando come avesse fornito alla bambina assistenza morale e materiale per oltre tre dei quattro anni della sua vita.

Richiamando precedenti giurisprudenziali, la Cassazione ha ribadito che il legame di sangue non è un presupposto imprescindibile per il riconoscimento del danno parentale. Ciò che rileva è la presenza di una relazione stabile, affettiva e caratterizzata da consuetudini di vita e supporto reciproco, elementi ritenuti pienamente sussistenti nel caso di specie.

Un principio consolidato

La sentenza si inserisce nel solco della giurisprudenza più recente, che riconosce il danno parentale a chi abbia instaurato con la vittima un rapporto affettivo profondo e duraturo, indipendentemente dal legame biologico. Già nel 2023, la Suprema Corte aveva affermato che il danno parentale può essere riconosciuto anche nei confronti di chi, pur non avendo un vincolo di consanguineità, ha svolto un ruolo affettivo e di protezione simile a quello di un genitore (Cass. n. 31867/2023).


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La Consulta boccia il divieto di permessi premio per i detenuti che commettono reati in carcere

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che vietava automaticamente, per due anni, la concessione di permessi premio ai detenuti imputati o condannati per reati commessi durante l’esecuzione della pena. Con la sentenza n. 24, depositata oggi, la Consulta ha accolto la questione di legittimità sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto, stabilendo che l’automatismo della preclusione viola i principi costituzionali della presunzione di innocenza e della funzione rieducativa della pena.

Il caso: un detenuto e il divieto di accesso al beneficio

La vicenda trae origine dalla richiesta di permesso premio avanzata da un detenuto, in carcere dal 2017, che si è visto negare l’accesso al beneficio in virtù del divieto previsto dall’articolo 30-ter, quinto comma, della legge sull’ordinamento penitenziario. Il rigetto è stato automatico, poiché il richiedente risultava rinviato a giudizio per un tentativo, avvenuto un anno prima, di introdurre droga nel carcere per conto di un altro detenuto. Il Magistrato di sorveglianza ha però ritenuto la norma incompatibile con i principi costituzionali e ha rimesso la questione alla Consulta.

Le motivazioni della Consulta: violata la presunzione di innocenza

La Corte costituzionale ha evidenziato come una norma che precluda automaticamente il permesso premio sulla sola base di un’imputazione sia incompatibile con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e del diritto dell’Unione europea. La presunzione di innocenza, ha ribadito la Consulta, non si esaurisce all’interno del procedimento penale, ma si estende a tutti gli ambiti in cui un soggetto può subire conseguenze negative per un’accusa non ancora confermata da una condanna definitiva.

Di fatto, impedire al magistrato di sorveglianza di valutare la posizione del detenuto significa costringerlo a considerarlo colpevole in via presuntiva, senza possibilità di ascoltare le sue ragioni o di verificare la reale portata dell’accusa. Questa rigidità, secondo la Corte, compromette il diritto di difesa e il principio di individualizzazione del trattamento penitenziario.

Il giudice deve poter valutare caso per caso

Oltre alla violazione della presunzione di innocenza, la Consulta ha sottolineato che il divieto biennale di accesso ai permessi premio è ormai in contrasto con il consolidato orientamento costituzionale che impone una valutazione individualizzata della condotta e dei progressi rieducativi del detenuto. Anche in caso di condanna definitiva per un reato commesso in carcere, il magistrato di sorveglianza deve poter esaminare il concreto rilievo del fatto e la sua incidenza sul percorso di reinserimento sociale del detenuto.


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Abuso d’ufficio, la Cassazione ferma la riforma Nordio: rinvio alla Consulta

La Corte di Cassazione ha rinviato alla Corte Costituzionale la decisione sull’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, introdotta dalla riforma Nordio con la legge 112/2024. Secondo la Suprema Corte, la cancellazione del reato ha lasciato una “zona franca” nella lotta alla corruzione, violando la Convenzione Onu di Merida del 2003.

Con l’ordinanza n. 9442/2025, la Cassazione ha sollevato profili di illegittimità costituzionale dell’articolo 1 della riforma Nordio, che ha eliminato l’articolo 323 del Codice penale. La decisione è stata presa nell’ambito di un ricorso in cui la difesa chiedeva l’annullamento di una condanna per abuso d’ufficio, in applicazione del principio del favor rei, che impedisce la punizione di un reato abolito.

La Corte, pur riconoscendo la rilevanza dell’abolitio criminis, ha evidenziato che l’abrogazione dell’abuso d’ufficio è avvenuta senza prevedere misure compensative per il contrasto alla corruzione. In particolare, ha rilevato la violazione degli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la ratifica della Convenzione Onu contro la corruzione (legge 116/2003).

L’articolo 19 della Convenzione impone agli Stati di adottare norme che sanzionino condotte prodromiche alla corruzione, tra cui quelle descritte dal precedente articolo 323 del Codice penale. La Cassazione ha quindi ritenuto che l’abrogazione senza strumenti sostitutivi lasci un vuoto normativo pericoloso, non colmato neanche dai meccanismi disciplinari interni alla pubblica amministrazione.

Ora la Consulta dovrà pronunciarsi sulla legittimità della riforma. Se dovesse dichiarare incostituzionale l’abrogazione, il reato di abuso d’ufficio potrebbe tornare in vigore senza che la Corte Costituzionale violi il principio di riserva di legge, che affida al Parlamento la potestà legislativa in materia penale.

La decisione della Cassazione riapre dunque il dibattito su una riforma che, se da un lato ha cercato di snellire la burocrazia, dall’altro rischia di indebolire la lotta alla corruzione.


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Ddl violenza di genere; OCF: “Strumentalizzazione della giustizia penale alla ricerca di facile consenso elettorale”

Roma 10 marzo 2025 – L’Organismo Congressuale Forense, con riferimento al recente disegno di legge in tema di violenza di genere e alle sue ricadute processual–penalistiche, ribadisce, come già ampiamente fatto in occasione del D.D.L. c.d. sicurezza, che è totalmente contrario a progetti di riforma ispirati a una visione illiberale del diritto penale, ideati in spregio ai diritti dell’individuo e ai valori della Costituzione e che trasformano il processo in una esecuzione sommaria fin dal momento delle indagini.

Il recente disegno di legge prevede tutta una serie di modifiche che hanno un unico denominatore comune, ossia il ricorso al carcere quale panacea dei mali. Siamo all’ennesima strumentalizzazione della giustizia penale alla ricerca di facile consenso elettorale.

Non può che prendersi le distanze da norme che discriminano in maniera incostituzionale il medesimo delitto in ragione del genere, così come va stigmatizzato l’ennesimo aumento delle pene, l’inclusione tra i reati ostativi dei delitti di maltrattamenti in famiglia e di stalking, l’introduzione di aggravanti, la marginalizzazione   dell’accusato nel processo a vantaggio della persona offesa. Insomma, il diritto penale assume un volto marcatamente repressivo che criminalizza attraverso generalizzazioni l’individuo prima del processo e rende impossibile la difesa di chi è accusato di taluni reati, catalogo sempre in aumento.

Si riafferma con decisione che la prevenzione e la tutela della vittima non può essere affidata all’aumento delle pene o a slogan elettorali applicati al diritto penale. Peraltro, l’inefficacia di tali misure ai fini preventivi è dimostrata dall’aumento dei delitti negli ultimi anni nonostante il c.d Codice Rosso e le altre misure repressive adottate.

Al contempo, mancano seri interventi sul sociale e che diffondano una cultura del rispetto verso la donna e in genere l’altrui persona. Si auspica che lo stesso Governo, il Parlamento e il Presidente della Repubblica pongano rimedio e blocchino una riforma che porterà a gravi ingiustificati sacrifici della libertà dell’innocente e a delineare un processo penale fortemente ingiusto.

Così in una nota l’Organismo Congressuale Forense.


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Cybersecurity in Italia: il nuovo reato di ”estorsione informatica”

Negli ultimi anni, la cybersicurezza ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano, spinta dalla crescente digitalizzazione e dall’aumento degli attacchi informatici. L’Italia si trova ad affrontare una sfida cruciale: proteggere le proprie istituzioni e imprese dagli hacker, investendo in formazione e potenziando le misure di contrasto.

Il quadro allarmante del Rapporto Clusit

L’ultimo Rapporto Clusit ha fornito dati preoccupanti sulla sicurezza informatica, evidenziando un incremento significativo degli attacchi globali. Se nel 2019 si registravano in media 139 attacchi gravi al mese, nel primo semestre del 2024 questo numero è salito a 272. Anche l’Italia non è rimasta immune: nei primi sei mesi del 2024 si sono verificati 124 attacchi informatici gravi, con una crescita del 35% tra il primo e il secondo semestre.

Nel nostro Paese, il 71% degli attacchi ha avuto finalità di cybercrime, un dato in aumento rispetto al 63% del 2023. Preoccupa anche il fatto che un terzo degli attacchi registrati sia riconducibile all’“hacktivism”, ovvero azioni di pirateria informatica con scopi ideologici o politici.

Le vittime non sono solo le grandi istituzioni pubbliche, ma anche le imprese private, spesso prive di adeguate difese. Secondo il Rapporto Clusit, l’80% delle piccole aziende non ha personale specializzato in informatica e si affida a consulenti esterni solo in caso di necessità. Nelle microimprese, il 90% non offre alcuna formazione in materia di cybersecurity ai propri dipendenti.

Le nuove misure legislative: la Legge 90/2024

Il governo italiano ha risposto all’emergenza con la Legge 28 giugno 2024, n. 90, che introduce nuove misure per rafforzare la cybersicurezza nazionale e contrastare i reati informatici. Il provvedimento si divide in due parti: la prima mira a potenziare la resilienza delle pubbliche amministrazioni e del settore finanziario, la seconda si concentra sulla prevenzione e repressione degli attacchi informatici.

Tra le novità più rilevanti spicca l’introduzione del reato di “estorsione informatica”. L’articolo 629 del Codice Penale è stato modificato per punire chi, attraverso accesso abusivo a sistemi informatici, intercettazioni illecite o sabotaggi digitali, costringe qualcuno a compiere o omettere un’azione per ottenere un profitto illecito. Le pene previste vanno dai 6 ai 12 anni di reclusione, con aggravanti fino a 22 anni nei casi più gravi.

Il futuro della cybersicurezza in Italia

L’evoluzione normativa rappresenta un passo avanti, ma non basta. La cybersicurezza richiede investimenti strutturali, formazione continua e una stretta collaborazione tra istituzioni, aziende e mondo accademico. Senza un ecosistema digitale sicuro, l’Italia rischia di restare vulnerabile agli attacchi informatici, con conseguenze economiche e strategiche potenzialmente devastanti.


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Sicurezza aziendale e AI: cresce la richiesta di specialisti contro gli attacchi informatici

L’Associazione Italiana dei Professionisti della Sicurezza Aziendale (AIPSA) lancia l’allarme: le aziende italiane necessitano sempre più di esperti in cybersecurity capaci di sfruttare l’intelligenza artificiale per prevenire attacchi informatici sempre più sofisticati. Il settore della sicurezza informatica sta cambiando volto, con un progressivo allontanamento dal tradizionale esperto in sicurezza IT a favore di specialisti capaci di integrare tecnologie avanzate nei sistemi di difesa aziendali.

A livello normativo, due sono i fronti attivi che le imprese devono affrontare. Dal 28 febbraio, tutte le aziende operanti in settori critici devono completare l’iscrizione alla piattaforma digitale dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale. Inoltre, da ottobre è in vigore il decreto legislativo 138/2024, che recepisce la direttiva europea NIS2 sulla sicurezza dei sistemi informativi. “Il primo scoglio – commenta Alessandro Manfredini, presidente di AIPSA – è far capire all’imprenditore che la sicurezza cyber ha molto a che fare con la difesa della competitività e della capacità di restare sul mercato. Ma non basta tutelarsi da eventuali rischi e minacce: è necessario che anche clienti e fornitori rispettino standard di sicurezza adeguati”.

Un problema chiave resta la carenza di professionisti qualificati nel settore. La formazione diventa quindi un elemento cruciale, su cui AIPSA sta puntando con eventi e corsi di aggiornamento. Nuove figure professionali stanno emergendo, tra cui esperti in ingegneria della cybersecurity e specialisti nell’applicazione dell’AI alla sicurezza. Il settore richiede competenze sempre più multidisciplinari, capaci di adattarsi a un contesto in continua evoluzione.


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Le aziende e l’IA: nuovi uffici e ruoli per la gestione dell’intelligenza artificiale

L’adozione dell’intelligenza artificiale nelle imprese richiede una riorganizzazione strutturale con l’istituzione di nuovi uffici e organi tecnici specializzati. Secondo le “Linee guida per l’adozione dell’IA” dell’AgID, in consultazione pubblica fino al 20 marzo 2025, le aziende dovranno dotarsi di figure professionali dedicate alla gestione e supervisione dei sistemi IA.

Al vertice, il Responsabile dell’IA aziendale coordinerà l’uso delle tecnologie intelligenti, garantendo la conformità normativa e la sicurezza dei processi. Accanto a lui, un ufficio di gestione dati dovrà assicurare il trattamento sicuro delle informazioni, mentre un ufficio di addestramento dell’IA si occuperà della formazione e del miglioramento continuo degli algoritmi.

Un ruolo chiave sarà svolto dall’ufficio di supervisione umana, responsabile del monitoraggio delle decisioni prese dall’IA, con la possibilità di intervenire o interrompere il funzionamento dei sistemi in caso di anomalie. Per proteggere i sistemi da attacchi informatici, le aziende dovranno inoltre istituire un ufficio di cybersicurezza, con esperti dedicati alla protezione delle infrastrutture IA.

Le linee guida dell’AgID sottolineano anche l’importanza di un comitato etico, incaricato di valutare l’impatto sociale e morale delle applicazioni IA, prevenendo eventuali conflitti di interesse. Inoltre, figure come il giurista informatico e l’AI ethicist saranno cruciali per garantire un uso responsabile delle tecnologie, rispettando la privacy e i diritti degli individui.

Questa trasformazione rappresenta una sfida per le imprese, ma anche un’opportunità per innovare in modo consapevole, integrando l’intelligenza artificiale nei processi aziendali con un approccio etico e regolamentato.


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Magistratura, più vincitrici di concorso donne con picchi del 69%

ROMA, 10 marzo 2025 – Una forbice tra il 56% e il 69%; è il range percentuale di donne vincitrici dei concorsi in magistratura banditi tra il 2016 e il 2022, che certifica una presenza femminile prevalente nella professione. I dati, della Direzione generale dei magistrati del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi del Ministero, sono ancora parziali per i concorsi più recenti e in via di espletamento, in particolare quelli banditi con i decreti ministeriali del 9 ottobre 2023, dell’8 aprile 2024 e del 10 dicembre 2024.

La percentuale di vincitrici supera stabilmente quella dei vincitori dal 1996, e raggiunge il picco con il concorso bandito con decreto ministeriale del 19 ottobre 2019: su 209 idonei, sono 145 le donne, pari al 69,3%.

Secondo i dati del Consiglio superiore della magistratura, sui 9.662 magistrati presenti in Italia, inclusi quelli fuori ruolo e i magistrati ordinari in tirocinio, le donne rappresentano il 56.7%. Percentuali simili si registrano sul territorio: le magistrate al Centro, al Nord e al Sud rappresentano rispettivamente il 56%, il 59% e il 58% sul totale in servizio. Tuttavia, se si guarda agli uffici con giurisdizione nazionale (Corte di Cassazione, Direzione e Procura nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Tribunale superiore delle acque pubbliche), il personale femminile di magistratura scende al 37%.

Nei distretti, picchi di presenza di magistrate si registrano a Milano (65%), Napoli (63%), Catanzaro (61%), ma anche a Torino, Sassari, Catania (60 %). Solo nelle tre sedi di Trento, Bolzano e Cagliari i colleghi uomini superano le donne.

Per quanto riguarda i 416 magistrati con incarichi direttivi, 3 su 4 sono uomini. Ma dal 2008 si registra stabilmente una crescente assunzione di funzioni direttive da parte delle donne.

Nel distretto di Napoli si guarda al futuro con la Presidente della Corte d’Appello. “Sicuramente, rispetto a quando sono entrata in magistratura, quella forchetta che viene chiamata gender gap si è assottigliata”, dice Maria Rosaria Covelli, già alla guida dell’Ispettorato generale del Ministero. Che ricorda i passi avanti delle donne verso l’apice: “È stata nominata una donna Presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia – prosegue – e una donna Prima Presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano. Anche nel distretto di Napoli le donne ai vertici degli Uffici giudiziari sono in netta maggioranza”.

Nonostante questi esempi felici, le donne con incarichi direttivi sono ancora troppo poche. “Ancora oggi la maternità o l’assistenza ai familiari in difficoltà vengono considerate un problema per la funzionalità dell’Ufficio”, dice ancora Covelli. “Sul piano dello svolgimento concreto del lavoro, molto è stato fatto anche grazie ai Comitati pari opportunità e alle indicazioni del CSM”.

Molto bisogna ancora fare – conclude la Presidente – per un’autentica e piena parità di genere nel Paese e anche nell’ambito della nostra categoria, per la completa attuazione del secondo comma dell’art.3 della Costituzione”.


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Italia maglia nera in Europa per i debiti commerciali della PA

Si tratta di un risultato di cui non possiamo essere affatto orgogliosi. Tra i 27 Paesi dell’UE, l’Italia presenta lo stock di debiti commerciali in rapporto al Pil più elevato di tutti. Se nel 2023 la nostra Pubblica Amministrazione (PA) ha accumulato mancati pagamenti ai propri fornitori pari a 2,8 punti percentuali di Pil, al secondo posto scorgiamo il Belgio con il 2,7 e al terzo il Lussemburgo con il 2,4. Tra i nostri principali concorrenti commerciali segnaliamo che la Spagna registra una incidenza dello 0,9 per cento del Pil, la Francia dell’1,6 e la Germania dell’1,9. In valore assoluto, i mancati pagamenti della nostra PA ammontano a 58,6 miliardi di euro e sono in costante crescita dal 2020.  La denuncia è sollevata dall’Ufficio studi della CGIA.

  • Persiste l’abuso di posizione dominante

I ritardi/mancati pagamenti della nostra PA sono un malcostume che ci trasciniamo da molti decenni. Va comunque segnalato che negli ultimi anni la situazione è migliorata; le Amministrazioni dello Stato sono diventate più tempestive nel saldare le fatture entro i termini previsti dalla legge. Tuttavia, faticano a smaltire lo stock accumulato negli anni precedenti, penalizzando soprattutto le piccole imprese che, a differenza delle grandi, hanno un potere negoziale molto contenuto. Anzi, spesso sono vittime predestinate dell’abuso della posizione dominante di cui dispongono i dirigenti/funzionari degli organi costituzionali, degli enti, degli istituti, delle autorità e delle fondazioni dello Stato con cui sono costrette a rapportarsi.

  • Nel 2023 non pagate fatture per 10,6 miliardi. Nei primi 6 mesi del 2024 altri 5,8. Colpa del PNRR?

Secondo i dati della Ragioneria Generale dello Stato (RGS), nel 2023, ad esempio, a fronte di quasi 30,5 milioni di fatture ricevute da tutte le nostre Amministrazioni Pubbliche, per un valore economico pari a 185,1 miliardi, l’importo pagato è stato di 174,5 miliardi di euro. Vuol dire che i mancati pagamenti hanno toccato i 10,6 miliardi di euro. Nel 2022, invece, erano stati 9 e nel 2021 8,2. Sebbene, le transazioni commerciali pagate entro i termini siano in aumento, in valore assoluto le cifre rimangono in crescita e spaventosamente elevate. Anche nei primi 6 mesi del 2024, a fronte di 15,3 milioni di fatture ricevute per un importo dovuto di 95 miliardi di euro, entro settembre dello scorso anno ne sono state pagate per un importo di 89,2 miliardi; pertanto non sono state onorate fatture per un importo di 5,8 miliardi di euro[3].  Non è da escludere che con la messa a terra delle opere pubbliche legate al PNRR, la situazione sia destinata a peggiorare. Senza contare che è sempre più diffusa la richiesta, avanzata dai funzionari/dirigenti pubblici alle imprese esecutrici delle opere, di ritardare l’emissione degli stati di avanzamento dei lavori o l’invio delle fatture.

  • Chi ritarda o non paga? Soprattutto lo Stato centrale

Le Amministrazioni pubbliche sono composte dalle Amministrazioni dello Stato, dalle Regioni e le Province autonome, dal Servizio sanitario, dagli Enti locali, dagli Enti pubblici nazionali e da Altri Enti.  Sempre secondo i dati della RGS, nel 2023 tra tutte le divisioni pubbliche lo Stato centrale è quello che ha registrato la performance peggiore. Ha saldato “solo” il 92,8 per cento delle fatture ricevute, non ha pagato 1,4 miliardi di euro e ha onorato gli importi entro i termini solo nel 69,3 per cento del totale.

  • Quasi la metà dei Ministeri è in ritardo

Ancorchè negli ultimi anni la situazione generale stia migliorando, dall’analisi dell’Indice di Tempestività dei Pagamenti (ITP) del 2024 riferito ai ministeri italiani abbiamo notato che 7 su 15 hanno pagato mediamente oltre i termini di legge. La situazione più critica ha interessato il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale che ha pagato con un ritardo medio annuo di 13,13 giorni. Seguono il Ministero della Cultura con 10,94 giorni, il dicastero dell’Interno con 10,71, il Turismo con 10,45, la Salute con 4,51, la Giustizia con 4,06 e le Infrastrutture e i Trasporti con 2,46. Per contro, i dicasteri più efficienti nel pagare sono stati l’Ambiente con 20,91 giorni di anticipo, l’Università e la Ricerca con 15,45 e il Made in Italy con 13,85. Sempre nel 2024, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha pagato con un anticipo medio di 8,48 giorni.

  • Male anche ANSFISA, ANAS ed ARAN

Sempre nel 2024, tra le Amministrazioni centrali che registrano un comportamento non conforme alla legge, segnaliamo, in particolare,  l’ANSFISA che ha onorato le fatture ricevute con 20,64 giorni di ritardo, l’ANAS – che presenta un fatturato di 3,9 miliardi – con 15, l’ARAN con 13,12 e l’ANBSC con 7,41. Infine, è alquanto singolare che un soggetto come GSE Spa non abbia ancora aggiornato il dato medio 2024. Gli ultimi dati resi disponibili da questo gestore, infatti, sono riferiti al III e al II trimestre entrambi del 2024, con l’ITP rispettivamente del +0,54 e del +13,17. Da “deplorare” anche il comportamento tenuto dall’ANCI che nel proprio sito internet ha come ultimo dato disponibile medio annuo quello ascrivibile al 2018 (con 13,16 giorni medi di ritardo).

  • Ma per la Cassazione se la PA non paga non è un problema

Secondo la Corte di Cassazione, il ritardato pagamento della PA rappresenta un evento prevedibile e ricorrente. Pertanto, l’imprenditore che non dispone di liquidità non può non versare le imposte all’erario, imputando questa decisione alla omessa/ritardato pagamento da parte dell’Amministrazione pubblica per cui lavora. Anche nel caso, come quello giudicato dalla Cassazione l’anno scorso, in cui l’azienda interessata operi solo ed esclusivamente per committenti pubblici. Insomma, una sentenza choc che “viola” uno dei principi cardine del nostro stato di diritto: la legge deve essere osservata da tutti, sia dai soggetti privati sia da quelli pubblici.

  • Perché la PA fatica a pagare 

Le principali cause che hanno originato a questa cattiva abitudine che ci trasciniamo da decenni sono le seguenti:

  • la mancanza di liquidità da parte del committente pubblico;
  • i ritardi intenzionali;
  • l’inefficienza di molte amministrazioni a emettere in tempi ragionevolmente brevi i certificati di pagamento;
  • le contestazioni che allungano la liquidazione delle fatture.

A queste cause ne vanno aggiunte almeno altre due che, tra le altre cose, hanno indotto, nel gennaio del 2020, la Corte di Giustizia europea a condannarci. Esse sono:

  • la richiesta, spesso avanzata dalla PA nei confronti degli esecutori delle opere, di ritardare l’emissione degli stati di avanzamento dei lavori o l’invio delle fatture;
  • l’istanza rivolta dall’Amministrazione pubblica al fornitore di accettare, durante la stipula del contratto, tempi di pagamento superiori ai limiti previsti per legge senza l’applicazione degli interessi di mora in caso di ritardo.
  •  Bisogna consentire la compensazione tra debiti fiscali e crediti commerciali

Per risolvere questa annosa questione che sta mettendo a dura prova la tenuta finanziaria di tantissime Pmi, per la CGIA c’è solo una cosa da fare: prevedere per legge la compensazione secca, diretta e universale tra i crediti certi liquidi ed esigibili maturati da una impresa nei confronti della PA e i debiti fiscali e contributivi che la stessa deve onorare all’erario. Grazie a questo automatismo risolveremmo un problema che ci trasciniamo appresso da decenni. Senza liquidità a disposizione, infatti, tanti piccoli imprenditori si trovano in grave difficoltà e in un momento così delicato per l’economia del Paese.


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