Separazione carriere, conto alla rovescia per la riforma: due CSM, una sola Alta Corte e una maggioranza determinata a cambiare

Slitta al 22 luglio il voto finale al Senato sulla riforma della giustizia che introduce la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. La decisione è arrivata dalla conferenza dei capigruppo che ha accolto la proposta del presidente del Senato Ignazio La Russa: cinque giorni in più per completare l’esame dei circa 450 emendamenti ancora sul tavolo, nonostante il ricorso alla tecnica del “canguro” da parte della maggioranza per accelerare i tempi.

«Ci interessa l’appuntamento con la storia, non quello con la cronaca», ha dichiarato il capogruppo di Forza Italia Maurizio Gasparri, a sottolineare la determinazione della maggioranza a portare a termine una riforma definita “costituzionale” e destinata a incidere profondamente sull’assetto della magistratura.

Il cuore della riforma: due CSM e una nuova Alta Corte

Nella giornata di ieri è stato approvato il terzo degli otto articoli che compongono il testo: si tratta del passaggio chiave che prevede l’istituzione di due Consigli superiori della magistratura, uno per i magistrati requirenti e uno per quelli giudicanti, entrambi con componenti sorteggiati. Una soluzione pensata per superare il sistema delle correnti interne alla magistratura, ma che secondo l’opposizione rischia di generare nuovi squilibri e problemi applicativi.

Secondo il Partito Democratico, questa scelta rappresenta un vulnus alla Carta. Il senatore Francesco Giacobbe ha parlato di «riforma che umilia la Costituzione e i suoi equilibri interni», mentre Giuseppe De Cristofaro (AVS) ha denunciato «un disegno complessivo della destra per riscrivere i rapporti tra i poteri dello Stato, indebolendo l’autonomia del potere giudiziario».

Alta Corte disciplinare: il nodo politico

Particolarmente divisivo l’articolo 4, che istituisce un’Alta Corte con funzioni disciplinari, attualmente esercitate dal CSM. Con l’entrata in vigore della riforma, i due nuovi CSM manterranno solo funzioni amministrative, come le nomine e le assegnazioni, mentre ogni intervento sanzionatorio sarà affidato a questo nuovo organo.

«L’Alta Corte è la vendetta del governo contro i magistrati», ha attaccato il senatore del Movimento 5 Stelle Roberto Cataldi, evidenziando come la riforma possa compromettere la capacità della magistratura di esercitare un controllo interno indipendente.

Verso il voto finale

Il calendario prevede che il Senato concluda tra oggi e domani le votazioni sugli emendamenti. Poi, da venerdì, una pausa per il weekend prima della ripresa dei lavori martedì 22 luglio, data fissata per il voto finale sul testo.

Una volta approvato a Palazzo Madama, il disegno di legge passerà all’esame della Camera.


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L’altra bilancia commerciale: gli Stati Uniti incassano in Europa con i servizi, tra big tech e alta finanza

Mentre la retorica politica continua a concentrarsi sul deficit statunitense nei beni, spesso agitato come arma nelle dispute commerciali con Bruxelles, i dati raccontano una storia più complessa. E assai più favorevole agli Stati Uniti.

Nel 2024, a fronte di un disavanzo di 236 miliardi di dollari nell’interscambio di merci con l’Unione Europea, Washington ha registrato un surplus nei servizi di oltre 76 miliardi di dollari, che secondo stime europee sale addirittura a 148 miliardi di euro. Risultato: il disavanzo commerciale complessivo Usa con la UE si riduce a circa 50 miliardi di euro, meno del 3% del volume degli scambi bilaterali.

Una cifra sorprendente, in grado di ridimensionare l’immagine di un’America perdente sul piano commerciale con l’Europa. E che rivela la forza degli Stati Uniti in settori strategici a forte valore aggiunto: tecnologia, finanza, assicurazioni, consulenza e proprietà intellettuale.

Europa, cliente d’oro dei servizi Made in USA

Le grandi aziende americane trovano nel Vecchio continente una miniera di ricavi. Meta ottiene dall’Europa oltre il 17% dei suoi introiti globali. Alphabet, casa madre di Google e YouTube, ha visto crescere del 12,2% i ricavi dalla regione EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa) nel primo semestre 2025. Netflix, pioniere dello streaming, ha incassato 3,4 miliardi di euro nel solo primo trimestre di quest’anno dalla stessa area, con un +15% rispetto al 2024.

Anche i colossi della finanza non sono da meno. Goldman Sachs attribuisce all’EMEA il 23% del suo fatturato. Morgan Stanley ne trae oltre l’11%. JP Morgan non dettaglia più per aree geografiche, ma continua a segnalare «robusti risultati» dall’Europa.

Secondo la BCE, circa un terzo dell’avanzo commerciale europeo nei beni è in realtà generato dalle vendite di filiali europee di aziende statunitensi, che contribuiscono al surplus americano nei servizi.

Il ruolo cruciale dei servizi nell’economia americana

Negli Stati Uniti, i servizi sono il vero motore dell’economia: rappresentano l’84% dell’occupazione e sono la principale fonte di innovazione e crescita. Solo nel 2024, hanno generato un attivo di 293 miliardi di dollari nella bilancia commerciale.

L’Europa rappresenta il 25% di tutto l’interscambio di servizi statunitense, con il 42% su scala globale. Una centralità che supera nettamente quella dell’Asia-Pacifico, del Canada o del Messico.

Il valore delle esportazioni americane verso l’UE è impressionante: 100 miliardi di dollari nei servizi professionali e tecnici, quasi 50 miliardi per la proprietà intellettuale (esclusa l’informazione), oltre 33 miliardi da finanza e assicurazioni, circa 20 miliardi dal comparto viaggi, e più di 16 miliardi dai servizi informativi.

Europa strategica anche nei numeri societari

Secondo l’American Chamber of Commerce presso l’Unione Europea, nel 2024 oltre il 54% dei profitti esteri delle imprese statunitensi è arrivato dall’Europa, per un totale che supera i 300 miliardi di dollari. La metà delle vendite globali delle controllate Usa avviene nel Vecchio continente, dove si concentra anche il 63% degli asset d’oltreconfine.

Relazioni solide, ma non esenti da rischi

Nonostante questi legami profondi, il rischio di tensioni commerciali resta elevato. La retorica protezionista e le minacce di nuovi dazi — come emerse nuovamente con Donald Trump in campagna elettorale — potrebbero incrinare un equilibrio basato su rapporti consolidati e altamente profittevoli per le imprese a stelle e strisce.

Mark Zandi, capo economista di Moody’s, ha recentemente ricordato come «i servizi siano l’ingrediente segreto della crescita americana». E l’Europa, in questo schema, è l’alleato silenzioso ma indispensabile di una macchina economica che sa incassare anche quando sembra perdere.


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Basta accessi “a sorpresa” nelle imprese da parte di Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate: d’ora in avanti, ogni verifica dovrà essere puntualmente motivata. È questa una delle novità principali introdotte dagli emendamenti al decreto fiscale presentati alla Commissione Finanze della Camera dal relatore Vito De Palma (Forza Italia), su cui è atteso oggi il voto definitivo.

Il correttivo – inserito direttamente nello Statuto del contribuente – risponde alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 6 febbraio scorso, che ha condannato l’Italia per le scarse garanzie previste in caso di controlli aziendali. Secondo il nuovo testo, negli atti autorizzativi e nei verbali redatti dagli organi di verifica dovranno essere «espressamente e adeguatamente indicate le circostanze e le condizioni che giustificano l’accesso».

Una risposta a Strasburgo

La modifica normativa mira ad aumentare la trasparenza e la tutela dei contribuenti, stabilendo un principio di proporzionalità già al momento dell’autorizzazione all’accesso. Il contribuente dovrà anche essere informato in anticipo sulle finalità della verifica e potrà avvalersi dell’assistenza di un professionista, esercitando una piena difesa anche in sede giurisdizionale.

L’applicazione della nuova norma sarà però solo “in avanti”: la disposizione si applicherà agli atti emessi dopo l’entrata in vigore della legge di conversione. Tutti i procedimenti già avviati o conclusi continueranno a essere regolati dalla normativa vigente al momento dell’accesso.

Cartelle rottamate, lite estinta dopo la prima rata

Tra le altre misure inserite negli emendamenti compare un’importante novità per il contenzioso fiscale: sarà considerata estinta la lite relativa a cartelle oggetto della cosiddetta rottamazione quater già dopo il pagamento della prima o unica rata, senza attendere il completamento del piano di versamenti fino al 2027.

La misura, esclusa dalla versione pubblicata in Gazzetta Ufficiale, è stata reintrodotta nel testo in conversione anche su sollecitazione del Consiglio superiore della magistratura, nell’ottica di ridurre l’arretrato giudiziario e aiutare la Corte di Cassazione a centrare gli obiettivi previsti dal PNRR.

Forfettario: più flessibilità sulle partecipazioni

Tra i correttivi figura anche una parziale apertura al regime forfettario per coloro che detengono partecipazioni in società semplici. La deroga sarà consentita solo se le attività svolte non sono collegate – né direttamente né indirettamente – a quelle esercitate con la partita Iva individuale, e a condizione che non generino la medesima categoria di reddito.

Altre modifiche in arrivo

Nel pacchetto degli emendamenti già approvati figura inoltre la soppressione del riferimento, considerato ridondante, alle agenzie per il lavoro tra i soggetti esclusi dal reverse charge, la cosiddetta inversione contabile dell’Iva, che resta circoscritta al settore del trasporto merci e dei servizi logistici.

L’iter parlamentare

Con il probabile via libera della Commissione Finanze previsto per oggi, il decreto fiscale approderà in Aula alla Camera la prossima settimana, per poi passare al vaglio del Senato. Sullo sfondo resta anche il nodo della riproposizione del ravvedimento speciale, la sanatoria per i periodi d’imposta pregressi, per chi aderirà al nuovo concordato preventivo biennale 2025-2026.


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Privacy e Intelligenza Artificiale, il Garante lancia l’allarme: “Serve un’etica della tecnica per non diventare schiavi dell’algoritmo”

ROMA – È un bilancio fitto di sfide quello tracciato dal Garante per la Protezione dei Dati Personali nella Relazione annuale 2024, presentata oggi a Montecitorio. A fare da protagonista, come era prevedibile, l’intelligenza artificiale generativa, che nel corso degli ultimi mesi ha radicalmente cambiato non solo le abitudini digitali ma anche il contesto sociale, culturale e politico, ponendo interrogativi inediti sulla tutela della persona.

A sottolinearlo con chiarezza è stato il presidente dell’Autorità, Pasquale Stanzione, che nella Sala della Regina della Camera ha parlato di una “rivoluzione antropologica” innescata dall’IA, avvertendo però dei rischi di affidarsi alla tecnologia in modo acritico. “Serve un’etica degli algoritmi, una ‘algoretica’, capace di governare l’innovazione senza sacrificare i diritti e le libertà individuali”, ha ammonito Stanzione.

L’anno dell’Intelligenza Artificiale

Il 2024 ha rappresentato il definitivo consolidamento dell’intelligenza artificiale generativa in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Dal lavoro al tempo libero, dalla sanità all’informazione, gli algoritmi hanno assunto un ruolo pervasivo, imponendo una riflessione collettiva sulla gestione dei dati personali e sulla sicurezza digitale. Un’esigenza avvertita anche a livello internazionale: il recente G7 a presidenza italiana ha posto proprio la persona umana al centro del dibattito sulle nuove tecnologie.

I numeri di un anno difficile

Sul fronte dei provvedimenti, l’Autorità ha adottato misure incisive. Tra le più rilevanti, la conclusione dell’istruttoria su ChatGPT, con l’imposizione a OpenAI di una sanzione di 15 milioni di euro e l’obbligo di avviare una campagna informativa a tutela degli utenti. Attenzione anche al delicato tema dei dati biometrici: il Garante ha inviato un avvertimento formale al progetto Worldcoin per l’utilizzo della scansione dell’iride in cambio di criptovalute, giudicata priva delle necessarie garanzie e trasparenza.

Emergenze digitali: revenge porn e deep fake

Sempre più grave il fenomeno del revenge porn, con 823 segnalazioni ricevute nel 2024, quasi triplicate rispetto all’anno precedente. In gran parte dei casi l’Autorità è intervenuta per bloccare la diffusione di foto e video compromettenti su piattaforme online. Crescono anche le segnalazioni per deep fake, contenuti falsificati con IA che simulano volti e voci per scopi malevoli.

I minori nel mirino e il telemarketing selvaggio

Prosegue l’impegno per la protezione dei minori online, con una stretta sui controlli relativi all’età di iscrizione ai social network e una campagna informativa contro il ‘sharenting’, la sovraesposizione dei figli in rete da parte dei genitori. Parallelamente, il Garante ha intensificato la lotta al telemarketing aggressivo, imponendo sanzioni pesanti per violazioni della privacy e approvando il nuovo Codice di condotta per le attività di teleselling.

Privacy e informazione: i limiti del diritto di cronaca

Non sono mancati i richiami al mondo dell’informazione. L’Autorità ha censurato ripetutamente le derive di morbosità e spettacolarizzazione nella cronaca di vicende tragiche, richiamando i media al rispetto della dignità e dei dati personali dei soggetti coinvolti.

Una rivoluzione da governare

“La sfida non è l’intelligenza artificiale in sé – ha concluso Stanzione – ma l’uso che se ne farà. Dobbiamo rifiutare l’approccio oracolare e promuovere una governance responsabile della tecnica. L’uomo deve restare al centro del processo di innovazione, perché non diventi prigioniero della potenza che ha generato”.


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Separazioni e prove digitali: quando le chat dell’ex si possono usare in tribunale

La tecnologia entra di diritto nelle aule dei tribunali familiari, e il telefono cellulare è ormai il testimone silenzioso più consultato nei procedimenti di separazione. Sms, chat WhatsApp, registro chiamate e registrazioni audio diventano spesso strumenti per provare relazioni extraconiugali o comportamenti contrari ai doveri coniugali, con ripercussioni sull’addebito della separazione e sull’assegno di mantenimento. Ma quali di queste “prove digitali” possono davvero essere usate in giudizio?

Negli ultimi anni, giudici di merito e Cassazione hanno progressivamente definito i confini tra il diritto alla privacy e quello alla difesa, individuando i casi in cui è lecito utilizzare dati personali del coniuge e quelli in cui, invece, si incorre nel reato di accesso abusivo a sistemi informatici.

Sms letti per caso? Utilizzabili

Un primo principio arriva dal Tribunale di Roma, che con la sentenza n. 6432 del 30 marzo 2016 ha stabilito che non è illecito per il coniuge leggere e poi utilizzare in giudizio sms o chat private trovati casualmente sul cellulare lasciato incustodito in spazi comuni della casa familiare. In un contesto di convivenza, ha osservato il giudice, è normale imbattersi nei dati personali del partner, con un conseguente affievolimento della tutela della riservatezza.

Conversazioni registrate: sì se tra presenti

La Cassazione penale (sentenza n. 7338 del 21 febbraio 2025) ha poi chiarito che anche le registrazioni di colloqui tra presenti eseguite da uno dei partecipanti sono lecite e costituiscono prova documentale valida in giudizio. Basta che la registrazione venga riversata su un supporto e prodotta nel processo per garantire il contraddittorio.

Screenshot e dati sensibili: serve il consenso o la legittimità della raccolta

Sul delicato tema degli screenshot di chat private la Cassazione civile (ordinanza n. 13121 del 12 maggio 2023) ha riconosciuto che i dati personali e sensibili del coniuge possono essere trattati in chiave difensiva nel giudizio di separazione, in forza degli articoli 24 della Costituzione e 51 del Codice penale. È quindi consentito, ad esempio, utilizzare le foto di conversazioni WhatsApp dell’ex se avute in modo legittimo.

Attenzione però a come si acquisiscono

Le cose cambiano se l’acquisizione avviene violando la privacy. Lo ha ribadito la Cassazione civile (ordinanza n. 4530 del 20 febbraio 2025), precisando che non è sufficiente la dichiarazione di un teste che riferisce di un ipotetico libero accesso reciproco ai telefoni tra i coniugi: la legittimità della prova deve essere rigorosamente dimostrata.

Violazione della password? È reato 

La violazione più grave resta quella di accedere al cellulare del coniuge forzando la password per prelevare messaggi o dati riservati. In questo caso si integra il reato previsto dall’articolo 615-ter del Codice penale per accesso abusivo a sistema informatico. Lo ha ribadito la Cassazione penale (sentenza n. 19421 del 23 maggio 2025), condannando chi aveva estrapolato screenshot di chat e registro chiamate dal cellulare della moglie protetto da password per poi depositarli nel giudizio di separazione.

Privacy e difesa: equilibrio delicato

La materia resta delicata e in continua evoluzione. Già nel 2018, il Garante per la protezione dei dati personali aveva aggiornato le regole deontologiche per investigazioni difensive, bilanciando diritto alla privacy e necessità di far valere un diritto in sede giudiziaria. La Cassazione conferma oggi che la difesa non giustifica ogni violazione della sfera privata altrui, e che le prove digitali, pur centrali nei processi di separazione, devono essere raccolte rispettando i limiti di legge.


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Processo tributario, cambia l’attestazione di conformità: non serve più l’originale

Arriva una svolta attesa per il processo tributario telematico: il decreto correttivo n. 81/2025 ha modificato le regole sull’attestazione di conformità delle copie digitali agli atti analogici, alleggerendo una procedura che negli ultimi mesi aveva creato più di un grattacapo a professionisti e uffici giudiziari.

Cosa cambia con la nuova norma

Fino a oggi, i difensori che depositavano atti e documenti nel fascicolo telematico erano obbligati ad attestare la conformità della copia informatica all’originale cartaceo. Una disposizione che, per come formulata dal Dlgs 220/2023, aveva generato non poche difficoltà operative: spesso i clienti trasmettono solo copie, non gli originali, e questo creava il rischio di vedersi dichiarare inutilizzabili i documenti depositati, o peggio, di spingere i professionisti a certificazioni azzardate.

Con il correttivo, in vigore dal 13 giugno 2025, la situazione si semplifica: l’attestazione di conformità dovrà riferirsi non più all’originale, ma al documento analogico detenuto dal difensore. In pratica, il professionista potrà attestare la corrispondenza tra la copia digitale depositata e la fotocopia o la copia informatica ricevuta dal cliente o in suo possesso, senza dover necessariamente risalire al documento originale.

Il testo aggiornato

Il nuovo articolo 25-bis, comma 5-bis, del Dlgs 546/1992 prevede dunque che il giudice tenga conto solo degli atti e documenti presenti nel fascicolo telematico, corredati da attestazione di conformità al documento cartaceo detenuto dal difensore. Un passaggio semplice ma decisivo, destinato a eliminare un nodo pratico che aveva messo in crisi molti studi professionali e rischiava di inceppare il meccanismo del processo tributario digitale.

Le criticità della norma precedente

La disposizione precedente obbligava di fatto i difensori a custodire gli originali cartacei o a ottenere dal cliente copie autenticate, rallentando il flusso delle pratiche e ostacolando il percorso di digitalizzazione. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, in risposta a quesiti ufficiali, aveva già cercato di chiarire l’ambito applicativo della norma, ma i dubbi rimanevano, soprattutto in caso di trasmissione di semplici fotocopie prive di attestazione.

Una modifica di buon senso

La modifica varata con il decreto correttivo è dunque salutata come una scelta di pragmatismo giuridico. Riconosce infatti la realtà quotidiana delle pratiche professionali e consente di attestare la conformità ai documenti effettivamente disponibili presso il difensore.
Da sottolineare che la norma non impone che l’attestazione sia rilasciata per ogni singolo documento, lasciando intendere che sia sufficiente un’unica dichiarazione cumulativa per il deposito di più copie informatiche.


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Solo 250 magistrati per 62mila detenuti. L’Anm lancia l’allarme e chiede rinforzi

Carceri sempre più affollate, personale insufficiente e una macchina giudiziaria penitenziaria in affanno. È la fotografia impietosa scattata dall’Associazione Nazionale Magistrati nell’ultima riunione del Comitato direttivo centrale, con tre documenti che mettono nero su bianco la gravità di una situazione ormai esplosiva.

I numeri di una crisi strutturale

I dati parlano chiaro: appena 250 magistrati di sorveglianza devono gestire una popolazione di oltre 62mila detenuti, di cui più di 46mila in esecuzione di pena. A questi si aggiungono migliaia di soggetti in misura alternativa o con sospensione condizionale, e un carico in crescita per le pene pecuniarie e sostitutive introdotte dalla riforma Cartabia.

Un organico già ridotto che, denuncia l’Anm, è stato escluso dai potenziamenti previsti dal Pnrr, creando una distorsione evidente: «Mentre tribunali e corti d’appello hanno visto aumentare la loro produttività grazie a nuove risorse – si legge nel documento – gli uffici di sorveglianza restano fermi, schiacciati da un carico di lavoro crescente e senza personale sufficiente».

Decreto “Carcere sicuro”: un anno di bilancio negativo

A un anno dall’approvazione del decreto “Carcere sicuro”, voluto dal governo per rafforzare la sicurezza degli istituti e modificare la disciplina della liberazione anticipata, il bilancio è desolante. Secondo l’Anm non solo manca ancora il regolamento attuativo, ma la popolazione detenuta è cresciuta di oltre 1600 unità, mentre non si vedono nuove misure per decongestionare le strutture o percorsi alternativi efficaci.

Nel documento, l’Anm accusa l’esecutivo di «indifferenza di fronte alla sistematica violazione dei diritti umani che si consuma quotidianamente nelle carceri italiane», preferendo rispondere al disagio sociale interno con nuove aggravanti e maggiori pene, piuttosto che con interventi strutturali per sfollare le celle.

Proposta Giachetti: sì, ma con correttivi

L’Anm riconosce alcuni aspetti positivi nella proposta di legge Giachetti, che prevede misure di deflazione carceraria immediate, ma segnala anche criticità rilevanti. La più evidente è l’idea di attribuire ai direttori degli istituti penitenziari il potere di decidere sugli sconti di pena.

Una previsione che, sottolinea l’Anm, entra direttamente nella sfera della libertà personale, materia di stretta competenza della magistratura di sorveglianza, nel rispetto della riserva di giurisdizione prevista dalla Costituzione. «Formule e vagli discrezionali che incidono sulla pena – spiega il documento – non possono essere sottratti alla giurisdizione ordinaria».

La mobilitazione: sciopero della fame e raccolta firme

A rilanciare il tema è anche la mobilitazione avviata da alcune figure di primo piano del mondo forense e giudiziario. È partita una staffetta di sciopero della fame, promossa dall’avvocata Valentina Alberta, già presidente della Camera Penale di Milano, e dal vicesegretario dell’Anm Stefano Celli. Tra gli aderenti figurano l’ex presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia e, il prossimo 17 luglio, anche il segretario generale Rocco Maruotti.

Il presidente dell’Anm Cesare Parodi ha proposto di affiancare alla protesta una raccolta firme nazionale di magistrati, avvocati e cittadini da consegnare al governo in tempi stretti, per pretendere interventi concreti e immediati.

Mattarella: “Un’emergenza sociale”

A certificare il quadro critico è stato anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che lo scorso 30 giugno ha richiamato pubblicamente il Paese sulla condizione delle carceri, definendola «una vera e propria emergenza sociale» e chiedendo con urgenza soluzioni rispettose della dignità umana e della funzione rieducativa della pena.


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L’avvocato può essere duro, ma non offensivo: scattano le sanzioni per gli insulti in atti e udienza

La difesa può essere appassionata, decisa e persino dura nei toni, ma non deve mai scadere nell’insulto personale. A ricordarlo è il Consiglio Nazionale Forense, che con la sentenza n. 23/2025 ha sanzionato un avvocato per aver rivolto alla controparte espressioni gravemente offensive, tanto in sede verbale quanto negli atti difensivi.

La dialettica processuale ha dei limiti

Il principio riaffermato dal CNF è chiaro: la libertà di espressione del difensore, seppur ampia e protetta dal mandato professionale, incontra un limite invalicabile nella tutela della persona del contraddittore. È ammesso che nel confronto processuale possano emergere asprezze di linguaggio e toni accesi, purché essi rimangano confinati alla sfera oggettiva del dibattito e alle questioni strettamente processuali.

Quando, invece, il confronto degenera in attacchi personali, il confine della correttezza deontologica viene superato, e scatta la violazione dell’articolo 52 del Codice Deontologico Forense, che tutela il decoro e la dignità della professione.

Il caso: insulti personali in atti e udienza

Nella vicenda decisa dal CNF, un avvocato aveva apostrofato la controparte con una serie di pesanti epiteti: “sfrontato”, “farneticante”, “proclive a delinquere”, “spregiudicato”, “losca figura”, “arrogante malavitoso” e “malfattore che opera all’insegna del malaffare”. Espressioni gravemente lesive della dignità personale e professionale del soggetto destinatario, utilizzate tanto in udienza quanto nei propri scritti difensivi.

Il Consiglio Nazionale Forense, presieduto in funzione di presidente facente funzioni da Corona e con relatore Brienza, ha ritenuto che tali condotte non solo travalicassero i limiti della dialettica processuale, ma integrassero una violazione disciplinare da sanzionare.

Libertà di difesa sì, aggressione verbale no

La decisione richiama la necessità di mantenere la disputa processuale sul terreno delle argomentazioni giuridiche e dei fatti di causa. L’avvocato è certamente libero di usare anche un linguaggio incisivo e di esprimere valutazioni severe sul comportamento altrui, ma senza mai trasformare il processo in un’arena personale di aggressioni verbali.

Come ha sottolineato il CNF nella motivazione della sentenza, «la crudezza del linguaggio e l’asperità dei toni possono trovare ammissibilità quando limitate alle questioni dibattute e alle tesi contrapposte, ma divengono sanzionabili quando la diatriba assume un contenuto personale e soggettivo, lesivo della dignità del contraddittore e della professione forense».


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Avvocati e Intelligenza Artificiale: opportunità, regole mancanti e una deontologia ancora da scrivere

Con l’arrivo di ChatGPT e delle tecnologie di OpenAI, il mondo delle professioni legali ha iniziato a cambiare pelle. L’Intelligenza Artificiale Generativa è entrata progressivamente negli studi forensi, offrendo strumenti capaci di accelerare ricerche giurisprudenziali, redigere testi e documenti, analizzare grandi volumi di atti e sentenze, ottimizzando il tempo dedicato a compiti ripetitivi e aumentando l’efficienza operativa.

Eppure, in questo scenario di rapida trasformazione, rimane una zona d’ombra non trascurabile: il rapporto tra IA e deontologia forense. Una relazione che, come in passato avvenne per i social network o per la pubblicità legale, fatica a trovare un assetto normativo e culturale condiviso.

Un codice deontologico senza IA

Ad oggi, il Codice Deontologico Forense non contiene alcuna disposizione specifica sull’uso dell’intelligenza artificiale. Una lacuna che pesa, considerando che la professione forense è regolata da principi di correttezza, riservatezza e trasparenza che devono potersi applicare anche alle tecnologie emergenti.

La proposta di riforma dell’ordinamento forense — il disegno di legge del 24 aprile 2025, prossimo a entrare nell’iter parlamentare — non colma questa mancanza. L’unico passaggio dedicato alla tecnologia è contenuto nell’articolo 67, comma 1, lettera f), punto 7, dove si affida al Consiglio Nazionale Forense il compito di disciplinare la formazione sull’uso di strumenti digitali e di Intelligenza Artificiale. Un richiamo generico e marginale che, per ora, non affronta l’urgenza di regolamentare un fenomeno destinato a incidere profondamente sul modo di esercitare la professione.

Un’occasione ancora mancata

L’assenza di un quadro organico sul piano deontologico si traduce in un vuoto di regole chiare su cosa sia lecito e corretto fare con l’IA nell’ambito forense. Eppure, la questione non è di poco conto: basti pensare al ruolo della tecnologia nel rapporto fiduciario tra avvocato e cliente o alla gestione riservata delle informazioni.

Per ora, la risposta più concreta arriva dal Disegno di Legge italiano sull’Intelligenza Artificiale, elaborato in scia all’AI Act europeo. All’articolo 13, il testo stabilisce un principio importante: l’IA potrà essere utilizzata solo per attività di supporto e mai per sostituire l’intelletto umano nell’esercizio della professione. Inoltre, introduce un obbligo specifico a carico degli avvocati: quello di informare sempre il cliente qualora intendano avvalersi di sistemi di intelligenza artificiale nell’esecuzione del mandato.

Trasparenza e competenza al centro

Questo principio risponde alla natura fiduciaria del rapporto tra avvocato e assistito e richiama i valori fondanti del Codice Deontologico, come la trasparenza, la competenza e la correttezza dell’informazione. Proprio per questo, potrebbe essere buona prassi per gli studi legali aggiornare già oggi i modelli di mandato, inserendo espliciti riferimenti all’eventuale uso di strumenti di intelligenza artificiale.

Il DDL prevede inoltre che gli Ordini professionali si facciano carico di promuovere percorsi formativi dedicati, con l’obiettivo di diffondere una cultura giuridica consapevole e critica sull’impiego di queste tecnologie.

IA e professione forense: il futuro si scrive ora

Se da una parte la giustizia digitale avanza e l’intelligenza artificiale entra progressivamente nel lavoro quotidiano degli avvocati, dall’altra la normativa italiana sembra ancora impreparata a gestire in modo organico e strutturato questa trasformazione.

Serve più di un generico richiamo alla formazione. Occorre una riflessione deontologica approfondita che tuteli il cliente, garantisca la correttezza professionale e sappia tracciare confini chiari tra ciò che la macchina può fare e ciò che deve restare prerogativa insostituibile dell’intelligenza e della responsabilità umana.

Un’occasione che il legislatore e la professione forense hanno ancora il tempo di cogliere — prima che l’intelligenza artificiale sia davvero onnipresente.


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Minorenni a giudizio, la Cassazione fa chiarezza: no all’obbligo di accertamento della personalità per il rito immediato

Una nuova pronuncia della Corte di Cassazione contribuisce a definire i confini procedurali nel processo penale minorile, distinguendo con nettezza tra i presupposti richiesti per il giudizio immediato e quelli per il giudizio direttissimo a carico di imputati minorenni. Con la sentenza n. 25577/2025, la Suprema Corte ha ribadito che nel rito immediato non è necessario un preventivo accertamento sulla personalità del minore, purché venga comunque valutato se il procedimento possa arrecare un grave pregiudizio alle esigenze educative del ragazzo.

Il nodo interpretativo

La questione è sorta a seguito del rigetto, da parte del Gip, di una richiesta di giudizio immediato avanzata dal pubblico ministero nei confronti di un minorenne. Secondo il giudice, il Pm avrebbe dovuto prima svolgere gli accertamenti previsti dall’articolo 9 del DPR 448/1988, norma che impone di raccogliere informazioni sulla personalità, le condizioni familiari e sociali del minore per verificarne imputabilità e responsabilità.

Tuttavia, come precisa la Cassazione, questo adempimento riguarda esclusivamente il giudizio direttissimo e non il rito immediato, che impone un diverso tipo di verifica: accertare che la celebrazione del processo in forma accelerata non comprometta gravemente le esigenze educative del minore, come stabilito dall’articolo 25, comma 2-ter, del codice di procedura penale minorile.

La decisione della Suprema Corte

La sentenza chiarisce dunque che non è errata la decisione con cui il Gip, pur rigettando l’istanza di giudizio immediato, lo abbia fatto non per l’omessa valutazione della personalità del minore, ma per la mancanza della verifica, invece necessaria, sull’eventuale pregiudizio alle esigenze educative.

In questo senso, il diniego non è abnorme: né sotto il profilo strutturale, perché il controllo sull’ammissibilità dell’istanza di rito immediato rientra nelle prerogative del giudice per le indagini preliminari, né funzionale, poiché non blocca il procedimento né costringe all’adozione di un atto nullo.

Il ruolo del pubblico ministero

Pur non essendo obbligato, in sede di richiesta di giudizio immediato, a svolgere gli accertamenti di cui all’articolo 9 del DPR 448/1988, il pubblico ministero potrà comunque effettuarli nell’interesse del minore e dell’effettiva tutela delle sue condizioni personali e sociali. In ogni caso, potrà ripresentare l’istanza di giudizio immediato integrandola con la valutazione prescritta dall’articolo 25, comma 2-ter, relativa all’impatto del processo sulle esigenze educative del ragazzo.


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