Retribuzioni pubbliche alla prova della trasparenza: chi teme i dati?

Con oltre tre milioni di dipendenti, la pubblica amministrazione italiana si configura come la più grande impresa del Paese. Di questi lavoratori, quasi il 60% sono donne, eppure solo il 33,8% ricopre posizioni dirigenziali. Una sproporzione evidente, che riflette un divario di genere ancora radicato nel tessuto sociale e culturale del Paese.

Antonio Naddeo, presidente dell’Aran – l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni – offre una riflessione puntuale su questo squilibrio. A suo avviso, la spiegazione va cercata in un retaggio culturale che ha influenzato per anni le scelte formative e professionali tra uomini e donne. Tuttavia, qualcosa starebbe cambiando: si registra infatti una crescente partecipazione femminile ai concorsi pubblici e, secondo Naddeo, già nei prossimi cinque o sei anni si potrebbero osservare trasformazioni significative nella composizione delle posizioni apicali.

Prendendo ad esempio la scuola e la sanità, due settori storicamente a prevalenza femminile, Naddeo evidenzia come la scelta professionale sia spesso condizionata dalla presunta maggiore compatibilità con i ritmi della vita familiare. Uno stereotipo, questo, che però si va lentamente sgretolando.

Un passaggio centrale dell’intervista al Presidente riguarda l’imminente recepimento della direttiva europea sulla trasparenza retributiva e il contrasto al gender pay gap. Naddeo ritiene che il settore pubblico sia avvantaggiato rispetto al privato, anche grazie al percorso di “amministrazione trasparente” avviato da anni. Tuttavia, sottolinea come sarà cruciale evitare l’aggravamento degli adempimenti e giocare d’anticipo, senza attendere gli ultimi momenti per l’applicazione.

Determinante sarà il parere del Garante della privacy, che dovrà stabilire il perimetro della trasparenza: se le retribuzioni dovranno essere pubblicate integralmente online, con nomi completi o solo con mansioni e iniziali, e come trattare i dati in modo che siano significativi ma rispettosi della riservatezza. Naddeo sottolinea come, ad esempio, pubblicare solo l’ammontare della retribuzione non sia sufficiente: servono anche dati sull’orario di lavoro, per permettere un confronto equo e coerente.

Infine, secondo il presidente dell’Aran, il recepimento della direttiva rappresenta un’occasione per aprire un confronto strutturato con le parti sociali. Non si dovrebbe ridurre il tutto a un semplice obbligo normativo, ma trasformarlo in un’opportunità di crescita e autoanalisi del mondo del lavoro pubblico e privato. Solo così si potrà colmare davvero il divario di genere e costruire un’amministrazione moderna e inclusiva.


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ANM: “I piccoli tribunali danneggiano la giustizia”

ROMA, 23 luglio –

“Riaprire i piccoli tribunali significa adottare logiche di consenso clientelari e danneggiare ancora una volta l’efficienza della giustizia. La decisione del governo di riaprire le sezioni distaccate già soppresse nel 2012, è disarmante. Mentre inquieta l’Intenzione di aprire un tribunale – Bassano del Grappa – dinanzi alla cui incomprensibile istituzione gli stessi avvocati di Vicenza avevano chiesto di soprassedere”.

Lo afferma la Giunta dell’Anm.“Dobbiamo denunciare – aggiunge la nota –  l’ennesimo spreco di risorse, che vanifica, come in un surreale gioco dell’oca, tutto lo sforzo profuso dai magistrati per offrire ai cittadini un servizio quanto più possibile efficiente e razionale e soprattutto rapido. Questa scelta rallenterà i tempi della giustizia e danneggerà la fiducia dei cittadini nelle istituzioni”.


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Esame di abilitazione forense, pubblicato il bando per la sessione 2025

ROMA – Il Ministero della Giustizia ha ufficialmente pubblicato il bando di esame per l’abilitazione all’esercizio della professione forense – sessione 2025, come comunicato nella Gazzetta Ufficiale – IV Serie Speciale Concorsi ed Esami n. 56 del 18 luglio 2025. Il decreto ministeriale che indice la sessione porta la data del 30 giugno 2025 e conferma l’impianto ormai consolidato della prova di Stato per diventare avvocati, articolata in una prova scritta e in una prova orale.

Domande online dal 1° ottobre all’11 novembre

La presentazione della domanda di partecipazione sarà possibile esclusivamente in via telematica attraverso il sito del Ministero della Giustizia (www.giustizia.it) a partire dal 1° ottobre 2025 e fino all’11 novembre 2025. Per accedere alla piattaforma sarà necessario autenticarsi tramite SPID di livello 2, Carta d’identità elettronica (CIE) o Carta Nazionale dei Servizi (CNS).
È previsto il pagamento di un contributo di partecipazione pari a 78,91 euro, da effettuarsi tramite la piattaforma PagoPA.

La prova scritta: 11 dicembre 2025

La prova scritta unica si svolgerà giovedì 11 dicembre 2025 alle ore 9.00 presso le sedi delle Corti d’Appello indicate nel bando, tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Firenze e molte altre.
I candidati dovranno redigere un atto giudiziario su traccia ministeriale in una materia a scelta tra diritto civile, penale o amministrativo. L’elaborato mira a verificare la capacità argomentativa e tecnica nella redazione di atti tipici della professione forense.

La prova orale: tre fasi e focus sull’etica professionale

La prova orale si articolerà in tre momenti distinti:

  1. Discussione di un caso pratico, in una materia scelta dal candidato;
  2. Colloquio su tre materie giuridiche, di cui almeno una processuale;
  3. Domande sull’ordinamento forense, con particolare attenzione ai doveri deontologici e alla funzione sociale dell’avvocato.

Requisiti di ammissione

Possono accedere all’esame i praticanti che abbiano completato la pratica forense entro il 10 novembre 2025. È ammessa anche la candidatura di coloro che prevedano di completarla entro tale termine, a condizione di presentare apposita dichiarazione sostitutiva.

Misure per disabilità e DSA

Il bando prevede misure di sostegno specifiche per candidati con disabilità o disturbi specifici dell’apprendimento (DSA). Tra queste:

  • concessione di tempi aggiuntivi per lo svolgimento delle prove;
  • strumenti compensativi individuali;
  • supporti personalizzati, sia per la prova scritta che per quella orale.

Per ulteriori dettagli, l’intero testo del bando è consultabile nella sezione dedicata del sito del Ministero della Giustizia. Le informazioni ufficiali saranno costantemente aggiornate attraverso i canali istituzionali.


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Giustizia, la riforma approda quindi al referendum nel 2026

ROMA – Sarà il popolo, nella primavera del 2026, a dire l’ultima parola sulla riforma costituzionale della giustizia. Dopo l’approvazione al Senato della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, il disegno di legge proseguirà il suo iter con due ulteriori passaggi parlamentari, ma con ogni probabilità non raggiungerà la soglia dei due terzi dei voti richiesta per evitare il referendum. Ed è proprio questo, secondo molti osservatori, l’esito a cui la maggioranza punta da tempo: un referendum confermativo senza quorum, dove a decidere sarà anche una eventuale minoranza attiva di elettori.

“Un passo importante verso un impegno preso con gli italiani”, ha dichiarato la premier Giorgia Meloni commentando il voto di Palazzo Madama. Ma sotto l’apparente entusiasmo, serpeggiano incertezze e criticità: non solo per il contenuto della riforma, ma per la dinamica che rischia di legittimarla con una partecipazione elettorale limitata. In assenza di quorum, sarà sufficiente un’affluenza anche molto bassa per rendere valida la consultazione. Ed è già alto il rischio che a prevalere siano le posizioni più polarizzate.

Il cuore del conflitto: non solo le carriere separate

Sebbene il dibattito pubblico si sia concentrato soprattutto sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri – misura interpretata da molti come un tentativo di indebolire l’autonomia della magistratura requirente – la parte più controversa della riforma, secondo gli stessi magistrati, riguarda la ristrutturazione del Consiglio superiore della magistratura (Csm).

Lo ha denunciato anche Cesare Parodi, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, sottolineando che la previsione di un doppio Csm, con membri selezionati anche per sorteggio, potrebbe togliere garanzie ai cittadini e non riuscire affatto a eliminare il rischio di nuovi correntismi. “L’autogoverno – ha ricordato Parodi – non serve a proteggere i magistrati, ma a garantire un sistema che funzioni. E questa riforma rischia di indebolirne l’essenza”.

Il governo, invece, rivendica la necessità del sorteggio come unico mezzo per spezzare l’influenza delle correnti interne alla magistratura, che negli anni hanno eroso la credibilità e l’indipendenza percepita dell’organo di autogoverno.

Tajani e il richiamo a Berlusconi: strategia o boomerang?

Il vicepremier Antonio Tajani ha dichiarato che con questo progetto si realizza “un obiettivo storico di Silvio Berlusconi”, rivendicando con forza l’impronta politica della riforma. Ma proprio questo richiamo rischia di inasprire ulteriormente il fronte critico. Per molti osservatori, l’identificazione del provvedimento con l’eredità berlusconiana aumenta la diffidenza di una parte del Paese e rafforza l’opposizione della magistratura.

Come ha sottolineato Dario Franceschini (Pd), la scelta della maggioranza potrebbe rivelarsi “un boomerang”. Il referendum, infatti, cristallizza il dibattito su un tema altamente tecnico e delicato in una contrapposizione da campagna elettorale, dove vincono le semplificazioni e le bandiere ideologiche, non sempre le argomentazioni ponderate.

Un paese diviso sulla giustizia

La riforma della giustizia è rimasta l’unica grande bandiera riformatrice del governo ancora in campo. Ma rischia di diventare un terreno di divisione nazionale, proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di consenso largo su un tema fondamentale per il funzionamento dello Stato. L’alternativa, temono in molti, è che a decidere sul futuro della giustizia italiana sia una minoranza politicamente motivata, mentre la maggioranza silenziosa si tiene alla larga dalle urne.


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Via libera al piano carceri: 10.000 detenuti in uscita anticipata e quasi 10.000 nuovi posti entro il 2027

ROMA – Il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo piano carceri, un intervento strutturale e normativo per fronteggiare l’emergenza cronica del sovraffollamento penitenziario. L’obiettivo dichiarato del governo è duplice: ampliare la capienza delle strutture detentive e prevedere forme di detenzione alternativa per alcune categorie di detenuti, in primis tossicodipendenti e alcoldipendenti.

Il piano, presentato dai ministri Carlo Nordio e Matteo Salvini, prevede un investimento complessivo di 758 milioni di euro, di cui 335 già stanziati dal Ministero delle Infrastrutture. Gli interventi consentiranno la realizzazione di 9.696 nuovi posti letto entro il 2027, distribuiti in tre fasi: 1.472 nel 2025, 5.914 nel 2026 e 2.310 nel 2027. A questi potranno aggiungersi ulteriori 5.000 posti nel quinquennio successivo, nel tentativo di colmare un deficit strutturale stimato in almeno 15.000 posti disponibili nei 207 istituti italiani.

Nordio: “No alla liberazione automatica. Ma la detenzione va resa umana”

«Non chiamatelo svuotacarceri», ha precisato il Guardasigilli Nordio in conferenza stampa, respingendo con forza ogni parallelismo con provvedimenti passati di amnistia mascherata. Eppure, il piano prevede comunque una possibile uscita anticipata per circa 10.000 detenuti: si tratta di soggetti prossimi alla fine pena, che abbiano già presentato richiesta di liberazione anticipata e che risultino in possesso dei requisiti previsti dalla legge. Tuttavia, lo stesso Nordio ha evidenziato le criticità degli uffici di sorveglianza, spesso sottodimensionati e non in grado di evadere tempestivamente le istanze.

Il ministro ha ribadito la centralità della funzione rieducativa della pena, ricordando che oltre il 30% dei detenuti è tossicodipendente. Per loro, il piano prevede la possibilità di scontare la pena in comunità terapeutiche, purché non si tratti di autori di reati gravi e solo una volta nell’arco della carriera detentiva. Al momento, le risorse a disposizione permetterebbero di coprire solo 1.000 ingressi in comunità, ma, ha osservato Nordio, “sarei felice di dover aumentare i fondi, vorrebbe dire che possiamo curare più persone”.

Per il ministro, si tratta di una questione morale e civile: “La nostra coscienza si ribella di fronte a condizioni detentive disumane. Non possiamo accettare che la pena equivalga al degrado”.

Nuove strutture, più personale e maggiori diritti

Accanto agli interventi infrastrutturali, il piano prevede anche un nuovo istituto penitenziario: sarà costruito a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, a distanza di 14 anni dall’ultima inaugurazione carceraria. Sul fronte del personale, la premier Giorgia Meloni ha annunciato 1.000 nuove assunzioni nella polizia penitenziaria, ribadendo l’impegno del governo per una giustizia “più equa e credibile”.

Verranno inoltre aumentati i colloqui per i detenuti, che passeranno da uno a sei al mese, e raddoppiate le telefonate mensili per chi sconta pene per reati gravi, da due a quattro. Un segnale, secondo Nordio, della volontà di umanizzare la detenzione senza indebolire la sicurezza.

Meloni: “Adeguiamo le carceri, non i reati”

In serata, la presidente del Consiglio ha rilanciato il messaggio politico del piano: “In passato si è adeguato il numero dei reati alla capienza delle carceri. Noi invece crediamo che uno Stato giusto debba fare il contrario: adeguare le strutture alle esigenze della giustizia. È questo – ha concluso – che garantisce la certezza della pena”.

Le sfide che restano

Nonostante l’entità degli interventi annunciati, molti osservatori sottolineano che il piano non risolverà nel breve termine il problema del sovraffollamento, definito “insostenibile” dallo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La realizzazione dei posti letto richiederà anni e l’effettiva implementazione delle misure alternative dipenderà anche dalla disponibilità delle strutture territoriali.


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La Consulta conferma: l’assegno familiare spetta anche in caso di convivenza di fatto

ROMA – La convivenza di fatto non fa venire meno il diritto all’assegno per il nucleo familiare (Anf). Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 120, depositata oggi, dichiarando infondate le questioni di legittimità sollevate dalla Corte d’appello di Venezia in merito all’articolo 2 del D.P.R. n. 797 del 1955, che disciplina l’accesso al beneficio.

Il caso era nato dal dubbio di costituzionalità circa la presunta disparità di trattamento tra coniugi e conviventi del datore di lavoro: mentre la norma esclude espressamente il diritto all’assegno per il coniuge del datore, non contempla un’analoga esclusione nel caso di convivenza di fatto tra datore e lavoratore subordinato. Secondo i giudici remittenti, tale differenza appariva in contrasto con i principi di uguaglianza e tutela della famiglia sanciti dagli articoli 3 e 38 della Costituzione.

Nessuna violazione della Costituzione

La Consulta, tuttavia, ha respinto le censure. La ratio della norma – spiega la Corte – è quella di evitare che il beneficio economico possa essere erogato a nuclei familiari in cui sia presente il datore di lavoro stesso, configurando una forma indebita di “autofinanziamento”. In questo contesto, l’esclusione riguarda unicamente i coniugi del datore di lavoro e non può essere automaticamente estesa ai conviventi di fatto.

Il giudizio della Corte si fonda su una lettura sistematica della normativa vigente. In base all’articolo 2, comma 6, del decreto-legge n. 69 del 1988, il nucleo familiare ai fini dell’Anf è composto da coniuge e figli, ma non include i conviventi di fatto, a meno che non sia stato stipulato un contratto di convivenza ai sensi della legge n. 76 del 2016 (legge Cirinnà).

Convivenza di fatto: rilevanza solo in presenza di contratto

Pertanto, in assenza di un contratto di convivenza, la figura del convivente non assume rilievo ai fini né della concessione né dell’esclusione dell’assegno familiare. Da ciò deriva, secondo la Corte, una coerenza interna della disciplina che rende infondata ogni accusa di irragionevolezza o disparità di trattamento.

“La normativa – afferma la sentenza – risulta armonica, in quanto la mancata considerazione della convivenza sia ai fini dell’attribuzione del beneficio, sia ai fini dell’esclusione dallo stesso, rispetta il principio di eguaglianza formale”.

Un principio confermato

Con questa pronuncia, la Corte costituzionale conferma dunque la solidità del quadro normativo attuale in materia di Anf, che continua a tutelare il lavoratore subordinato convivente di fatto, senza configurare discriminazioni arbitrarie. Resta invece escluso dal beneficio chi si trovi in rapporto di coniugio con il datore di lavoro, nel rispetto di una logica preventiva contro abusi e conflitti di interesse.


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Italiani risparmiatori da primato: mai così tanti a pianificare il futuro

MILANO – Cresce la quota degli italiani che risparmiano con regolarità, toccando i livelli più alti dal 2000. Secondo l’ultima edizione del Rapporto sul Risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani, elaborato da Intesa Sanpaolo e Centro Einaudi, ben il 58% della popolazione dichiara di mettere da parte risorse economiche: un dato che si traduce in circa 500mila famiglie entrate nella platea dei risparmiatori solo nell’ultimo anno.

A trainare questo fenomeno, spiega Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo, è una maggiore soddisfazione per il proprio reddito – che in media si attesta a 2.552 euro netti al mese – ma anche una crescente cultura della pianificazione. “Ci sono buone notizie”, conferma Giuseppe Russo, direttore del Centro Einaudi: “Non si risparmia più soltanto per timore dell’imprevisto, ma per obiettivi concreti e di lungo periodo”.

Una nuova consapevolezza

Se il 36% degli intervistati continua a vedere nel risparmio una misura precauzionale per fronteggiare eventuali difficoltà, si fa largo un approccio più “intenzionale”: ben il 38% accantona denaro con uno scopo definito, come l’acquisto della casa, l’istruzione dei figli o la tutela nella terza età.

In questo quadro, il tema previdenziale diventa sempre più centrale. Il timore di una pensione inadeguata è condiviso da ampie fasce della popolazione, tanto da configurarsi come una vera e propria “preoccupazione generazionale”. Tuttavia, solo il 24,5% del campione risulta aver sottoscritto una forma di previdenza integrativa. Un dato in crescita rispetto al passato, ma ancora troppo basso rispetto alla percezione del rischio.

La centralità della casa e il ruolo degli over 60

L’immobile di proprietà si conferma l’asset fondamentale del risparmio italiano. Non solo tra i giovani, ma anche tra gli over 60 – la cosiddetta “silver age” – che il rapporto descrive come economicamente attivi, centrali nel sistema di welfare familiare e, al tempo stesso, impegnati a lasciare un’eredità tangibile. Per il 70% di loro “è fondamentale lasciare almeno la casa ai figli”.

Nonostante l’avversione al rischio persista, emergono segnali di dinamismo anche nella sfera degli investimenti. Le obbligazioni mantengono il primato, mentre torna a crescere il risparmio gestito. La Borsa resta però una nicchia: meno del 5% degli italiani ha effettuato operazioni azionarie negli ultimi dodici mesi.

Risparmio abbondante, investimenti deboli

Il presidente del Centro Einaudi, Giuseppe Lavazza, definisce il risparmio italiano “una grande virtù che si va consolidando”. Ma l’enorme “giacimento di ricchezza” – come lo definisce Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo – continua a non essere sfruttato appieno. Secondo De Felice, in Europa il divario tra risparmio e investimenti è di 543 miliardi di euro l’anno, mentre per l’Italia il gap medio annuo è di 43 miliardi.

Una parte consistente di questo risparmio finisce all’estero: “Ogni anno – osserva Gros-Pietro – circa 300 miliardi di euro prendono la via degli Stati Uniti”. Di qui l’appello, condiviso da tutti i principali osservatori economici, a completare l’integrazione del mercato europeo dei capitali per trattenere e valorizzare le risorse finanziarie generate internamente.


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Separazione delle carriere, via libera del Senato alla riforma costituzionale

Con 106 voti favorevoli, 61 contrari e 11 astenuti, il Senato ha approvato in seconda lettura il disegno di legge costituzionale per la separazione delle carriere dei magistrati requirenti e giudicanti, dando così nuovo slancio alla riforma dell’ordinamento giudiziario che modifica profondamente il Titolo IV della Costituzione. Il provvedimento, già approvato dalla Camera, dovrà tornare a Montecitorio per la terza delle quattro letture previste.

Nel corso della seduta, non sono mancati momenti di forte tensione politica. Il Movimento 5 Stelle ha inscenato una protesta sollevando cartelli con le immagini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino accostate, in contrasto, a quelle di Licio Gelli e Silvio Berlusconi. “Non nel loro nome”, si leggeva sui cartelli gialli sotto i volti dei due magistrati uccisi dalla mafia, mentre la scritta nera “nel loro” campeggiava accanto alle immagini dei simboli della P2 e del fondatore di Forza Italia, a sottolineare l’accusa al centrodestra di strumentalizzare l’eredità morale dell’antimafia.

Anche il Partito Democratico ha manifestato il proprio dissenso in modo simbolico, mostrando nell’emiciclo una copia della Costituzione capovolta, per denunciare – nelle parole del capogruppo Francesco Boccia – una riforma che “sovverte l’equilibrio dei poteri”.

Durissimo il giudizio del leader del M5s, Giuseppe Conte: “Hanno in testa un disegno ben chiaro: pubblici ministeri trasformati in superpoliziotti sotto il controllo del Ministro della Giustizia di turno, meno garanzie per i cittadini, più impunità per i potenti. È una giustizia su misura per chi ha potere: ingiustizia è fatta”.

Di segno opposto le reazioni della maggioranza. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in un messaggio su X, ha rivendicato con soddisfazione il risultato: “L’approvazione al Senato segna un passo importante verso un impegno preso con gli italiani. Il percorso non è ancora concluso, ma confermiamo la nostra determinazione nel dare all’Italia un sistema giudiziario più efficiente, equo e trasparente”.

Ancora più esplicito il vicepremier e leader di Forza Italia, Antonio Tajani, che ha definito il voto “una giornata storica” per il Paese: “Si realizza il sogno di Berlusconi”, ha dichiarato ai cronisti.

I contenuti della riforma

Il disegno di legge introduce una netta separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, istituendo due distinti Consigli superiori della magistratura: uno per la magistratura giudicante e uno per quella requirente. Entrambi saranno presieduti dal Presidente della Repubblica e includeranno, come membri di diritto, rispettivamente il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione.

I restanti componenti saranno sorteggiati per due terzi tra i magistrati e per un terzo da un elenco di professori universitari e avvocati redatto dal Parlamento in seduta comune. I vicepresidenti di ciascun Consiglio saranno scelti tra i membri provenienti da quest’ultimo elenco.

Tra le novità più rilevanti anche l’introduzione dell’Alta Corte disciplinare, organo indipendente per la responsabilità disciplinare dei magistrati. Sarà composta da 15 membri: tre nominati dal Presidente della Repubblica, tre sorteggiati da un elenco parlamentare, sei scelti tra magistrati giudicanti e tre tra quelli requirenti, tutti in possesso di specifici requisiti di professionalità.

Un percorso ancora lungo

La riforma, voluta con forza dalla maggioranza di governo, deve ora affrontare le due letture finali previste dall’art. 138 della Costituzione. Se il testo dovesse essere approvato con la stessa maggioranza semplice nelle successive votazioni, potrebbe comunque essere sottoposto a referendum qualora ne facciano richiesta un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.


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Contributo unificato: nessun obbligo per il difensore di anticipare le spese processuali del cliente

Il mancato versamento del contributo unificato all’atto dell’iscrizione a ruolo della causa non può essere automaticamente imputato all’avvocato difensore. Lo ha stabilito il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 410/2024 depositata il 16 giugno 2025, accogliendo il ricorso di un professionista precedentemente sanzionato dal Consiglio distrettuale di disciplina per non aver provveduto al pagamento del contributo in ben 126 procedimenti.

Il caso: la censura e il ricorso

Il procedimento disciplinare aveva portato all’irrogazione della censura nei confronti del legale, colpevole – secondo l’organo territoriale – di aver omesso il versamento del contributo unificato, compromettendo l’attività degli uffici giudiziari e ledendo, in prospettiva, il decoro della categoria.

L’avvocato sanzionato si era difeso sostenendo che i clienti coinvolti non godevano del patrocinio a spese dello Stato e non erano in grado di sostenere le spese processuali, versando in una condizione economica già gravemente compromessa da mutui e finanziamenti arretrati. L’obbligo del versamento, sosteneva il ricorrente, non può essere trasferito sul difensore, tanto meno quando la condizione economica dei clienti rendeva impraticabile la contribuzione.

Il principio affermato dal CNF

Il Consiglio Nazionale Forense ha accolto il ricorso, precisando che la responsabilità per il mancato pagamento del contributo unificato non ricade sull’avvocato, il quale non è solidalmente obbligato nei confronti dell’erario. L’eventuale omissione non può quindi integrare, di per sé, un illecito disciplinare, a meno che non siano provate condotte ulteriori di scarsa correttezza o mala fede.

Secondo il CNF, la condotta del legale non viola i doveri di lealtà o correttezza, né può essere interpretata come lesiva dell’immagine dell’intera categoria. Il fatto che altri professionisti scelgano di anticipare il contributo non crea un obbligo generalizzato o un parametro deontologico, tanto più in presenza di clienti privi di mezzi e in assenza di disposizioni normative che impongano al difensore l’anticipazione delle spese.

L’importanza della corretta imputazione dell’infrazione

Al centro della decisione c’è la corretta attribuzione soggettiva della violazione: l’omesso pagamento è, infatti, un’infrazione riferibile al cliente e non al professionista incaricato, a meno che quest’ultimo non si sia assunto esplicitamente l’onere economico o abbia agito con dolo o colpa grave. Il CNF ha inoltre sottolineato che non può essere costruita una responsabilità deontologica per il solo fatto di aver accettato il mandato conoscendo la precarietà economica del cliente, in assenza di condotte elusive o scorrette.

Le ricadute sistemiche

La pronuncia si inserisce nel più ampio dibattito sull’equilibrio tra diritto di difesa e accesso alla giustizia, da un lato, e obblighi contributivi dall’altro. In particolare, evidenzia la necessità di evitare che l’avvocato venga surrettiziamente trasformato in garante fiscale del cliente, soprattutto in assenza di strumenti efficaci di tutela del credito professionale.

Il CNF ribadisce così un principio fondamentale: l’avvocato assiste, non sostituisce il cliente nei rapporti con l’amministrazione tributaria. E ogni forma di anticipazione delle spese resta una scelta personale, mai un obbligo deontologico.


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Divieto di sosta e responsabilità penale: la Cassazione chiarisce i criteri di accertamento causale

Non sempre lasciare il veicolo in sosta vietata si traduce in una semplice multa. In determinate circostanze, può comportare una responsabilità penale per lesioni stradali gravi, soprattutto se da quella sosta irregolare deriva – anche indirettamente – un sinistro. A stabilirlo è la Corte di Cassazione penale, Sezione IV, con la sentenza n. 26491 del 21 luglio 2025, accogliendo il ricorso del pubblico ministero contro un’assoluzione di primo grado.

Il caso nasce in una località balneare, durante un’affollata giornata estiva. Un ciclista, nel percorrere una via stretta, tenta di evitare uno scooter parcheggiato in divieto di sosta, occupante parte della carreggiata. La manovra la porta a spostarsi verso sinistra, proprio mentre sopraggiunge un Ape Piaggio: l’impatto è inevitabile e la donna finisce contro il motorino, riportando lesioni con prognosi superiore ai 40 giorni.

Il giudice di merito aveva condannato il conducente dell’Ape, ritenendolo unico responsabile, e aveva assolto invece il proprietario dello scooter. Secondo il Tribunale, non vi sarebbe un nesso causale sufficiente a configurare un concorso di responsabilità: la bici e il motocarro, pur con carreggiata ristretta, avrebbero potuto transitare contemporaneamente, senza impedimenti insormontabili.

Ma la Suprema Corte ribalta l’impostazione, richiamando i principi di causalità giuridica e richiedendo una più approfondita verifica sulle ragioni che avevano giustificato il divieto di sosta in quel tratto di strada. Non basta, infatti, constatare che la strada fosse comunque percorribile: il giudice è tenuto a valutare se il segnale stradale avesse una funzione meramente ordinativa o una valenza cautelare a tutela della sicurezza stradale.

L’importanza del “perché” del divieto

Secondo i giudici della Cassazione, il motivo per cui è stato apposto il segnale di divieto è determinante per valutare la responsabilità penale del soggetto che ha violato l’obbligo. Se il divieto serve ad evitare ostacoli imprevisti o ingombri pericolosi, come nel caso di strade strette o ad alta frequentazione pedonale, allora la violazione può costituire una concausa dell’evento lesivo.

Nel caso specifico, lo scooter occupava circa 70-80 centimetri della carreggiata, riducendo notevolmente lo spazio di manovra per i veicoli e per i ciclisti. Il fatto che la ciclista abbia dovuto compiere una manovra repentina per evitarlo ha innescato una dinamica pericolosa, sfociata poi in un impatto violento.

Un’istruttoria da rifare

La Corte evidenzia, inoltre, che il Tribunale non ha indicato con precisione l’ingombro effettivo lasciato libero sulla strada né ha valutato l’eventuale efficienza causale della condotta del proprietario dello scooter. Né è stato approfondito se la collocazione del mezzo violasse anche il divieto di fermata, più stringente di quello di sosta.

Per questo motivo, i giudici della Cassazione hanno annullato la sentenza di assoluzione con rinvio, chiedendo una nuova istruttoria che accerti se la presenza del veicolo in quella posizione abbia realmente rappresentato un rischio concreto e prevedibile per la circolazione.


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