Cybersecurity, allarme dipendenti infedeli: le violazioni ai database vanno segnalate entro sei ore

Le aziende e le pubbliche amministrazioni dovranno segnalare all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) eventuali accessi illeciti ai loro database entro sei ore dalla scoperta dell’intrusione. Nei casi più gravi, il tempo limite si riduce a un’ora. È quanto emerge da un nuovo regolamento attualmente in esame alle commissioni della Camera e inviato anche al Copasir.

L’obbligo di notifica riguarda in particolare gli accessi non autorizzati compiuti da dipendenti infedeli, che sfruttano le proprie credenziali per accedere a informazioni sensibili e, in alcuni casi, cederle a terzi. Il direttore dell’ACN, Bruno Frattasi, in audizione alla Commissione Anagrafe Tributaria della Camera, ha sottolineato l’importanza della tempestività nella segnalazione: «La velocità della comunicazione è fondamentale perché l’Agenzia deve avere una conoscenza precoce dell’incidente per poter intervenire».

La minaccia dei ransomware e il divieto di pagare riscatti

Oltre ai casi di insider threat, resta alta l’allerta per gli attacchi ransomware, che bloccano l’accesso ai dati chiedendo un riscatto per sbloccarli. «Si tratta della minaccia cyber più pericolosa per l’Italia, che colpisce soprattutto enti ospedalieri e pubbliche amministrazioni», ha spiegato Frattasi.

Un’altra misura allo studio è il divieto di pagamento dei riscatti. Il tema è attualmente oggetto di discussione nel Nucleo per la Cybersicurezza, con il coinvolgimento di Banca d’Italia, Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. L’obiettivo è evitare che le organizzazioni criminali possano finanziare ulteriori attacchi grazie ai riscatti ricevuti.

Le recenti violazioni, come quelle che hanno colpito il Ced del Ministero della Giustizia e il Consiglio di Stato tra ottobre e novembre, dimostrano la crescente vulnerabilità dei sistemi informatici italiani. Per questo motivo, il nuovo regolamento punta a rafforzare le difese e a garantire una risposta più rapida agli incidenti informatici.


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Avvocati in calo, professione in crisi: il report Cassa Forense-Censis fotografa il declino

L’avvocatura italiana continua a perdere numeri. Secondo il nuovo rapporto Cassa Forense-Censis, presentato ieri a Roma, il numero dei professionisti è sceso a 283.260 unità, registrando un calo dell’1,6% rispetto all’anno precedente. La riduzione delle iscrizioni alla Cassa e il progressivo invecchiamento della categoria dipingono un quadro preoccupante: il 49% degli avvocati ha oltre 49 anni, e nella fascia 55-64 anni la maggioranza è ormai maschile, con il 50,6% del totale.

A pesare sulla professione sono i bassi guadagni e le difficoltà di conciliazione tra vita lavorativa e familiare, soprattutto per le donne. Molti avvocati valutano di abbandonare la carriera per mancanza di prospettive economiche: il reddito medio degli uomini si attesta sui 62.456 euro, mentre quello delle donne è fermo a 31.116 euro, con un divario territoriale netto tra le regioni più ricche e quelle in maggiore difficoltà.

Un altro dato significativo è l’aumento delle pensioni: tra il 2019 e il 2024, gli avvocati pensionati sono cresciuti di quasi 5.000 unità, mentre gli iscritti attivi sono calati di circa 15.000. L’avvocatura italiana, insomma, sta vivendo un lento ma costante declino.

Nel frattempo, il Consiglio Nazionale Forense (CNF) ha annunciato che il testo di riforma dell’ordinamento professionale è stato completato e dovrebbe approdare in Parlamento entro i prossimi 15 giorni. «Stiamo esaminando le ultime osservazioni – ha dichiarato il presidente del CNF, Francesco Greco – con l’obiettivo di offrire alla politica una riforma attesa da anni».

Tra le proposte in discussione c’è anche la richiesta di una maggiore equità nell’assegnazione degli incarichi legali da parte della pubblica amministrazione, con una direttiva che garantisca pari opportunità tra uomini e donne. Tuttavia, secondo Greco, le avvocate continuano a essere penalizzate: «Si occupano di tutte le branche del diritto, ma è ancora il settore familiare quello in cui la loro presenza è più forte, con un impatto inevitabilmente inferiore sui redditi».

L’avvocatura si trova dunque a un bivio: tra riforme attese e un mercato in contrazione, il futuro della professione resta incerto.


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Comprare casa: perché affidarsi solo al Catasto può essere un errore

Acquistare una casa rappresenta uno degli investimenti più importanti nella vita di una persona, ma affidarsi esclusivamente alle informazioni catastali può rivelarsi un grave errore. Il Catasto, infatti, pur essendo un utile strumento di consultazione, non fornisce garanzie certe sulla proprietà dell’immobile né sulle eventuali problematiche urbanistiche o fiscali. Per evitare brutte sorprese, è fondamentale integrare le verifiche catastali con altre indagini giuridiche e tecniche.

Il limite del Catasto: descrizione fisica, ma non giuridica

Il Catasto è un registro pubblico che raccoglie dati sugli immobili, come posizione, dimensione e destinazione d’uso. Tuttavia, non ha valore probatorio per quanto riguarda la titolarità della proprietà. Ciò significa che un immobile potrebbe risultare intestato a una persona che, in realtà, non ha diritto di venderlo.

Per evitare di incappare in situazioni poco chiare, è necessario controllare il registro delle trascrizioni presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari. Questo documento permette di verificare eventuali compravendite pregresse, ipoteche o pignoramenti che potrebbero gravare sulla casa.

Vincoli nascosti: servitù, diritti di prelazione e urbanistica

Un altro rischio connesso a un controllo limitato al Catasto riguarda i vincoli giuridici. Un immobile potrebbe essere soggetto a servitù, come il diritto di passaggio di terzi, che non emergono dalla visura catastale. Allo stesso modo, potrebbero esserci vincoli di prelazione o restrizioni derivanti da piani regolatori che impediscono la realizzazione di modifiche strutturali.

Un esempio frequente è rappresentato dagli immobili situati in aree sottoposte a tutela paesaggistica o storica: chi acquista senza verificare questi aspetti rischia di trovarsi nell’impossibilità di eseguire lavori di ristrutturazione o ampliamento.

Planimetrie e difformità edilizie: il rischio di abusi

Molti acquirenti danno per scontato che la planimetria catastale corrisponda perfettamente alla realtà dell’immobile, ma non sempre è così. Ristrutturazioni non dichiarate, ampliamenti abusivi o modifiche interne possono generare difformità che, in fase di vendita, rappresentano un problema.

Se l’immobile non è conforme alle normative edilizie, l’acquirente potrebbe trovarsi costretto a sanare le irregolarità con spese aggiuntive, o addirittura a dover ripristinare lo stato originale della casa. Una verifica presso l’ufficio tecnico comunale è quindi essenziale prima di procedere all’acquisto.

Attenzione ai rischi fiscali: imposte arretrate e contenziosi

Il Catasto non offre informazioni aggiornate sulla situazione fiscale dell’immobile. Potrebbe, ad esempio, essere oggetto di contenziosi tributari, con imposte non pagate o dichiarazioni errate che potrebbero ricadere sul nuovo proprietario.

Un controllo presso l’Agenzia delle Entrate e una certificazione di conformità fiscale sono strumenti indispensabili per evitare di ereditare debiti pregressi.

Come proteggersi: il ruolo del notaio e della trascrizione dell’atto

Per garantire un acquisto sicuro, è fondamentale affidarsi a un notaio, che verificherà la conformità dei documenti e l’assenza di vincoli legali. Inoltre, la trascrizione dell’atto di compravendita presso i registri immobiliari tutela l’acquirente da eventuali rivendicazioni di terzi.

Verifiche indispensabili per un acquisto sereno

L’acquisto di una casa non può basarsi solo sulle informazioni catastali. È necessario effettuare controlli approfonditi sulla proprietà, lo stato urbanistico e la situazione fiscale per evitare problemi futuri. Solo con una verifica completa e il supporto di professionisti qualificati si può investire in un immobile con la certezza di aver fatto una scelta sicura e consapevole.


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Carcere e salute mentale: oltre il 15% dei detenuti soffre di disturbi gravi

Oltre il 15% dei detenuti nelle carceri italiane soffre di disturbi mentali gravi. È quanto emerge dal documento programmatico sulla giustizia redatto dal Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale e presentato a novembre 2024. Su una popolazione carceraria di oltre 62.000 persone, tra i 6.000 e i 9.000 detenuti risultano affetti da patologie psichiatriche serie, spesso aggravate dalla mancanza di cure adeguate. A lanciare l’allarme è stato Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, nel corso del convegno “Salute in carcere: un diritto negato?”, tenutosi nell’Aula Siani del Consiglio regionale della Campania.

Campania: sovraffollamento e emergenza sanitaria

La situazione è particolarmente critica in Campania, dove i dati aggiornati al 2024 indicano un tasso di sovraffollamento del 134,47%: 7.509 detenuti a fronte di 5.584 posti disponibili. Le condizioni di vita precarie incidono pesantemente sulla salute dei reclusi, con un’alta incidenza di malattie infettive, problemi odontoiatrici e disturbi cardiovascolari.

Uno dei problemi più rilevanti è il diffuso uso di sostanze stupefacenti all’interno delle strutture penitenziarie. Nella sola Campania, 1.793 detenuti sono ufficialmente tossicodipendenti, con un rischio elevato di patologie correlate, come l’HIV. Il mancato trattamento delle dipendenze, unito alla scarsa qualità del cibo e alla quasi totale assenza di attività fisica, contribuisce all’insorgenza di malattie come obesità, disturbi muscolo-scheletrici e problemi cardiaci.

Secondo i dati forniti dal Garante, tra le patologie più diffuse si registrano:

  • 433 casi di problemi odontoiatrici

  • 164 casi di patologie ortopediche

  • 150 casi di ipertensione

Le proposte per una sanità penitenziaria più efficiente

Per fronteggiare l’emergenza sanitaria nelle carceri, Ciambriello ha avanzato una serie di proposte, tra cui il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e l’implementazione di screening costanti per individuare e curare le patologie croniche e infettive.

“La situazione richiede un maggiore coordinamento tra giustizia, sanità e welfare” ha dichiarato Ciambriello. “Serve una rete nazionale di reparti ospedalieri dedicati ai detenuti, un potenziamento dei servizi per la salute mentale e il riconoscimento della specificità della medicina penitenziaria”.

Una riforma in questo senso non solo migliorerebbe la qualità dell’assistenza sanitaria dietro le sbarre, ma consentirebbe anche una razionalizzazione dei costi, con una migliore distribuzione delle risorse finanziarie, in particolare nel Sud Italia, dove il problema appare più acuto.

L’appello del Garante si aggiunge a un dibattito sempre più acceso sul tema della salute in carcere, un diritto troppo spesso trascurato e ancora oggi lontano da standard adeguati di assistenza e tutela.


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Elezioni forensi, la Cassazione chiarisce: il divieto del terzo mandato resta anche in caso di dimissioni

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1662 del 23 gennaio 2025, ha stabilito che il divieto di ricandidatura per un terzo mandato consecutivo nei Consigli dell’Ordine degli Avvocati resta valido anche nel caso in cui un consigliere si sia dimesso prima della scadenza naturale della consiliatura.

La decisione, pronunciata dalle Sezioni Unite (presidente D’Ascola, relatore Marotta), si fonda su un’interpretazione rigorosa del terzo comma dell’articolo 3 della legge n. 113 del 2017. La norma prevede che i consiglieri non possano essere eletti per più di due mandati consecutivi, senza eccezioni legate all’interruzione anticipata dell’incarico.

Il principio del mandato in senso oggettivo

Secondo la Suprema Corte, il mandato deve essere considerato in senso oggettivo: il semplice fatto di aver ottenuto la nomina e di aver esercitato il ruolo, anche per un periodo inferiore alla durata prevista, è sufficiente per essere considerato ai fini del computo dei due mandati consecutivi.

Inoltre, la Corte ha chiarito che non è possibile aggirare il divieto attraverso l’interpretazione del terzo periodo dello stesso comma, che consente la ricandidatura solo dopo un periodo di inattività pari alla durata del mandato precedente. Anche in caso di scioglimento anticipato della consiliatura, il consigliere uscente dovrà attendere un numero di anni pari a quelli effettivamente svolti prima di potersi ripresentare alle elezioni.

Un’interpretazione a tutela della rappresentanza forense

Questa decisione rafforza il principio della rotazione nelle cariche degli Ordini Forensi, evitando meccanismi che possano favorire la continuità di alcuni soggetti attraverso dimissioni strategiche. La Cassazione ha ribadito che l’obiettivo della norma è garantire un ricambio effettivo nella governance degli Ordini degli Avvocati, preservando il pluralismo e la partecipazione democratica.

Con questa pronuncia, la Cassazione offre un punto di riferimento chiaro per le prossime tornate elettorali forensi, confermando un’interpretazione stringente del limite dei mandati e ponendo un freno a eventuali tentativi di elusione della regola.


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La Camera Arbitrale di Milano diventa società benefit: un primato tra giustizia e sostenibilità

La Camera Arbitrale di Milano (CAM) ha ufficialmente acquisito lo status di Società Benefit, diventando la prima istituzione arbitrale italiana a integrare la sostenibilità e l’impatto sociale nella propria mission. Un traguardo che rafforza il suo impegno nella semplificazione della giustizia per le imprese, nella promozione dell’Alternative Dispute Resolution (ADR), nella parità di genere e nel supporto al risanamento aziendale.

Con questo passo, la CAM si distingue non solo a livello nazionale, ma anche internazionale. Infatti, nessuna delle principali istituzioni arbitrali mondiali – dal SCC Arbitration Institute in Svezia alla London Court of International Arbitration (LCIA) nel Regno Unito, fino all’American Arbitration Association (AAA) negli Stati Uniti – ha ancora adottato questa configurazione giuridica.

Il fenomeno delle Società Benefit in crescita

Il modello delle Società Benefit è in forte espansione in Italia. A fine 2024, si contavano 4.593 aziende con questa qualifica, con un aumento del 75% in tre anni. La Lombardia guida la classifica con 1.500 realtà (32,6% del totale nazionale), di cui oltre 1.000 solo a Milano. Tra i settori più coinvolti ci sono le attività professionali, scientifiche e tecniche, i servizi di informazione e comunicazione e il commercio.

“Essere la prima Camera Arbitrale a diventare Società Benefit – ha dichiarato Stefano Azzali, Direttore Generale di CAM – rappresenta per noi un naturale punto di approdo, ma anche un nuovo punto di partenza. Da sempre CAM opera come civil servant, con un ruolo chiave a beneficio dell’economia, del territorio e delle imprese, semplificando la macchina della giustizia e promuovendo strumenti di risoluzione delle controversie più efficienti e sostenibili.”

Gli obiettivi per il 2025

La trasformazione della CAM in Società Benefit non è solo un cambiamento formale, ma una scelta strategica che prevede azioni concrete in diversi ambiti:

  • Ambiente: misurazione dell’impronta di carbonio della sede di Palazzo Turati a Milano e definizione di una strategia di decarbonizzazione.
  • Comunità: attivazione di programmi di volontariato sociale coinvolgendo almeno il 75% del personale.
  • Dipendenti: promozione della transizione scuola-lavoro con l’attivazione di almeno quattro tirocini.
  • Governance: aumento della partecipazione dei dipendenti attraverso almeno tre iniziative di coinvolgimento.
  • Stakeholder: garanzia di un equilibrio di genere tra il 40% e il 60% nelle nomine degli arbitri e dei mediatori.

Con questa nuova veste, la Camera Arbitrale di Milano non solo consolida il suo ruolo di leader nel settore dell’arbitrato, ma si fa promotrice di un modello di giustizia più sostenibile, equo e inclusivo, aprendo la strada a una nuova era dell’ADR in Italia e nel mondo.


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Dai tribunali brasiliani alla polizia britannica, il crescente impatto dell’AI nei sistemi giudiziari

L’idea che i sistemi di Intelligenza Artificiale possano sostituire o affiancare l’uomo in attività tipicamente umane, come quella giudiziaria, non è più solo un’ipotesi fantascientifica, ma una realtà sempre più diffusa in diversi Paesi. Tuttavia, l’adozione di questi strumenti varia enormemente in base agli ordinamenti e ai principi giuridici di ciascuna nazione, con implicazioni che spaziano dall’efficientamento del sistema giudiziario al rischio di pregiudizi e limitazioni dei diritti fondamentali.

Il caso del Brasile: l’AI per smaltire gli arretrati giudiziari

In Brasile, dove il sistema giudiziario è oberato da oltre 80 milioni di procedimenti pendenti – uno ogni 2,6 abitanti – si è deciso di affidare alla tecnologia il compito di snellire il lavoro della Corte Suprema. Dal 2018, il Victor AI System analizza i ricorsi presentati al Supremo Tribunale Federale, determinandone l’ammissibilità secondo il criterio della repercussão geral (l’interesse generale del caso).

Il confronto tra il lavoro umano e quello dell’AI è impressionante: mentre un funzionario impiega circa 40 minuti per vagliare una richiesta, Victor riesce a elaborare lo stesso processo in appena 5 secondi, sfruttando un dataset di quasi tre milioni di fascicoli.

Argentina e Regno Unito: AI per accelerare le decisioni e valutare i rischi

L’Argentina ha adottato un modello simile con Prometea, un sistema in uso presso gli uffici della Procura di Buenos Aires dal 2017. Questo software analizza automaticamente le pratiche pendenti e suggerisce bozze di decisioni basate su precedenti analoghi. Il tempo di elaborazione è ridotto a venti secondi, consentendo una maggiore rapidità nei procedimenti amministrativi e giudiziari.

Nel Regno Unito, l’impiego dell’AI si è concentrato sulla sicurezza e la prevenzione. Il sistema HART (Harm Assessment Risk Tool), utilizzato dalle forze di polizia, valuta la pericolosità sociale di un sospettato analizzando dati relativi alla sua situazione economica, familiare e criminale, assegnando un livello di rischio che varia da “basso” ad “alto” o addirittura in percentuale esatta.

Negli Stati Uniti l’AI decide su recidiva e libertà su cauzione

Negli Stati Uniti, il ricorso agli algoritmi è ormai parte integrante del sistema giudiziario, con l’adozione di software come COMPAS (Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions) o SAVRY per la valutazione del rischio di recidiva. Questi strumenti vengono utilizzati per determinare la severità della pena o la concessione della libertà su cauzione in stati come Pennsylvania, Kentucky, New Jersey e Wisconsin.

Tuttavia, questi strumenti hanno sollevato non poche polemiche. Se da un lato permettono un’analisi rapida ed efficiente, dall’altro sono stati criticati per la mancanza di trasparenza e per il rischio di discriminazioni basate su bias socio-economici e razziali. Non esistono, infatti, protocolli chiari per garantire che le decisioni prese dagli algoritmi siano eque e prive di pregiudizi. Inoltre, l’AI viene impiegata quasi esclusivamente per rafforzare il law enforcement, senza fornire strumenti equivalenti alla difesa per garantire un’equità processuale.

L’AI al servizio della difesa: l’iniziativa del Barreau di Parigi

In un panorama in cui l’Intelligenza Artificiale sembra essere utilizzata principalmente come strumento di repressione e controllo sociale, l’iniziativa dell’Ordine degli Avvocati di Parigi segna una svolta significativa. Nel 2024, il Barreau ha acquistato e messo gratuitamente a disposizione dei suoi iscritti una licenza per un sistema AI specializzato nel settore giuridico.

L’obiettivo è garantire ai difensori, soprattutto quelli economicamente svantaggiati, l’accesso a strumenti tecnologici avanzati, riducendo il divario tra accusa e difesa e riequilibrando il sistema giudiziario. Questa iniziativa rappresenta un segnale importante nella direzione di un’AI al servizio della giustizia, che non sia solo uno strumento di efficienza, ma anche un mezzo per tutelare i diritti e garantire la parità delle armi nel processo.


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Giustizia e intelligenza artificiale: il Senato approva il Ddl 1146/24

Il 20 marzo 2025 il Senato della Repubblica ha approvato il disegno di legge n. 1146/24, recante “Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”. Il provvedimento, di iniziativa governativa, ha attraversato un iter complesso, reso ancora più delicato dalla necessità di armonizzarlo con il Regolamento UE 2024/1689 (c.d. “AI Act”), entrato in vigore il 13 giugno 2024.

L’approvazione del testo in Senato è giunta dopo un confronto serrato con la Commissione Europea, che aveva sollevato criticità attraverso il parere C (2024) 7814, trasmesso all’Italia il 5 novembre 2024. Per evitare il rischio di disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con quelle europee, il Ddl 1146 è stato adeguato, prevedendo fin dall’articolo 1 che le sue disposizioni debbano essere interpretate in conformità con l’AI Act.

Le norme sull’uso dell’AI nella giustizia

Uno degli ambiti più delicati disciplinati dal provvedimento è quello della giustizia, considerato dall’AI Act come settore ad “alto rischio”. Il tema è regolato dall’articolo 15 del Ddl 1146, completamente riscritto durante l’iter parlamentare e ora articolato in quattro commi.

Il primo comma sancisce il principio antropocentrico, stabilendo che nelle attività giudiziarie ogni decisione su interpretazione e applicazione della legge, valutazione dei fatti e delle prove, e adozione dei provvedimenti spetta esclusivamente al magistrato. Questo principio, in linea con l’AI Act, ribadisce che l’intelligenza artificiale deve essere al servizio dell’uomo e non sostituirsi a esso.

L’articolo vieta inoltre l’uso dell’AI nei processi decisionali giudiziari, impedendo di fatto l’adozione di sistemi di “giustizia predittiva”, ossia quegli strumenti in grado di formulare previsioni sull’esito di un giudizio basandosi sull’analisi di grandi quantità di atti giuridici. Tuttavia, non viene espressamente escluso l’uso dell’AI per la ricerca giurisprudenziale e dottrinale, lasciando intendere che tale impiego sia consentito.

Il secondo comma introduce tre ambiti in cui l’uso dell’intelligenza artificiale è invece ammesso:

  1. Organizzazione dei sistemi relativi alla giustizia;
  2. Semplificazione del lavoro giudiziario;
  3. Attività amministrative accessorie.

La regolamentazione di questi usi è demandata al Ministero della Giustizia. Rispetto alla versione originaria del testo, è stata eliminata la previsione che attribuiva la disciplina dell’AI nelle giurisdizioni amministrativa e contabile ai rispettivi organi di governo (Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa e Sezioni riunite della Corte dei conti).

Il terzo comma stabilisce che, fino alla piena attuazione dell’AI Act, l’impiego e la sperimentazione dell’AI negli uffici giudiziari siano subordinati all’approvazione del Ministero della Giustizia, previa consultazione delle autorità nazionali per l’intelligenza artificiale, ovvero l’Agenzia per l’Italia Digitale e l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale.

Infine, il quarto comma promuove la formazione dei magistrati sull’uso dell’AI nell’attività giudiziaria, inserendo questa tematica nelle linee programmatiche del Ministero della Giustizia per la formazione della magistratura.

Tribunale competente sulle cause AI

Oltre alle disposizioni specifiche per la giustizia, il Ddl 1146 interviene anche sul codice di procedura civile. L’articolo 17 prevede infatti una modifica all’articolo 9 c.p.c., attribuendo la competenza esclusiva al tribunale per tutte le cause aventi ad oggetto il funzionamento di un sistema di intelligenza artificiale.

Dopo l’approvazione in Senato, il disegno di legge è ora all’esame della Camera dei Deputati, dove è stato trasmesso il 21 marzo 2025 (atto n. 2316/25). Considerata la complessità della materia e il suo impatto sulle modalità di esercizio della giurisdizione, l’iter parlamentare si preannuncia intenso e ricco di dibattito.


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Separazione delle carriere, Del Noce (UNCC): “Un dibattito sterile mentre la giustizia crolla”

Mentre il dibattito sulla separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti continua ad accendere gli animi, il presidente dell’Unione Nazionale Camere Civili, Alberto Del Noce, invita a spostare l’attenzione sulle reali criticità del sistema giudiziario italiano.

“Si sta combattendo una battaglia ideologica sul nulla”, afferma Del Noce, sottolineando come la separazione tra giudici e pubblici ministeri sia già una realtà consolidata e che la discussione su questo tema vada avanti dal 1988. “Invece di alzare barricate tra avvocati e magistrati, dovremmo unirci per un obiettivo comune: migliorare la giustizia, che non è né degli avvocati né dei magistrati, ma dei cittadini”.

Un sistema al collasso

Secondo Del Noce, mentre il confronto si concentra su questa riforma, si sta perdendo di vista la vera emergenza: il collasso del sistema giudiziario. “I giudici di pace sono allo stremo, la giustizia cosiddetta ‘bagatellare’ – che in realtà riguarda milioni di cittadini – è in grave difficoltà. Basti pensare che le cause di valore tra i 25 e i 30 mila euro sono state trasferite a giurisdizioni già sovraccariche. Di cosa stiamo parlando, allora?”

Il rischio per l’indipendenza della magistratura

Il presidente dell’UNCC si dice poi sorpreso dall’impostazione del dibattito sulla riforma della separazione delle carriere in ambito penale: “Si alimentano paure e si ipotizzano rischi, ma da civilista io mi attengo ai documenti. E leggendo il disegno di legge approvato dal Senato, non trovo nulla che metta in pericolo l’indipendenza della magistratura”.

Tuttavia, Del Noce non ha dubbi: se un domani l’autonomia dei magistrati dovesse essere realmente minacciata, gli avvocati sarebbero i primi a schierarsi al loro fianco per difenderla.

“Ma oggi, esattamente, di cosa stiamo discutendo?”, conclude.


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Ripetizione dell’indebito: diritto di accesso agli estratti conto bancari

Con l’ordinanza n. 8175 depositata oggi, la Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali riguardo al diritto del cliente di ottenere copia della documentazione bancaria in caso di ripetizione dell’indebito. Secondo la Suprema Corte, l’istanza di esibizione di documenti bancari, prevista dall’articolo 210 c.p.c., deve essere preceduta da una richiesta formale alla banca, come stabilito dall’articolo 119, comma 4, del Testo Unico Bancario (TUB). Il cliente ha il diritto di richiedere copia degli estratti conto relativi agli ultimi dieci anni, ma solo dopo che sia trascorso il termine di novanta giorni dalla richiesta senza che la banca abbia adempiuto.

La decisione nasce dal ricorso di una società nei confronti di un istituto bancario, a causa di presunti addebiti illegittimi legati a interessi non dovuti, spese e commissioni non pattuite, e l’applicazione di tassi illegittimi su un conto corrente aperto nel 1987 e estinto nel 1999. In primo grado, la società aveva ottenuto una parziale accoglimento della sua domanda di ripetizione di quanto indebitamente corrisposto, ma la Corte d’Appello aveva annullato la sentenza, evidenziando gravi lacune nella documentazione prodotta, che non consentivano una corretta ricostruzione dell’andamento del conto.

Nel ricorso in Cassazione, la parte lamentava il mancato accoglimento della propria istanza di esibizione dei documenti, ma la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, poiché non è stato fornito alcun elemento che attestasse che, prima del processo, fosse stata effettuata la richiesta formale di copia degli estratti conto alla banca. La Corte ha sottolineato che, ai fini dell’ammissibilità dell’istanza di esibizione, è necessario che il correntista abbia già richiesto la documentazione direttamente alla banca, e che siano trascorsi novanta giorni senza che la banca abbia fornito i documenti richiesti.

La Cassazione ha, inoltre, precisato che l’onere della prova incombe sul correntista che agisce in ripetizione dell’indebito, il quale deve fornire la documentazione necessaria per supportare la propria richiesta. Tuttavia, il tribunale ha ribadito che questo onere non è particolarmente gravoso, soprattutto grazie alla gestione online dei rapporti bancari e alla facile reperibilità dei dati.

In definitiva, la Corte ha stabilito che l’istanza di esibizione dei documenti bancari è ammissibile solo se preceduta da una richiesta formale degli estratti conto, come previsto dalla legge, altrimenti si rischia di incorrere in una richiesta esplorativa incompatibile con lo strumento processuale previsto. Pertanto, la società ha visto respinto il proprio ricorso per il mancato rispetto di questa procedura.


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