Grandi Dimissioni: un fenomeno in crescita

Sono sempre di più le persone che scelgono di lasciare il lavoro per diverse ragioni. È un fenomeno globale che cresce sempre più, e che sta prendendo piede anche nel nostro paese.

Si tratta del Great Resignation, letteralmente Grandi Dimissioni, e si stima che più di un lavoratore su due stia cercando un nuovo lavoro o che comincerà a farlo. Questo è quanto emerge dal Randstad Workmonitor, indagine semestrale condotta in 34 paesi.

Insoddisfazione vs felicità personale

Le motivazioni di questo esodo silenzioso sono svariate: potrebbero riguardare l’incapacità del proprio datore di lavoro di soddisfare le ambizioni lavorative e professionali, la scarsa flessibilità, oppure la mancanza di corrispondenza tra i propri valori e quelli dell’azienda.

Si tratta di un fenomeno caratterizzato da un aumento progressivo del numero delle dimissioni dei lavoratori dipendenti dal proprio lavoro. Alla base di tutto questo troviamo un senso d’insoddisfazione: per molti, le proprie esigenze lavorative non riescono ad essere completamente appagate, dunque cercano nuove opportunità di crescita altrove.

La scelta di cambiare lavoro riguarda soprattutto i giovani della Gen Z, che riconoscono che la loro priorità è la felicità personale, non il lavoro. Il fenomeno è collegato al desiderio dei più giovani di cogliere migliori opportunità, anche all’estero.

Disoccupati, ma felici

Il 29% dei lavoratori italiani è alla ricerca attiva di un nuovo impiego. Globalmente, l’Italia è al terzo posto nella classifica di questo nuovo trend. La percentuale sale al 38% se consideriamo soltanto la fascia d’età 25-34.

Il 36% dei lavoratori italiani ha già lasciato il proprio lavoro per l’incompatibilità con la vita privata. Il 38% dei lavoratori ha dichiarato che se il lavoro gli impedisse di godersi la vita, sarebbe disposto a lasciare il proprio lavoro.

Il 32% dei dipendenti preferirebbe essere disoccupato piuttosto che infelice a livello lavorativo. Tra le cause del great resignation troviamo l’insoddisfazione (47%), la demotivazione (34%) e la mancanza di condivisione degli obiettivi (30%).

Le aziende ne risentono

Le aziende, ovviamente, risentono negativamente del fenomeno. Si registra, per esempio, sovraccarico di lavoro, desiderio di emulazione, perdita di punti di riferimento e demotivazione.

Dunque, per evitare complicazioni, molte aziende cercano di mettere in atto azioni al fine di trattenere le risorse. Parliamo di percorsi di formazione, momenti di ascolto e di condivisione delle problematiche, maggior attenzione alle relazioni interne e cambi di mansione.

Under e over 40

I giovani con meno di 40 anni si riconoscono direttamente nel fenomeno delle grandi dimissioni. Queste persone affermano che la decisione di cambiare sia stata dettata proprio dalla ricerca della crescita professionale, unitamente al desiderio di ricomporre i pezzi della propria vita.

I lavoratori con più di 40 anni, invece, vedono il fenomeno dall’esterno, senza sentirsi direttamente chiamati in causa. Riconoscono, tuttavia, la perdita di talenti importanti nell’azienda, e soprattutto comprendono le difficoltà nell’assunzione di nuove figure adeguate.

Le motivazioni principali

Le motivazioni economiche giocano un ruolo importante nella decisione di cercare un nuovo lavoro. Nell’ultimo anno, infatti, soltanto il 19% dei lavoratori ha ricevuto un aumento di stipendio. Siamo al penultimo posto, in questo senso, nella classifica globale.

Siamo all’ultimo posto, invece, per quanto riguarda la distribuzione di benefit, flessibilità e smart working. Ci sono, tuttavia, ragioni ancora più profonde all’origine del great resignation.

Il fenomeno è dovuto in particolar modo ai più giovani, che affermano che il datore di lavoro non è in grado di soddisfare pienamente la realizzazione personale. Il lavoro, per il 48% degli intervistati, non è in grado di offrire uno scopo, mentre il 60% dice che la vita privata è molto più importante rispetto a quella professionale.

Scusa, ma non siamo sulla stessa lunghezza d’onda

Un’ulteriore motivazione che spinge i lavoratori a lasciare il proprio lavoro è il fatto di non sentirsi sulla stessa lunghezza d’onda tra i propri valori e quelli dell’azienda. Spesso si tratta di temi ambientali o sociali: il 38% non accetta di lavorare in un’azienda che non si impegna in tal senso.

Anche il ruolo della scarsa flessibilità non scherza. Le aziende non offrono flessibilità di orario e luogo, e in molti decidono di lasciare l’impiego perché non consente il lavoro da remoto.

Un altro tasto dolente è l’incapacità delle aziende di assecondare a pieno le ambizioni professionali. Tra i bisogni formativi più “richiesti” troviamo lo sviluppo di competenze tecniche, delle soft skills e la formazione digitale.

Opportunità, non problemi

Nel mondo odierno, le aziende devono prestare più attenzione alla vita privata dei dipendenti.

È importante rivolgere l’attenzione verso un buon work life balance, con flessibilità negli orari e nei luoghi di lavoro, per attrarre i talenti più giovani nel mercato. Smart working. Permessi agevolati, part-time per i neo-genitori e orari flessibili: si combatte così la great resignation.

I dipendenti devono sentirsi valorizzati e assecondati nelle loro ambizioni di crescita professionale. È necessario considerare il fenomeno da un altro punto di vista, ovvero non come un problema ma come opportunità.

Marco Ceresa, amministrazione delegato di Randstad spiega che «sarà una grande sfida per le aziende, che in una situazione di carenza di talenti devono ripensare il loro approccio per attrarre e trattenere il personale».

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