Guida in stato di ebbrezza con incidente: niente lavori socialmente utili

ROMA – Nessuna possibilità di evitare la pena detentiva e pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità se si provoca un incidente alla guida in stato di ebbrezza. A ribadirlo, ancora una volta, è la Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 13150/2025 conferma l’orientamento già consolidato: l’aggravante legata all’incidente stradale preclude ogni possibilità di sostituzione della pena.

La vicenda al centro del verdetto riguarda un uomo condannato per guida in stato di ebbrezza ai sensi dell’art. 186 del Codice della Strada, dopo aver causato un sinistro. Il tribunale di primo grado aveva concesso la sostituzione della pena con i lavori di pubblica utilità (Lpu), ma la decisione è stata impugnata dal Procuratore Generale di Bologna, che ha fatto ricorso in Cassazione denunciando la violazione della legge.

La Suprema Corte gli ha dato ragione, puntualizzando che l’articolo 186, comma 9-bis del Codice della Strada, consente la sostituzione con Lpu solo se il conducente non ha causato un incidente. E non importa se l’incidente non ha coinvolto altri o se la circostanza aggravante non ha inciso sulla pena finale: è sufficiente che ci sia stato un evento pericoloso che abbia interrotto la normale circolazione stradale.

Secondo i giudici, dunque, anche il più lieve degli incidenti, purché legato alla guida in stato di alterazione da alcol o droghe, esclude categoricamente l’opzione dei lavori socialmente utili. Una posizione, ormai ben radicata nella giurisprudenza, che mira a tutelare in modo più incisivo la sicurezza stradale e a sanzionare in modo severo condotte potenzialmente pericolose per la collettività.

Nel caso specifico, la Corte ha annullato senza rinvio la parte della sentenza che aveva disposto la sostituzione della pena con Lpu, confermando così che non è possibile alleggerire la sanzione in presenza dell’aggravante prevista dal comma 2-bis dell’articolo 186 C.d.S..


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Meloni frena sulle riforme-urto: stop alla Giornata per Tortora per non irritare le toghe

ROMA – Dietrofront calcolato del Governo sulla proposta di legge per istituire una giornata dedicata alle vittime di errori giudiziari, in memoria di Enzo Tortora. L’iniziativa, sostenuta da tempo da alcuni settori della maggioranza, viene silenziata su indicazione diretta di Palazzo Chigi. A confermarlo, con un intervento dai toni amari in Aula, è il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti: “Non si vuole urtare la sensibilità dei magistrati, almeno fino al referendum sulla separazione delle carriere”.

L’indicazione è chiara: niente provocazioni fino al voto popolare, previsto per la primavera. Il governo Meloni adotta così una linea attendista, quella della “tregua armata” con la magistratura, evitando di alimentare tensioni che potrebbero ritorcersi contro la campagna referendaria. L’obiettivo? Non trasformare l’Anm (Associazione Nazionale Magistrati) in un “martire” politico agli occhi dell’opinione pubblica, soprattutto in una fase in cui la riforma della giustizia è sotto i riflettori.

Giachetti non le manda a dire: “Ci è stato detto chiaramente che non si vuole approvare questo provvedimento perché l’Anm è contraria. Ma nello stesso tempo – ha aggiunto con sarcasmo – il sottosegretario Mantovano può attaccare pubblicamente le toghe senza problemi. C’è una strana idea di coerenza in questo governo”.

La premier Giorgia Meloni, insieme al ministro della Giustizia Carlo Nordio, sembra voler tenere il punto su una linea diplomatica. Diverso l’approccio del sottosegretario Mantovano, che continua a sferzare pubblicamente i magistrati. Un doppio binario che riflette la delicatezza del momento: da una parte si cerca di evitare lo scontro frontale, dall’altra non si vuole rinunciare al messaggio riformista, almeno sul piano simbolico.

La proposta per commemorare Enzo Tortora non è la sola finita nel congelatore. Anche la riforma sulla custodia cautelare, i limiti all’uso dei trojan informatici, le direttive sull’azione penale, la commissione d’inchiesta sulla magistratura e la revisione della legge Severino sono state accantonate. Riforme care soprattutto a Forza Italia e ai garantisti, ma considerate troppo divisive in un momento in cui l’equilibrio tra poteri è politicamente delicato.

Il governo, per voce della sottosegretaria Matilde Siracusano, rivendica comunque un’azione concreta in ambito giudiziario: dall’abolizione dell’abuso d’ufficio alla stretta sulle intercettazioni, fino al recepimento della direttiva sulla presunzione d’innocenza. Ma ora, almeno fino al referendum, l’ordine è uno solo: non irritare i magistrati.

In gioco non c’è solo una riforma, ma l’intero equilibrio tra potere politico e potere giudiziario. E il governo Meloni ha deciso di giocarsi la partita più importante con calma, prudenza e qualche rinuncia.


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Guida e droga: il Tribunale di Pordenone sfida la nuova legge

PORDENONE – Il Tribunale di Pordenone, su richiesta della Procura, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale destinata a fare rumore. Al centro del dibattito c’è la nuova formulazione dell’articolo 187 del Codice della Strada, modificato dalla Legge n. 177 del 25 novembre 2024, che ha eliminato il requisito dello “stato di alterazione psico-fisica” per configurare il reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

Con un’ordinanza dell’8 aprile 2025, firmata dalla giudice Granata, il Tribunale ha messo nero su bianco i motivi della sua decisione: la norma così riformulata violerebbe i principi costituzionali di ragionevolezza, proporzionalità, uguaglianza (art. 3), ma anche quelli di tassatività e determinatezza dell’incriminazione penale (art. 25 co. 2), oltre al principio della finalità rieducativa della pena (art. 27 co. 3).

La critica più forte riguarda l’effetto “espansivo” della nuova norma: ora è sufficiente risultare positivi a una sostanza stupefacente per incorrere nella sanzione penale, senza più dover dimostrare uno stato effettivo di alterazione alla guida. Una trasformazione, secondo il Tribunale, che svuota la norma della sua funzione originaria di tutela della sicurezza stradale basata su un pericolo concreto, trasformandola in un reato di pericolo astratto, slegato da qualsiasi nesso causale tra l’assunzione della sostanza e l’effettiva compromissione della capacità di guida.

“È manifestamente irragionevole e iniquo – si legge nell’ordinanza – ritenere penalmente responsabile un soggetto solo in base alla positività a una sostanza, senza accertare se ciò abbia influito sulla sua capacità di guidare”. Il rischio, secondo il Giudice, è quello di punire anche chi, pur avendo assunto sostanze giorni prima, non presenta alcun sintomo né rappresenta un pericolo reale per la sicurezza stradale.

Il caso sollevato a Pordenone potrebbe aprire la strada a una revisione della norma a livello costituzionale, rilanciando il dibattito su come e quanto il diritto penale debba incidere nella sfera personale dei cittadini. Intanto, la parola passa alla Corte Costituzionale.


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Cosenza, processo Reset. Camera penale: “Difendere è un diritto, non un crimine”

Nel cuore del processo “Reset”, destinato a segnare un passaggio delicato della giustizia cosentina, si accende un nuovo fronte: quello che vede protagonisti non gli imputati, ma i loro difensori. Gli avvocati penalisti Cristian Cristiano e Vincenzo Guglielmo Belvedere sono stati infatti travolti da una polemica scaturita da un manoscritto firmato dal presunto boss detenuto Roberto Porcaro, diffuso in anteprima da un quotidiano online, in cui si mettono in discussione alcune scelte difensive operate nel corso del processo.

Nel documento, Porcaro – detenuto al 41 bis – critica la richiesta di acquisizione di un suo verbale da parte dei due legali, definendola “un errore grossolano”. Il manoscritto, sebbene ancora non ufficialmente acquisito agli atti processuali, è stato reso pubblico, alimentando sospetti e insinuazioni su una presunta malafede degli avvocati coinvolti.

La reazione dell’Avvocatura della Camera Penale di Cosenza è stata immediata e netta. In un comunicato dal tono fermo e deciso, il Consiglio Direttivo e il Presidente Roberto Le Pera, con il Segretario Gabriele Posteraro, hanno espresso pieno sostegno ai colleghi:

“È il tempo del processo mediatico, della giustizia del popolo e non in nome del popolo; del ‘Crucifige’ e non della sentenza. Ma a questa orda di inciviltà continua a fare da scudo la toga dell’Avvocato, libera, indipendente, assoluta protagonista della vera cultura della giurisdizione”.

La nota denuncia con forza la deriva giustizialista e la pericolosa esposizione mediatica di avvocati penalisti che, semplicemente, esercitano la loro funzione difensiva. Una funzione costituzionalmente garantita e fondamentale per l’equilibrio del sistema democratico.

Gli stessi Cristiano e Belvedere, in una nota congiunta, hanno risposto punto per punto alle affermazioni di Porcaro, spiegando che i verbali richiesti erano stati omissati nelle parti non rilevanti e che la richiesta era finalizzata esclusivamente a tutelare i propri assistiti, dei quali uno non era neppure conosciuto da Porcaro.

“È evidente che il dato istruttorio sia stato frainteso. L’intero collegio difensivo non ha mosso obiezioni, proprio perché ininfluente per gli altri imputati”.

Ma la questione non si ferma qui. I legali di Porcaro, Mario Scarpelli e Roberta Lucà, hanno a loro volta replicato, ritenendo “inaccettabile” che i colleghi abbiano, a loro dire, tentato di “screditare l’operato professionale” della difesa del boss.

Il caso, sempre più infuocato, riaccende un tema cruciale: la tutela dell’indipendenza dell’avvocato e la necessità di sottrarre la giustizia al tribunale dell’opinione pubblica.
Come sottolinea la Camera Penale:

“Se qualcuno pensa di colpire anche un solo avvocato, ricordi che dovrà colpirci tutti per farci indietreggiare. E quando ci avrà colpiti tutti, non ci sarà più nessuno a difenderlo”.

Il processo “Reset” continua, ma il vero banco di prova sarà ora per la libertà della difesa. Un principio che, se incrinato, rischia di trascinare con sé le fondamenta stesse dello Stato di Diritto.


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Addio a Papa Francesco, “voce degli ultimi”: le reazioni dal mondo della giustizia

ROMA – Un’ondata di cordoglio ha attraversato il mondo della giustizia e delle istituzioni italiane alla notizia della morte di Papa Francesco, avvenuta ieri, 21 aprile 2025. Diverse le voci che si sono levate per rendere omaggio a una figura che ha saputo incarnare, con coerenza e forza morale, i valori della pace, della giustizia e dell’umanità.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha ricordato così il Pontefice: “Nella sua grande misericordia era molto sensibile alle sofferenze dei carcerati. Nel suo nome lavoreremo per rendere il sistema penitenziario sempre più umano”.

Commosso anche il ricordo dell’Unione Nazionale delle Camere Civili, che attraverso le parole del presidente Alberto Del Noce ha sottolineato come Papa Francesco abbia rappresentato “una voce autorevole e lucida in difesa dei più fragili”. Un richiamo profondo alla funzione costituzionale dell’avvocatura, ha aggiunto Del Noce, “nella consapevolezza che giustizia e umanità non sono valori astratti, ma azioni concrete”.

Anche l’Unione Camere Penali Italiane ha espresso il proprio dolore, rievocando con forza il legame del Pontefice con le persone private della libertà personale. “Il suo monito su come nella giustizia terrena i fili del bene si intreccino con quelli del male – si legge nella nota – resta un’eredità morale preziosa. Indimenticabile il gesto di aprire una Porta Santa nel carcere di Rebibbia, simbolo di speranza per i detenuti”.

Papa Francesco, anche nel suo ultimo Giovedì Santo, non ha voluto rinunciare a visitare i carcerati del Regina Coeli, nonostante le precarie condizioni fisiche. “Un gesto – sottolineano i penalisti – che richiama il valore universale della dignità della persona”.

L’AIGA, Associazione Italiana Giovani Avvocati, ha scelto di ricordare il Papa con le sue stesse parole: “Il vostro lavoro è di custodire la gente, custodire la giustizia. Delle volte a voi tocca il ruolo più brutto, ma bisogna andare avanti, sempre per cercare l’armonia e risolvere i conflitti”.

Infine, il messaggio dell’Associazione Nazionale Magistrati, che ha definito Papa Francesco “un uomo di pace, giustizia e umanità”. “Ha saputo dare voce alle istanze più alte di tutela della dignità umana – si legge nella nota – offrendo alla comunità internazionale un costante richiamo al rispetto dei diritti fondamentali”.

Nel ricordo unanime, Papa Francesco lascia un’eredità spirituale e civile che trascende i confini del Vaticano, toccando profondamente anche le aule dei tribunali, i penitenziari, e tutte le istituzioni impegnate quotidianamente nella tutela dei diritti.


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FOGGIA – Alcuni colpi di arma da fuoco sono stati esplosi nella notte di sabato 21 aprile contro l’automobile della madre del sostituto procuratore della Repubblica di Foggia, Roberto Galli. L’auto era parcheggiata a pochi chilometri da Manfredonia. Fortunatamente, nessuno è rimasto ferito. Sul posto sono intervenuti i carabinieri, che hanno avviato le indagini per risalire ai responsabili del gesto. Al vaglio degli inquirenti anche le immagini di videosorveglianza della zona.

Roberto Galli è uno dei magistrati più impegnati nelle inchieste contro la criminalità organizzata nel territorio foggiano, da tempo sotto pressione per l’intensificarsi degli atti intimidatori legati al contrasto delle mafie locali.

Immediata la reazione dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), che ha diffuso una nota ufficiale per esprimere piena solidarietà al collega: “Esprimiamo la nostra vicinanza al sostituto procuratore di Foggia Roberto Galli, vittima, nella scorsa notte, di un vile ‘avvertimento’ in stile mafioso, inutilmente finalizzato ad intimorire un magistrato intransigente e coraggioso, da anni impegnato, insieme ai colleghi della Procura e del Tribunale, nell’affermare la legalità in un territorio ferito da un fenomeno criminale che lo Stato è impegnato a contrastare con la massima determinazione”.

“La nostra solidarietà – conclude l’ANM – è anche un messaggio forte e chiaro: qualsiasi intimidazione ai danni della magistratura rappresenta una minaccia alla democrazia. Al collega Galli va tutto il nostro sostegno”.


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Addio ad Alessandro Pace, gigante del diritto costituzionale italiano

È morto a Roma, all’età di 89 anni, il giurista e avvocato Alessandro Pace, uno dei più autorevoli costituzionalisti italiani. Figura di riferimento nel panorama accademico e giuridico del Paese, Pace ha dedicato la sua lunga carriera allo studio e all’insegnamento del diritto costituzionale, approfondendo in particolare i complessi rapporti tra forma di Stato, forma di governo e diritti fondamentali, con un’attenzione speciale alla libertà di manifestazione del pensiero.

L’annuncio della sua scomparsa è stato dato dall’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, della quale fu tra i fondatori, oltre che segretario del consiglio direttivo (1985-1988) e presidente (2006-2009). I funerali si terranno mercoledì 23 aprile alle ore 11:30 presso la chiesa di San Bellarmino, in piazza Ungheria a Roma.

Nato a Lanciano (Chieti) il 30 settembre 1935, Pace si laureò in Giurisprudenza all’Università di Roma nel 1957, formandosi sotto la guida di maestri del calibro di Carlo Esposito e Vezio Crisafulli. Dopo aver conseguito la libera docenza in diritto costituzionale nel 1967, vinse la cattedra nel 1972. Ha insegnato nelle università di Cagliari, Modena, Firenze e Roma “La Sapienza”, dove è stato professore ordinario dal 1990 e poi professore fuori ruolo dal 2007.

Direttore della rivista Giurisprudenza costituzionale dal 1999, e in precedenza condirettore con Leopoldo Elia, faceva parte di importanti comitati scientifici internazionali e ha esercitato la professione forense dinanzi alle supreme magistrature, specializzandosi in questioni costituzionali e in materia di libertà d’espressione e mezzi di comunicazione.

Relatore in numerosi convegni, autore di oltre 220 pubblicazioni — molte delle quali tradotte in diverse lingue — Pace lascia un’impronta indelebile nel mondo del diritto. Tra le sue opere principali figurano La libertà di riunione nella Costituzione italiana (1967), Il potere d’inchiesta delle assemblee legislative (1973), Problematica delle libertà costituzionali (1983), La causa della rigidità costituzionale (1995), I limiti del potere (2008) e molte altre.

Con la sua scomparsa, il mondo accademico e giuridico italiano perde un pensatore rigoroso e una voce autorevole nella difesa e nello studio dei principi costituzionali.


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Alberghi/ristoranti, sanità e commercio: lavoro anche a Pasqua e Pasquetta per 5 milioni di italiani

Secondo le previsioni, oltre 11 milioni di italiani approfitteranno del ponte pasquale per concedersi alcuni giorni di svago. Mentre molti potranno recarsi al mare, in montagna o visitare una o più città d’arte, non si può ignorare che un numero significativo di persone sarà costretto a lavorare anche durante questo periodo festivo. Dall’elaborazione dell’Ufficio studi CGIA su dati Istat si stima che tra la domenica di Pasqua e il lunedì dell’Angelo dovranno recarsi sul luogo di lavoro fino a poco più di 5 milioni di italiani.

Un impegno che riguarda tutte quelle persone che lavorano anche nella stragrande maggioranza degli altri giorni festivi dell’anno, perché sono impiegate in settori che non possono chiudere le attività: come il turistico/ricettivo, l’informazione/comunicazione, l’intrattenimento, l’agricoltura/allevamento, il commercio/esercizi pubblici, i trasporti, la sanità, l’industria con produzioni a ciclo continuo e la sicurezza/ordine pubblico. Di questi 5,1 milioni, 1,3 sono lavoratori autonomi (agricoltori, allevatori, ambulanti, artigiani[1], commercianti, esercenti, etc.) e gli altri 3,8 sono lavoratori dipendenti[2].  Negli ultimi dieci anni, a seguito della liberalizzazione degli orari di apertura/chiusura delle attività commerciali introdotta dal governo Monti, il numero dei lavoratori impiegati durante le giornate festive è aumentato costantemente. Gli ultimi dati riferiti al 2023 ci dicono che il 25,8 per cento del totale degli autonomi alza la saracinesca della propria attività anche nei giorni di festa, mentre tra i dipendenti la quota di chi si reca al lavoro alla domenica e nelle altre festività è al 20,4 per cento (vedi Graf. 1).

  • Soprattutto negli alberghi/ristoranti, sanità e commercio si lavora anche a Pasqua e Pasquetta

Secondo i microdati Istat, il settore dove il numero dei lavoratori dipendenti occupati nei giorni di festa è il più alto riguarda gli alberghi/ristoranti con 785.000 unità. Seguono il comparto della sanità/case di cura con 774.500 addetti e il commercio/esercizi pubblici con 689.900 dipendenti. Il totale occupati di questi tre settori è pari a 2.250.000. Se rapportiamo questo importo ai 3.778.700 lavoratori dipendenti totali che secondo il nostro istituto di statistica lavorano nei giorni festivi, l’incidenza è del 60 per cento. Va altresì segnalato che la quota di coloro che tra i lavoratori dipendenti è tenuto a lavorare anche la domenica sul totale dipendenti è pari al 20,4 per cento. La percentuale però sale al 70,2 nel settore degli alberghi/ristoranti, al 32 nel commercio/esercizi pubblici, al 25,7 nella Pubblica amministrazione (statali, militari, forze dell’ordine, etc.) e il 24,5 per cento nel settore del trasporto (di merci e di persone) (vedi Tab. 1).

  • Sardegna, Liguria e Abruzzo le regioni con più occupati nei giorni di festa

Dei 3,8 milioni di dipendenti che in Italia lavorano anche durante le feste comandate, la regione che in termini assoluti ne conta di più è la Lombardia con 593.600 unità. Seguono il Lazio con 465.600, il Veneto con 323.400 e l’Emilia Romagna con 287.400. Se, invece, rapportiamo il dato di chi lavora durante le feste sul totale dipendenti, le regioni che presentano l’incidenza più elevata sono la Sardegna e la Liguria entrambe con il 26,9 per cento. Seguono l’Abruzzo con il 24,9 e il Lazio con il 24,4. Secondo la CGIA, questi risultati sono ascrivibili al fatto che rispetto al totale dei dipendenti, quelli del settore alberghi/ristoranti, commercio e trasporti hanno nelle regioni appena elencate una consistenza percentuale molto elevata, cosa che invece non si registra in Veneto, in Emilia Romagna, nelle Marche e in Lombardia che si collocano in coda alla classifica nazionale (vedi Tab. 2).

  • Se ci confrontiamo con i Paesi UE siamo tra gli ultimi

Rispetto agli altri paesi europei, l’Italia si posiziona nella parte bassa della classifica tra chi lavora durante le festività. Se, in riferimento ai lavoratori dipendenti, nel 2023 la media dell’UE a 27 era del 20,6 per cento – con picchi del 38,6 nei Paesi Bassi, 35,8 a Malta, 35,4 in Finlandia e 32,8 in Danimarca – da noi la percentuale si attestava al 20,4 per cento. Al di sotto della nostra soglia segnaliamo il dato della Spagna che era pari al 19,9 per cento e quello della Germania al 14,6 che era il più basso tra tutti Paesi dell’UE (vedi Tab. 3).

  • La lista delle professioni in servizio nei prossimi due giorni

La CGIA, infine, ha stilato l’elenco delle principali professioni che da sempre lavorano anche la domenica; pertanto, molti di loro saranno in servizio domani e, quasi tutti, il lunedì di Pasquetta. Esso è costituito da: addetti ai musei/cinema/teatri/mostre/stadi/concerti e spettacoli vari, addetti al soccorso stradale, addetti alla gastronomia, addetti alla sicurezza privata, addetti alle imprese funebri, agenti penitenziari, agricoltori, albergatori, allevatori di bestiame, ambulanti, animatori turistici, ascensoristi[3], atleti professionisti, autisti, autonoleggiatori con conducente, autotrasportatori[4], badanti, banconieri, baristi, barman, benzinai, camerieri, cassieri, carabinieri, casellanti, chef, colf, commessi, commercianti, cuochi, disc-jockey, edicolanti, farmacisti, ferrovieri, finanzieri, fioristi, fotografi, fotoreporter, gelatai, giornalisti, guide turistiche, infermieri, magazzinieri, manutentori di impianti di riscaldamento/raffreddamento[5], marinai, medici, musicisti, negozianti, operai su impianti industriali a ciclo continuo, operatori ecologici, operatori radio-Tv, panificatori, pasticceri, pescatori, piloti/assistenti/controllori di volo-personale di terra delle compagnie aeree, pizzaioli, poliziotti, portuali, ristoratori, tour operator, tabaccai, taxisti, tramvieri, vigilantes, vigili del fuoco e vigili urbani.

[1] Segnaliamo, in particolare, gli addetti alla gastronomia, gli autonoleggiatori con conducente, gli autotrasportatori, i fioristi, i gelatai, i manutentori di impianti, gli operatori del soccorso stradale, i panificatori, i pasticceri, i taxisti, etc.

[2] Tutti i CCNL riconoscono a coloro che lavorano nelle giornate festive una maggiorazione retributiva. Alcuni di questi contratti, inoltre, prevedono anche il diritto di beneficiare di un riposo compensativo.

[3] Reperibilità h 24.

[4] Nel giorno di Pasqua il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti ha disposto il divieto di circolazione dei mezzi pesanti dalle 9:00 alle 22:00. Non sono assoggettati al divieto gli automezzi per il trasporto di prodotti deperibili, generi alimentari, prodotti per uso medico, forniture destinate ad aeromobili e ai servizi indispensabili alle attività della marina mercantile, etc. Previa autorizzazione prefettizia, invece, possono derogare al divieto di circolazione i mezzi pesanti utilizzati per il trasporto di prodotti agricoli, di prodotti dell’industria a ciclo continuo, di attrezzature e materiale per poter partecipare a fiere, mercati, manifestazioni sportive, etc.

[5] Nella stragrande maggioranza dei casi è richiesta la reperibilità h 24.


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Affettività in carcere, la rivolta del Sappe: “Non faremo i guardoni di Stato”

Sta suscitando un acceso dibattito la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che introduce linee guida per l’allestimento di spazi dedicati all’affettività all’interno degli istituti penitenziari. In particolare, è il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) a guidare una protesta formale, con una lettera indirizzata al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro e al direttore del personale del Dap, Massimo Parisi.

Il segretario generale del Sappe, Donato Capece, definisce “inaccettabile” che al personale penitenziario venga richiesto di assumere ulteriori mansioni, ritenute estranee al proprio ruolo istituzionale. Nella nota si legge: “Non possiamo tollerare che la dignità professionale dei poliziotti penitenziari venga svilita fino al punto da renderli custodi dell’intimità altrui. Noi non ci siamo arruolati per diventare ‘guardoni di Stato’, né accetteremo che tale ruolo venga normalizzato in assenza di un progetto credibile, serio e sostenibile”.

Oltre all’aspetto operativo, la questione tocca anche alcuni elementi più ampi, come la gestione dei detenuti considerati problematici. Su questo punto è intervenuto anche il deputato della Lega Jacopo Morrone, evidenziando come la circolare non escluda in modo chiaro i detenuti con gravi comportamenti disciplinari o ristretti in sezioni speciali, come quelle previste dall’articolo 32. “C’è una sottovalutazione dei possibili fruitori di questo ulteriore benefit”, ha commentato Morrone.

Secondo il parlamentare, la misura rischia di creare ulteriore disagio tra gli agenti, e riflette una visione che non tiene conto della percezione diffusa tra i cittadini, i quali continuerebbero a considerare il carcere come luogo di espiazione, rieducazione e reinserimento, non di benefici affettivi.

La circolare del Dap, d’altra parte, si inserisce in un contesto giuridico e istituzionale più ampio. La Corte Costituzionale ha recentemente sottolineato l’importanza del mantenimento dei legami affettivi e familiari come parte integrante del percorso rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Tuttavia, l’applicazione concreta di questo principio solleva interrogativi su compatibilità organizzative, sicurezza e sostenibilità per il personale penitenziario.

Il confronto rimane aperto, e il dibattito evidenzia le diverse visioni sul ruolo della detenzione, tra esigenze di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali.


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Rischia il carcere per falso in atto di nascita la madre coniugata che impedisce al marito i propri diritti

Dichiarare il falso all’anagrafe al momento della nascita di un figlio può costare caro, anche se si è in fase di divorzio e si invoca il diritto a trasmettere il proprio cognome. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15138, depositata il 16 aprile 2025, confermando la condanna – ai soli fini civili per intervenuta prescrizione – di una donna che aveva falsamente dichiarato di non essere sposata, omettendo informazioni sul padre del neonato e attribuendogli solo il proprio cognome.

Il caso riguarda una madre, legalmente ancora coniugata, che alla nascita del figlio aveva compilato il modulo destinato ai bambini “riconosciuti dalla sola madre naturale”, affermando di essere divorziata e di non avere più notizie del marito. Una dichiarazione che ha impedito al padre biologico di riconoscere il bambino per oltre tre anni, finché non è intervenuto il tribunale.

Secondo la Suprema Corte, la donna ha agito in maniera consapevole, violando il vincolo matrimoniale ancora in essere e impedendo al padre – che si era anche presentato all’ospedale per la registrazione – di esercitare i propri diritti. In questo comportamento, la Cassazione ha ravvisato una doppia falsità: l’inesistenza del divorzio e l’occultamento volontario della presenza del padre.

L’elemento centrale della sentenza riguarda l’irrilevanza, ai fini penali, della decisione della Corte costituzionale n. 131 del 2022, che ha riconosciuto il diritto dei genitori di scegliere liberamente il cognome del figlio. La Cassazione precisa che questa sentenza non legittima la madre a nascondere l’esistenza del matrimonio né a compiere dichiarazioni unilaterali sull’identità del figlio. Il cognome, infatti, può essere scelto congiuntamente dai genitori o attribuito secondo l’ordine da loro concordato. Diversamente, l’atto risulta irregolare e penalmente rilevante.

La V Sezione penale della Corte ha quindi rigettato i ricorsi difensivi, sottolineando che “alla nuova disciplina non può annettersi alcuna valenza scriminante” e che non sussistono i presupposti per prosciogliere l’imputata. In assenza della prescrizione, la pena prevista sarebbe stata tra 1 e 5 anni di reclusione.

Una pronuncia che fa chiarezza su un tema delicato, ribadendo i limiti entro cui possono esercitarsi i nuovi diritti in materia di filiazione e cognome, e richiamando al rispetto della verità nei rapporti con le istituzioni.


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