riforma del processo civile

La riforma del processo civile: riduzione dei tempi e semplificazione

La riforma del processo civile trova il via libera con la seduta del 5 dicembre 2019 del Consiglio dei Ministri.

Gli obiettivi della riforma si possono riassumere nelle parole del premier Conte: «garantire un servizio della giustizia civile ancora più efficiente e attrarre più investitori».
In sostanza, si vogliono ridurre i tempi della giustizia e semplificare le regole che governano la procedura civile, in modo da rendere lo scenario più appetibile alle imprese che decidono di investire nel nostro paese.

Ma qual è il rapporto tra una giustizia efficiente e la presenza di investimenti stranieri?
Semplice: un ambiente legale efficiente aumenta la competitività del paese.

Correva l’anno 213 quando Edward Luttwak, politologo ed esperto statunitense di strategie militari, in un’intervista rilasciata a Panorama criticava la giustizia italiana additandola come una delle principali cause della mancanza di investimenti stranieri nel nostro paese. A suo parere, 3 i motivi:

  • – la lentezza del sistema, incompatibile con la certezza del diritto,
  • – l’arbitrarietà dei magistrati e la possibilità di arrestare le persone senza le prove richieste dal principio dell’habeas corpus,
  • – l’ “imperialismo giurisprudenziale”, ovvero la criminalizzazione di  attività economiche o di eventi che in altri paesi sono soggetti alla sola giustizia civile.

La riforma che entrerà in vigore il prossimo gennaio 2020 è partita proprio dall’analisi di cosa non funziona.
Sono emersi 2 ostacoli:

  • – troppi tempi morti durante i processi;
  • – troppe regole diverse in base al tipo di procedimento.

 L’ovvia conclusione è che meno regole (e meno passaggi) renderanno il sistema più snello e, conseguentemente, più veloce.

riforma del processo civile
Immagine tratta dal video della conferenza stampa del Presidente Conte e del Ministro Bonafede, Consiglio dei Ministri n. 15, 5/12/19.

LE PRINCIPALI NOVITÀ DELLA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE

Ecco alcune delle novità introdotte dalla riforma del processo civile.

I riti di riferimento passano da 3 a 1 solo (riduzione già prevista dal d.lgs 150/2011).

– Vi è un unico atto introduttivo, il ricorso.

– Viene cancellata l’udienza di precisazione delle conclusioni così da ridurre il numero delle udienze.

Il perimetro della causa deve essere definito prima della prima udienza e il calendario del processo deve essere fornito alle parti fin da subito.

– Anche il processo d’appello e rito collegiale vengono riformati su misura dell’unico rito sopravvissuto.

– Anche il rito davanti al giudice di pace viene semplificato: viene eliminato l’obbligo del tentativo di conciliazione in quei settori in cui si è spesso rivelato poco performante. Contemporaneamente, l’obbligo viene esteso ad altre controversie.

Si investe nella digitalizzazione del processo civile.
Alle parti viene richiesto di depositare i documenti e gli atti esclusivamente con modalità telematiche.
Viene inserito il divieto per l’ufficiale giudiziario di notifica cartacea se il destinatario possiede un domicilio digitale o un indirizzo pec.
La digitalizzazione riguarda anche la Cassazione e i processi davanti al giudice di pace.

– Viene abrogato il rito Fornero, che offriva una corsia preferenziale alle controversie sul licenziamento illegittimo, e si ritorna al rito unico, sempre nell’ottica di accelerare le tempistiche dei procedimenti.

– In tema di espropriazione immobiliare vengono introdotte nuove norme per garantire una maggior tutela del debitore e la possibilità, per quest’ultimo, di ottenere l’autorizzazione da parte del giudice a vendere direttamente il bene pignorato.

– La riforma si muove a favore della leale collaborazione delle parti. Significa che si vuole disincentivare l’uso della giustizia come mezzo per ledere i diritti altrui.
Con la riforma, ha spiegato il Ministro Bonafede durante la conferenza stampa della scorsa settimana, si vuole che «Il ‘fammi causa’ [ndr: tanto il processo durerà all’infinito] non sia più una minaccia possibile. Chi fa una causa temeraria o chi resiste in una causa non solo paga il risarcimento, ma deve pagare una sanzione a favore della Cassa delle Ammende perché ha creato un danno anche allo Stato».

Il risultato finale della riforma del processo civile sarà un processo con una struttura, come dice Bonafede, ‘a fisarmonica‘: se la causa è semplice, dovrà essere risolta in poche udienze, impiegando la metà del tempo necessario oggi.

Guarda il video integrale della conferenza stampa ufficiale.

https://www.youtube.com/watch?time_continue=334&v=lYNS3QefhJk&feature=emb_logo 15:45

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Antiriciclaggio: le regole tecniche emesse dal CNF

Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, il riciclaggio di denaro sporco incide sul PIL del pianeta in una percentuale compresa tra il 3 e il 5%.

Secondo la Banca d’Italia, nel nostro paese la percentuale sale al 10% del PIL totale, una cifra compresa tra i 150 e160 miliardi di euro all’anno.

Le attività illecite coinvolte sono soprattutto il narcotraffico (7,7 miliardi di euro), le estorsioni (4,7 miliardi), lo sfruttamento della prostituzione (4,6 miliardi) e la contraffazione (4,5 miliardi).

Nonostante questi dati possano sembrare sconfortanti, c’è da dire che nel 2018 l’Unità di Informazione Finanziaria (UIF) ha ricevuto 98.030 segnalazioni di operazioni sospette,  il 4,5 % in più rispetto al 2017.

L’aumento delle segnalazioni è dovuto soprattutto a una maggiore partecipazione di coloro che operano nel settore dei giochi (+94,9%) e degli intermediari e altri operatori finanziari (+20,9%).

In calo, invece, le segnalazioni da parte di professionisti, specie commercialisti, avvocati e studi interprofessionali (da 4.969 a 4.818).

Da un punto di vista geografico, le segnalazioni sono aumentate in modo marcato in Campania (da 10.863 a 12.183) e in Calabria (da 2.657 a 2.696). In diminuzione quelle nelle regioni del Nord, a causa delle minori segnalazioni a seguito di voluntary disclosure.

VOLUNTARY DISCLOSURE

La voluntary disclosure fu introdotta la prima volta con l’articolo 1 della legge 186/2014 allo scopo di far rientrare in Italia capitali depositati all’estero.

Tale procedura permetteva a chi deteneva capitali all’estero in modo illecito di regolarizzare la propria posizione. Potemmo dire che consisteva in una sorta di “autodenuncia” al Fisco che consentiva al soggetto di regolarizzare la sua posizione, anche a livello penale, ottenendo uno sconto sulle sanzione.

Il modello della voluntary disclosure fu ripreso nel 2017, questa volta per far emergere introiti derivanti da attività interne non dichiarate al Fisco.

AVVOCATI E REGOLE ANTIRICICLAGGIO

Nella gestione della propria attività, è bene che gli avvocati si dotino di strumenti e procedure che li aiutino a gestire al meglio il rischio connesso al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo.

Nonostante non esista un modello standard (ogni professionista si trova infatti ad affrontare una molteplicità di situazioni che possono esporlo a tale rischio), il CNF ha emanato, lo scorso 20 settembre 2019, 14 regole tecniche che offrono dei riferimenti utili all’analisi e alla valutazione del rischio, ai controlli interni e alla verifica della clientela.

Gli avvocati sono liberi di applicare del tutto o in parte tali regole.

IL BASSO RISCHIO

Le linee guide del CNF suggeriscono due strumenti utili a ridurre il rischio connesso al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo:

  • la creazione e l’uso di un documento di autovalutazione;
  • la creazione di una procedura di profilazione del cliente.

Il processo di analisi deve permettere all’avvocato di capire qual è il grado di rischio e, da lì, decidere quali contromisure adottare.
Più il rischio è basso e più il controllo da parte dell’avvocato potrà essere superficiale e semplice.

Tra i soggetti considerati a “basso rischio” figurano:

– le pubbliche amministrazioni ovvero organismi o enti che svolgono funzioni pubbliche, anche conformemente al diritto UE;
società ammesse alla quotazione su mercati regolamentati nella UE;
società ammesse alla quotazione su mercati regolamentati extra UE a condizione che non siano situate in Paesi terzi ad alto rischio;
i soggetti sottoposti a vigilanza ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 1993 no. 385, del D. Lgs. 24 febbraio 1998 no. 58 e del D. Lgs. 7 settembre 2005 n. 209;
enti creditizi o finanziari situati in uno Stato extra UE, di cui all’art. 23, comma 2, lettera c, numeri 2), 3), e 4);
clienti con sede legale in aree geografiche a basso rischio.

Gli Avvocati possono eseguire la valutazione del rischio autonomamente, oppure affidarsi a professionisti o società di consulenza.

I fascicoli di analisi relativi ai propri clienti possono essere conservati in modalità cartacea, digitale o entrambe.

VERIFICA DEL CLIENTE  E IDENTIFICAZIONE DEL TITOLARE EFFETTIVO

Il titolare effettivo è la persona fisica o le persone fisiche nell’interesse della quale o delle quali, il rapporto continuativo è istaurato, la prestazione professionale è resa o l’operazione è eseguita.

Non sempre coincide col cliente.

L’avvocato deve dunque identificare e verificare il proprio cliente e l’eventuale titolare effettivo.

Ai fini dell’identificazione del cliente, è sufficiente ottenere la fotocopia del documento di identità di questo.

La verifica può essere svolta:
raccogliendo dati e informazioni attraverso percorsi guidati o questionari, anche facendo uso di  software che assegnino in modo automatico la classe di rischio;
richiedendo al cliente una dichiarazione che confermi i dati e le informazioni fornite.

Per l’identificazione dell’eventuale titolare effettivo, è sufficiente ottenere una dichiarazione, purché ragionevolmente attendibile, dello stesso titolare effettivo o una dichiarazione del cliente con allegata l’eventuale documentazione atta ad identificarlo (es. visura CCIA).

In caso di clienti a basso rischio, l’Avvocato può avvalersi di una procedura semplificata che gli permette di compiere controlli con cadenze più ampie, anche triennali, e lo esonera dal:
raccogliere informazioni dettagliate sulla situazione economica e patrimoniale dell’assistito;
verificare in maniera approfondita la provenienza dei fondi e delle risorse a disposizione di questo.

Molti altri sono i dettagli da considerare nelle procedure di valutazione del rischio connesso al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo.
Per tale motivo, vi invitiamo a prendere visione dei seguenti documenti emessi dal CNF: Criteri e metodologie di analisi e valutazione del rischio e Regole Tecniche In materia di procedure e metodologia di analisi e valutazione del rischio.

 

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società di capitali

L’UNCC chiede la cancellazione delle società di capitali dagli albi degli avvocati

È di pochi giorni fa la notizia che l’Unione Nazionale delle Camere Civili ha inoltrato ai Consigli dell’Ordine degli avvocati competenti per territorio una «istanza di cancellazione delle società di capitali iscritte nei loro albi».

L’Uncc ritiene infatti illegittime alcune disposizioni previste dalla legge 124/ 2017, in particolare quelle che consentono l’esercizio della professione forense a società di capitali, composte da una pluralità di soggetti, non solo avvocati, ma anche professionisti iscritti ad altri albi e soci di capitale».

Come ha sottolineato Antonio de Notaristefani, presidente dell’Uncc, le società di capitali sono guidate da interessi di tipo economico e commerciale.

L’Uncc spiega quindi che dalla normativa del 2017 «discende una commistione di interessi tra avvocati e imprese commerciali che ha conseguenze dirette sull’esercizio dell’attività forense, non più libera e indipendente, ma condizionata da strategie commerciali esterne. Un contesto che viola apertamente il diritto di difesa, la libertà di iniziativa economica e il diritto a un giusto processo previsti espressamente dagli articoli 24, 41 e 111 della Costituzione».

L’istanza ha l’obiettivo di superare una normativa considerata illegittima e ripristinare la la piena autonomia della classe forense, prerequisito essenziale per poter garantire lo svolgimento di un giusto processo.

SOCIETÀ DI CAPITALI E AVVOCATI

La forma societaria per gli avvocati era stata introdotta una prima volta dal D. lgs. 96/2001 in attuazione della direttiva 98/5/CE, ma non aveva trovato grande diffusione. Le cause? Probabilmente la concessione di unica forma societaria (società in nome collettivo) e la scarsa convenienza fiscale.

La Legge 124/2017 ha poi concesso la possibilità di costituire di società di capitali, ovvero società aperte anche a soggetti non professionisti, a patto che gli avvocati rappresentassero almeno i 2/3 del capitale e costituissero la maggioranza degli aventi diritto al voto.

Già all’epoca, parte del mondo forense reagì con preoccupazione.
A sollevare particolari timori vi era l’idea che i soci di capitali avrebbero investito risorse negli studi più grandi (più redditizi) decretando la fine di quelli più piccoli (che rappresentano la forma tipica nel nostro paese) e che l’indipendenza e l’autonomia degli avvocati sarebbero state assoggettate alle regole del profitto.

A quanto pare, nonostante sia passato qualche anno, tali preoccupazioni sono ancora vive.

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sospensione cautelare.

Modifiche alla sospensione cautelare

Il 12 luglio scorso, a seguito di consultazioni, il Consiglio Nazionale Forense ha deliberato le modifiche all’art.32, titolo III del regolamento CNF 2/2014, relativo alla sospensione cautelare.

La modifica principale riguarda le tempistiche di intervento, che diventano più brevi per far fronte a casi di assoluta urgenza che minano l’immagine della categoria.

Con l’entrata in vigore delle modifiche, non sarà più necessario attendere la designazione della Sezione del Consiglio Distrettuale di Disciplina (che però potrà sempre revocare o modificare la sospensione), ma la misura potrà essere applicata da una sezione specificatamente incaricata dal Presidente.

LA SOSPENSIONE CAUTELARE, QUANDO SI APPLICA

L’art.60 della legge 247 del 2012 stabilisce che la sospensione cautelare è adottata in caso di:

  1. applicazione di misura cautelare detentiva o interdittiva irrogata in sede penale e non impugnata o confermata in sede di riesame o di appello;
  2. pena accessoria di cui all’articolo 35 c.p., anche se è stata disposta la sospensione condizionale della pena, irrogata con la sentenza penale di primo grado;
  3. applicazione di misura di sicurezza detentiva;
  4. condanna in primo grado per i reati previsti nei seguenti articoli del codice penale: 372 (falsa testimonianza), 374 (frode processuale), 377 (intralcio alla giustizia), 378 (favoreggiamento personale), 381 (altre infedeltà del patrocinatore), 640 (truffa) e 646 (appropriazione indebita), se commessi nell’ambito dell’esercizio della professione o del tirocinio; art. 244 (atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra), 648bis (riciclaggio) e 648ter (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita);
  5. condanna a pena detentiva non inferiore a tre anni.

A propendere per l’applicazione della misura intervengono due fattori:

  • la gravità dei fatti che hanno portato alle sanzioni e la loro incompatibilità con i principi etici e morali alla base della professione;
  • l’impatto sull’immagine e la dignità della categoria.

NON APPLICABILITÀ, REVOCA E MODIFICA

La sospensione deve essere sempre adeguatamente motivata, pena la sua illegittimità. Non può essere superiore a 1 anno e diventa esecutiva dal momento della notifica all’interessato.

Non è applicabile quando la Sezione competente:

  • non deliberi il provvedimento sanzionatorio entro i 6 mesi dalla condanna;
  • deliberi che non vi siano i presupposti per dare luogo alla sanzione;
  • disponga l’applicazione della sanzione di avvertimento o censura.

La sospensione cautelare può essere revocata o modificata dalla Sezione qualora non venga considerata adeguata alla gravità di quanto commesso.

Lo stesso avvocato può muovere istanza di revoca o modifica e può fare ricorso al CNF entro 20 giorni dalla notifica del provvedimento.
Il ricorso non sospende l’esecuzione della misura.

L’applicazione della sospensione impedisce all’avvocato lo svolgimento delle attività processuali, ma non lo solleva dall’obbligo di ricevere tutti gli atti relativi ai propri incarichi e al suo ruolo professionale.

Per approfondire, leggi il documento originale.

 

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VIDEO: Quando passione e professione si incontrano: intervista all’Avv. Stefanutti sul diritto d’autore

Cesare Pavese disse che “finché si avranno passioni non si cesserà di scoprire il mondo”.E questo è particolarmente vero per chi ha, come passione, la fotografia.
Con la macchina davanti agli occhi, l’appassionato di fotografia osserva il mondo da un punto di vista unico, individuando forme, colori ed emozioni precluse agli altri.

E se l’appassionato di fotografia fosse anche un avvocato?

L’Avv. Massimo Stefanutti di Marghera (VE) è uno dei maggiori esponenti di fotografia stenopeica a livello nazionale e internazionale, membro dell’Osservatorio Nazionale per la Fotografia Stenopeica presso il Museo dell’Arte e dell’Informazione (MUSINF) di Senigallia dal 2008 al 2012 e curatore d’importanti rassegne.
Ma è anche un avvocato dal 1985 ed è il primo photography lawyer italiano, esperto di diritto della fotografia e della proprietà intellettuale.

Chi meglio di lui può raccontare il rapporto tra passione e lavoro e spiegarci come le nuove tecnologie stanno impattando sul diritto d’autore?

D: Avv. Stefanutti, la sua passione per la fotografia come ha inciso sulla sua professione?

I mercati cambiano e bisogna adeguarsi.
Le crisi, in particolare quelle degli anni 2000, quando la tecnologia ha iniziato a entrare nella professione, hanno imposto un cambio nella mia professione.
In particolare, la consapevolezza di dover cambiare e capire cosa volesse il mercato è arrivata con la grande crisi del 2008.

Mi interesso di fotografia da quando avevo 20 anni e proprio intorno nei primi 2000, quasi per caso, ho seguito una causa legata alla fotografia e agli avvenimenti di Genova.
Da lì mi sono accorto che le mie competenze da fotografo amatoriale ma serio e quelle di avvocato si incrociavano!

Guardandomi attorno e confrontandomi con altri fotografi, anche molto grandi, mi sono avvicinato allo studio del diritto d’autore e nel 2010 ho iniziato a fare corsi di diritto della fotografia, l’unico in Italia.

Il fatto di essere io stesso fotografo mi facilita il lavoro: quando un cliente fotografo si rivolge a me, so benissimo di cosa stiamo parlando.

Il problema maggiore riguarda la legislazione in materia, che risale al 1941 ed è ormai sorpassata.

Durante il precedente governo, con gli Stati generali della fotografia, si era iniziato un processo di rinnovamento, ma con la caduta dell’esecutivo il processo si è fermato.

Il diritto della fotografia richiede poi uno studio che non finisce mai, perché non esiste solo l’Italia e testi di diritto comparato ce ne sono pochi.   

D: Perché gli utenti faticano a capire che le immagini pubblicate su Internet non sono svincolate dal diritto d’autore?

C’è un primo problema culturale e poi ce n’è uno etico.
Il problema culturale sta nel fatto che un utente dovrebbe intuire, se non proprio conoscere, l’esistenza del diritto d’autore.
Quello etico è più grave: se il 50% degli usi impropri di fotografie è dettato dall’ignoranza, un altro 40% è fatto con consapevolezza. C’è dolo. Il rimanente 10% ne è parzialmente consapevole, sta attento, ma ritiene di poter usare le immagini.

Questo vale non solo per i privati, ma anche per le aziende e i giornali.

Un tempo questo problema non si presentava, poiché all’interno dei giornali esisteva il fotoeditor, una figura che sapeva come trattare la fotografia, cosa poteva essere usato e cosa no. Ora questa figura spesso manca, soprattutto nell’online.

Si potrebbe credere che siano i giornali di gossip ad avere i maggiori problemi legati al diritto d’autore, ma le cose sono cambiate moltissimo.
Se un tempo c’era l’abitudine di usare foto prese da tutte le parti, senza l’autorizzazione dell’autore, oggi la quasi totalità delle fotografie viene commissionata dagli stessi vip.

D: Cosa ne pensa del rapporto tra avvocati e tecnologie?

Noi avvocati facciamo fatica ad adattarci ai cambiamenti tecnologici, ma non credo che verremo sostituiti da robot, poiché il rapporto professionale e personale col cliente non può essere gestito da un mero algoritmo.
In ogni caso, ad oggi le tecnologie sono indispensabili per svolgere il mio lavoro.

La tecnologia va però controllata.
Pensi che, recentemente, un dispositivo Alexa Echo di Amazon è stato chiamato a testimoniare in un caso di omicidio, poiché potenzialmente in ascolto al momento del delitto.

E se un robot facesse una foto, di chi sarebbe la foto? Di chi sono le foto di Google Street View? E le foto dei satelliti? Esiste un diritto d’autore in questi casi?
In linea di massima no, poiché non vi è un autore riconosciuto.

A tal proposito le racconto del caso del Macaco di Slater.

Un giorno David Slater, fotografo naturalista, piazza delle fotocamere nella foresta del Borneo lasciando il comando dello scatto a distanza inserito. Un macaco si avvicina e inizia a giocare con la macchina, facendo scattare l’obiettivo. Il risultato sono alcune bellissime foto, dei veri e propri selfie, che Slater pubblica sul suo sito.
Wikipedia le prende e le ripubblica.
Slater ne rivendica la proprietà, ma gli viene ribattuto che l’autore è la scimmia, priva di personalità giuridica, e quindi le foto sono di dominio pubblico.
La vicenda si conclude con una sentenza USA di 1200 pagine in cui si dice che piante e animali non possono essere considerati autori di fotografie, tanto meno possono esserlo divinità o entità soprannaturali!
Se però il processo si fosse tenuto in Gran Bretagna il risultato sarebbe potuto essere diverso, poiché vi è una norma che stabilisce che il proprietario del mezzo è anche proprietario della foto.

In Italia siamo un po’ indietro per quanto riguarda il diritto di autore in materia fotografica. Secondo me dovrebbe esserci un solo principio: tutte le foto sono coperte dal diritto d’autore.
Se così fosse, il mercato reagirebbe in modo diverso e i fotografi avrebbero il loro riconoscimento.

D: Se ci fosse una maggior tutela del diritto d’autore si potrebbe vedere un miglioramento della qualità dei contenuti. Ora è troppo facile: apro Google e prendo una foto senza farmi problemi.

Non è detto che in futuro sarà ancora possibile attingere a Google Immagini.

Si sta spingendo perché Google pubblichi solo ciò che è vincolato da un accordo con il creatore/editore in modo che quest’ultimo si veda riconosciuto il suo compenso.
In Francia esiste già una legge.
La difficoltà sta nel gestire questa novità: se per i testi è possibile creare una piccola anteprima del contenuto, un estratto, per le immagini come si può fare?

C’è poi da dire che il diritto d’autore deve essere tutelato, ma la cultura deve circolare.

Ciò che serve è un principio di condivisione che permetta di far girare le opere quando queste non sono usate a scopo di lucro e che riconosca il diritto d’autore quando invece lo sono.

Arrivare a questo risultato è un po’ difficile, soprattutto considerando che le reti locali (basti pensare ai vincoli all’uso di internet in Cina o in Russia) stanno prendendo spazio rispetto al concetto di Internet libero e internazionale.
Internet dei primi tempi ormai non esiste più.

Al momento, l’unico modo per tutelare le proprie foto online è l’uso di un watermark, anche se rovina un po’ il risultato.

D: Qual è la sua visione del futuro del diritto d’autore?

Il diritto d’autore serve, ma non come è oggi: troppo ottocentesco, legato al concetto di creatività e genio che produce delle cose.

La realtà è cambiata.

Il diritto d’autore dovrebbe servire a distinguere, appunto, tra ciò che è d’autore e ciò che non lo è. Nella fotografia questo è quasi impossibile: dov’è la creatività? Cos’è la creatività? Ben pochi giudici sono in grado di capirlo.
I più giovani un po’ ci riescono, ma le generazioni passate non capiscono lo strumento, il perché.
Per capirlo, bisogna studiare la fotografia, e le più grandi idee a riguardo sono successive alla seconda guerra mondiale. Se uno è appassionato le scopre, ma se non lo è e si limita a riferirsi alle sentenze della Cassazione, prodotte da giudici di 60 anni, finisce a parlare di fenomeni che non comprende.

D: Cosa pensa della democratizzazione dei mezzi fotografici?

È una questione di mercato.

Oggi un fotografo deve pagare per entrare nel mercato.
Certamente esistono risultati di qualità più alta o più bassa, come in ogni settore, ma con la fotografia è più difficile distinguere.

Io sostengo che la fotografia sia un flusso di coscienza, infatti possiamo far fotografare lo stesso soggetto a 10 persone diverse e avremo 10 foto diverse.

Più che una democratizzazione della fotografia, c’è solo una facilitazione del mezzo d’uso.
Una volta la fotografia era ‘di nicchia’ perché aveva procedimenti complessi e, all’interno della nicchia, c’era chi creava cose belle e chi ne creava di meno belle.
Oggi che tutti hanno accesso alla fotografia e tutti possono ottenere ottimi risultati tecnici, dov’è la differenza tra una foto bella e una brutta?

La fotografia è un atto e non un fatto (un risultato). Non è la tecnica o la creatività a fare la differenza. È il linguaggio usato.
È lo sguardo del fotografo, quel qualcosa che porta via dalla realtà.

Ogni foto è un prelievo dal mondo.

validità del registro INI-PEC

Corretta l’ordinanza sulla mancata validità del registro INI-PEC

Con ordinanza n. 29749/2019 pubblicata il 15 novembre 2019 la Cassazione ha corretto la precedente 24160/2019 cancellando la frase relativa alla mancanza di validità del registro INI-PEC ai fini della regolarità dell’indirizzo di posta elettronica certificata al quale inviare le notifiche pec.

La correzione riguarda la seguente frase:

«questo a prescindere dal fatto che il ricorso è stato notificato a mezzo pec […] e a un indirizzo di posta elettronica del Protocollo del Tribunale di Firenze, estratto dall’indice nazionale degli indirizzi INI-PEC, elenco che […] è stato dichiarato non attendibile da Cass. n. 3709 del giorno 8 febbraio 2019, secondo cui “per una valida notifica tramite PEC si deve estrarre l’indirizzo del destinatario solo dal pubblico registro REGINE e non sal pubblico registro INI-PEC” […]»

Convertita in:

«questo a prescindere dal fatto che il ricorso è stato notificato a mezzo pec […] e a un indirizzo di posta elettronica del Protocollo del Tribunale di Firenze, estratto dall’indice nazionale degli indirizzi INI-PEC»

Il riferimento alla precedente ordinanza e alla presunta invalidità del registro INIPEC sono quindi stati eliminati.

LA MANCATA VALIDITÀ DEL REGISTRO INI-PEC

La dichiarazione di invalidità di INI-PEC ha comportato un problema non da poco, poiché è nel registro INI-PEC che sono contenuti gli indirizzi di posta elettronica certificata di aziende e società.

Inoltre, tale invalidità si poneva in contrasto con quanto indicato nel CAD, Codice dell’Amministrazione Digitale, e nel DL. 179/2012, che indicano chiaramente come pubblici elenchi validi ai fini delle notifiche pec:

  • il registro PP.AA,
  • – il Registro Imprese,
  • – il Reginde,
  • – l’INI-PEC.

L’incoerenza mostrata dalle ordinanze aveva sollevato diverse perplessità tra gli avvocati, spingendo il presidente del CNF, Avv. Mascherin, a inviare una nota al Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, Dott. Giovanni Mammone, in cui sottolineava l’inadeguatezza dell’ordinanza 29749/2019 e i problemi che questa avrebbe potuto generare.

La Cassazione ha ascoltato tali perplessità e ha corretto la sua stessa ordinanza per «evitare che detto principio venga inteso come espressione di un effettivo convincimento esegetico della Corte nei termini in cui figura letteralmente espresso».

Dopo aver riconosciuto espressamente l’errore materiale contenuto nell’ordinanza 29749/2019, la Cassazione ha preannunciato che un simile procedimento di correzione di errore materiale verrà applicato anche alla sentenza 3709/ 2019, che per prima aveva suggerito l’inadeguatezza delle notifiche pec verso indirizzi tratti dal registro INI- PEC.

Scopri la PEC di Servicematica

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errori giudiziari

Esiste un metodo scientifico per evitare gli errori giudiziari?

Gli errori giudiziari rappresentano però una macchia sull’immagine della Giustizia, nonché un costo: dal 1992 al 2017 lo Stato ha versato circa 656 milioni di euro in risarcimento alle vittime di ingiusta detenzione.

Interrogarsi sulle cause di questi errori e cercare soluzioni affidabili sono stati i temi al centro del recente convegno “Gli errori giudiziari e la loro riduzione, le linee guida psicoforensi” tenutosi presso la sede del Consiglio Nazionale Forense e che ha visto la partecipazione di psicologi forensi, avvocati e magistrati.

Durante il convegno, Guglielmo Gulotta, professore, psichiatra e anche avvocato, ha presentato le “linee guida psicoforensi” che, come suggerisce il loro nome, hanno lo scopo di offrire dei riferimenti per evitare o gestire una serie di bias cognitivi che possono portare a errori giudiziari.

ESEMPI DI BIAS COGNITIVI CHE PORTANO AD ERRORI GIUDIZIARI

Uno di questi bias è la cosiddetta ‘visione a tunnel’.
Una volta formulata un’ipotesi, la mente umana tende a riconoscere e a sottolineare tutto ciò che la conferma, mentre tende a ignorare o a riconoscere poca importanza a ciò che la confuta.
Un esempio di come questo bias possa influenzare un caso giudiziario riguarda le identificazioni: il comportamento dell’ufficiale può essere condizionato dal sapere o meno se, dall’altra parte del vetro, si trovi o meno il sospettato, e questo condizionamento si ripercuote sul giudizio della vittima chiamata a identificare.

Un altro bias riguarda l’effetto di domande che possono spingere un testimone verso alcune dichiarazioni e non altre o a revisionare i propri ricordi.

Anche la valutazione di malattie psichiatriche che possano modificare la percezione del delitto è soggetta a inciampi. Infatti, tale valutazione si basa soprattutto su quanto dichiarato dal ‘paziente’ stesso e sono, quindi, fortemente influenzate da aspetti soggettivi.

Che dire poi del peso che stereotipi e pregiudizi hanno sul giudizio dei sospettati?

COME PREVENIRE GLI ERRORI GIUDIZIARI

Trovare un metodo scientifico che possa aiutare ad evitare errori giudiziari non è cosa semplice.

Il primo problema evidenziato da Guglielmo Gulotta è la mancanza di un sistema simile a quello presente nei paesi anglosassoni, dove esistono database creati a partire dalle sentenze di revisione e che consentono di riconoscere e analizzare gli errori più comuni.
Un simile lavoro di analisi permetterebbe di riconoscere i punti deboli del sistema e, conseguentemente, di individuare più facilmente eventuali contromisure.

Uno di questi punti deboli si trova, secondo il penalista Antonio Forza, nella fase investigativa, almeno per quanto riguarda i processi penali: “l’investigatore rischia di orientarsi in una determinata direzione perdendo di vista tutti gli elementi non in linea con questa”.

Neuroscienze e tecnologie rappresentano un valido aiuto nella prevenzione dell’errore.
Riprendendo l’esempio della valutazione di una malattia psichiatrica come attenuante, una semplice risonanza magnetica al cervello permetterebbe di avere un dato oggettivo, non manipolabile, a supporto o meno della percezione del ‘paziente’.

Studi e ricerche affidabili rappresentano un’ottima fonte dalla quale trarre informazioni che possano portare a un giudizio meno influenzato da bias cognitivi.

Ma, poiché gli errori giudiziari sono fondamentalmente errori umani, uno degli aspetti su cui è indispensabile lavorare è la consapevolezza dei soggetti coinvolti nel procedimento.
Le “linee guida psicoforensi”offrono indicazioni concettuali e metodologiche che avvocati, giudici e altri soggetti possono applicare facilmente e che permettono, già da sole, di gestire alcuni dei processi mentali più rischiosi.

Leggi il testo originale delle “linee guida psicoforensi”.

[Parte delle informazioni contenute in questi articolo sono tratta da “Il convegno, gli psicologi, i legali e le toghe insieme per ridurre gli errori giudiziari “pubblicato su Il Dubbio il 7 novembre 2019]

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segreto professionale

Il segreto professionale in caso di testimonianze e intercettazioni

Il segreto professionale è uno dei capisaldi della professione forense (e non solo) ed è chiaramente indicato nell’art. 13 del Codice Deontologico.
Tale articolo stabilisce che “l’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali.

Da ciò si intuisce che la riservatezza è un dovere e che ricade non solo sul rapporto coi propri assistiti, ma anche su quello con gli ex clienti e con chi si rivolge all’avvocato per un consulto, anche senza un mandato accettato.

L’importanza di questo principio è facile da intuire: solo in un contesto di riservatezza è possibile che si crei fiducia tra avvocato e assistito.

Ma come si combina questo diritto/dovere alla segretezza con le esigenze richieste da mezzi di prova come le testimonianze o le intercettazioni?

SEGRETO PROFESSIONALE E TESTIMONIANZE

L’esenzione dalla testimonianza è ben chiarito nell’art. 200 del Codice di Procedura Penale, in cui vengono anche indicati su quali soggetti ricada. Tra questi figurano:
– i ministri di confessioni religiose i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano;
– i medici e i chirurgi, i farmacisti, le ostetriche e altri professionisti del settore sanitario;
  gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici, i notai e gli avvocati.

A regolamentare tale esenzione per gli avvocati interviene l’art. 58 del Codice Deontologico Forense (esteso anche ai praticanti) indicando che “per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto. L’avvocato non deve mai impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio.”

Si deduce che l’esenzione ha quindi dei limiti. Infatti, essa ricade solo su fatti e informazioni raccolte durante il proprio ministero difensivo e non si estende affatto, come molti comuni cittadini potrebbero credere, a qualsiasi tipo di intervento.

Inoltre, possiede una certa facoltatività.

Sempre l’art.58 dice che “qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo

L’obbligo alla rinuncia del mandato in caso di testimonianza è giustificato dalla necessità di non confondere il ruolo di difensore con quello di testimone, ruoli che presentano profonde differenze e non possono certamente sovrapporsi.

Potremmo quindi dire che l’esenzione dalla testimonianza intercorre solo in presenza di due fattori. Il primo, legato all’effettivo ruolo di difensore ricoperto dall’avvocato, e il secondo, che lega il contenuto della testimonianza a quanto appreso durante il proprio mandato. 

SEGRETO PROFESSIONALE E INTERCETTAZIONI

L’art.103 c.p.p. prevede:

  • il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari e di quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite;
  • il divieto di utilizzazione di tali intercettazioni;
  • il divieto di trascrizionequando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate”.

Il divieto di intercettare le comunicazioni tra avvocato e assistito rientra nella tutela del segreto professionale e del rapporto di fiducia fra i due soggetti.

La difficoltà nel rispettare tale divieto si nasconde nel fatto che non è sempre possibile sapere a priori se l’intercettato stia parlando con il proprio avvocato.

Questo discernimento è possibile solo a posteriori, dopo aver raccolto e ascoltato l’intercettazione.

E cosa succede se il contenuto dell’intercettazione riguarda attività illegali?

Così come per l’esenzione dalla testimonianza, anche il divieto di intercettazione (e il suo uso) ha dei limiti.

In tal senso, emblematico è il caso di un commercialista intercettato mentre suggeriva a un cliente di aprire un conto corrente estero e far figurare la propria attività in un Paese extra Ue al fine di eludere la tassazione italiana.
Il contenuto illecito dell’intercettazione ha permesso l’uso della stessa e ha decretato la condanna del professionista.

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Nuove tecnologie: le sfide future della professione legale

Sfruttamento dei dati e sicurezza, velocità di esecuzione, specializzazione e clienti più esigenti. Queste sembrano essere le sfide future della professione legale che spingono gli avvocati a considerare sempre più l’uso delle tecnologie.

Un quadro preciso ci viene fornito dal report Future Ready Lawyer Survey 2019 di Wolters Kluwer Legal & Regulatory, realizzato intervistando 700 avvocati di law firm, uffici legali e società di consulenza aziendale negli Stati Uniti e in 10 Paesi europei (Regno Unito, Germania, Paesi Bassi, Italia, Francia, Spagna, Polonia, Belgio, Ungheria e Repubblica Ceca) nel periodo compreso tra dicembre 2018 e gennaio 2019..

L’obiettivo della ricerca era proprio analizzare in che modo la tecnologia e altri fattori influenzeranno la professione legale e come gli studi si stanno preparando al cambiamento.

AVVOCATI E MERCATO

Con “clienti sempre più esigenti” intendiamo clienti desiderosi di ottenere più servizi ma a costi inferiori, di pagare per i servizi ricevuti e non per le ore lavorate, alla ricerca di rapidità e alla competenza. In un simile contesto, molti avvocati vedono la tecnologia come un valido alleato.

Ma il rapporto con l’innovazione non è semplice.

Il cambiamento è spesso ostacolato da resistenze culturali, scarse risorse economiche e difficoltà organizzative.

Lo stesso concetto di tecnologia applicata agli studi legali merita di essere approfondita.

3 TIPI DI TECNOLOGIA

Il report suggerisce 3 tipi di tecnologia.

Tecnologie fondamentali
Tecnologie di base per lo svolgimento delle proprie attività: software per la fatturazione (e, nel caso italiano, per il processo telematico), gestione elettronica della documentazione, gli strumenti di sicurezza dei dati, ecc.
Sono tecnologie molto diffuse.

Tecnologie abilitanti
Tecnologie che migliorano la produttività, l’efficienza e i risultati: gestionali dei contratti, software per la gestione dei rapporti con la clientela o l’analisi dei dati, ecc.
Sono tecnologie meno diffuse ma che riscuotono un crescente interesse.

Tecnologie trasformazionali
Tecnologie che producono nuovi risultati aziendali tangibili: l’intelligenza artificiale, il machine learning, le analisi predittive e la blockchain.
Sono tecnologie poco diffuse ma che avranno un’importanza sempre maggiore nei prossimi anni.

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visualizzare le mail pec su iphone

Meglio tardi che mail! Si possono di nuovo visualizzare le mail PEC su iphone

Se siete utenti Apple e utilizzate la posta elettronica certificata, avrete vissuto anche voi la brutta esperienza di non riuscire a compiere due azioni molto importanti: visualizzare le mail pec e aprire correttamente gli allegati tramite iPhone.

Gli utenti hanno iniziato a riscontrare qualche difficoltà all’epoca di iOS 12, aggiornamento che ha reso impossibile visualizzare gli allegati inclusi nei messaggi PEC. 
Con l’avvento di iOS 13 si sperava in una risoluzione e, invece, le cose sono peggiorate, lasciando gli utenti incapaci di aprire i file .eml nel loro complesso.

Giunti a quel punto, l’unica alternativa per poter utilizzare la propria mail pec su iPhone, e visualizzare correttamente messaggi e allegati, era affidarsi a servizi offerti da aziende terze.

Finalmente, il problema è stato risolto e con l’ultimo aggiornamento ad i iOS 13.2.2 gli utenti hanno riacquisito la facoltà di visualizzare le mail pec e aprire correttamente gli allegati tramite iPhone.

Questa è un’ottima notizia per chiunque usi il proprio smartphone per lavoro e abbia necessità di accedere comodamente e velocemente alla propria casella PEC ovunque si trovi.

Se non avete ancora aggiornato il vostro iPhone, fatelo subito. L’aggiornamento non porta nessuna grande novità nel software ma risolve diversi piccoli bug oltre al problema delle PEC.

Per aggiornare il vostro iPhone, cliccate sulla notifica che dovreste aver ricevuto, oppure entrate in Impostazioni, cliccate su “Generali” e, poi, su “Aggiornamento Software“.

Una volta scaricato l’aggiornamento, potete riconfigurare la vostra casella PEC su iPhone.
Se non sapete come procedere, vi invitiamo a visionare la guida cartacea o la video guida che abbiamo appositamente creato.

 

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