Il processo civile sarà solo digitale, parola di Bonafede

Il processo civile sarà solo digitale, parola di Bonafede

Le difficoltà generate dalla pandemia di COVID hanno accelerato la digitalizzazione della giustizia, e il Ministro Bonafede ha tutta l’intenzione di non abbandonare la via intrapresa. Dal forum Forum Ambrosetti di Cernobbio, il Guardasigilli ha dichiarato che entro il 2020 il processo civile sarà solo digitale.

«IL PROCESSO CIVILE SARÀ SOLO DIGITALE»

Bonafede ha spiegato che la giustizia rappresenta un elemento decisivo per l’economia del paese e per tutela dei diritti dei cittadini.

Per rendere il sistema efficiente sono stati predisposti degli investimenti nell’infrastruttura «perché cercare di fare riforme a costo zero non ha mai portato da nessuna parte».

I principali investimenti riguardano le risorse umani, l’edilizia e, chiaramente, la digitalizzazione.

Dunque, il processo civile sarà solo digitale in tutti e tre i gradi di giudizio.

«Lo sviluppo delle tecnologie a supporto del processo telematico ha consentito, nel momento drammatico che abbiamo vissuto, di garantire, da un lato lo svolgimento dei servizi essenziali e dall’altro di accedere a soluzioni sperimentali […]. Il canale telematico sarà l’unico disponibile e non un’opzione». Un esempio di questo cambiamento  si vedrà nel divieto di notifica cartacea qualora il destinatario fosse in possesso di un domicilio digitale.

ANCHE IL PROCESSO PENALE DIVENTA DIGITALE

Per la prima volta verrà digitalizzato anche il processo penale. 

«Il primo settore su cui si interviene è quello delle indagini preliminari, rimodulando i tempi che vengono adesso verificati con criteri più rigidi che li rendono effettivi».

Tra le altre novità previste:
– la comunicazione da parte del giudice, a inizio processo, del calendario di tutte le udienze;
– la semplificazione dell’appello;
– il superamento di alcuni ostacoli (es.: il fatto che il cambiamento di un solo componente del collegio giudicante faccia ricominciare tutto il dibattimento dall’inizio).

L’OBIETTIVO FINALE

La digitalizzazione della giustizia si affianca alla riforma del processo civile, la riforma del processo penale e la riforma ordinamentale del Consiglio Superiore della Magistratura che sono ora all’esame del parlamento.

L’obiettivo finale, come dichiarato da Bonafede stesso, è la riduzione dei tempi dei processi.

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Digitalizzazione della giustizia. Un cambiamento che può far bene.

Digitalizzazione della giustizia. Un cambiamento che può far bene

È settembre e ormai alle spalle abbiamo diversi mesi di udienze da remoto ed esperimenti di digitalizzazione della giustizia.

Come è naturale che sia, più un cambiamento è veloce e più alte sono le probabilità che vi siano resistenze e, infatti, lo svolgimento delle udienze telematiche ha sollevato obiezioni da più parti. La principale sostiene che l’uso delle tecnologie telematiche sia in contrasto con i principi di oralità e immediatezza che dovrebbero contraddistinguere i procedimenti.

È proprio così?
Per offrire una risposta, condividiamo con voi alcune riflessioni prendendo spunto anche da quanto espresso dall’Avv. Ione Ferrante nell’articolo “Udienze digitali: lo stato dell’arte a settembre 2020” pubblicato su Agenda Digitale.

DIGITALIZZAZIONE DELLA GIUSTIZIA E RIPRESA ECONOMICA

Il rapporto tra giustizia ed economia passa spesso inosservato. Eppure, la tutela del diritto rappresenta un fattore attraente per gli investitori esteri e favorisce l’imprenditorialità, poiché offre la garanzia di operare in un contesto in cui si è tutelati.

In tal senso, la digitalizzazione della giustizia non rappresenta affatto un ostacolo ma, anzi, favorisce la ripresa poiché permette un accesso alla giustizia più immediato, meno costoso e con tempistiche più veloci. Uno dei motivi è che la tecnologia compensa la cronica mancanza di personale che è una delle cause della lentezza della giustizia italiana.

LE DIFFICOLTÀ

Dunque, la digitalizzazione può favorire l’efficienza della giustizia e la crescita del paese. Ma questi risultati non sono affatto automatici; al contrario, possono verificarsi solo a fronte di investimenti specifici.

Questo è il vero punto debole sul quale l’Italia si blocca.

Un esempio è la recente introduzione della riforma delle intercettazioni, con la creazione di un archivio digitale presso ogni Procura, effettuata senza alcuno stanziamento.

Che digitalizzazione è se non si forniscono strumenti e formazione a coloro su cui ricade il cambiamento?

I principi di oralità e immediatezza, che alcuni ritengono minacciati, non verranno scardinati dalla digitalizzazione della giustizia, a patto che il sistema giudiziario venga fornito «delle necessarie infrastrutture tecnologiche, delle risorse finanziarie e umane che l’opera di informatizzazione presuppone».

L’IMPATTO SULLE PROCEDURE

La digitalizzazione della giustizia e le udienze da remoto superano la presenza fisica dei soggetti coinvolti nei processi. Allo stesso tempo, annullano le distanze tra gli stessi.

C’è da dire che, nonostante le grandi novità affrontate a causa di COVID, il processo telematico è ormai una realtà da qualche anno. Ciò significa che le regole procedurali del passato sono già state via via superate a favore di nuove: «i princìpi della oralità e della immediatezza, nel 2020, non possono avere il medesimo, identico significato che avevano agli inizi del 1900».

Va anche ricordato che la giustizia digitalizzata non sostituisce completamente quella tradizionale, ma vi si affianca: le udienze telematiche non hanno scalzato del tutto le udienze in aula, così come non tutti i processi possono essere telematizzati integralmente.

Tutto ciò dimostra una cosa tanto semplice quanto importante: la giustizia è un sistema vivo. E la sua evoluzione, che è un processo del tutto naturale, può far bene al Paese.

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La CTU è un atto processuale che permette al giudice di valutare meglio i fatti, ma quest’ultimo non è obbligato a tenerne conto. In sostanza, la CTU consente di ricavare “il fatto storico” evidenziato dal consulente, ma non è il “fatto storico”.

Lo chiarisce la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12387 del 24 giugno 2020.

LA CTU NON RAPPRESENTA “FATTO STORICO”

La Cassazione ha rigettato un ricorso mosso da:

  • – la presunta violazione e falsa applicazione degli  artt. 113115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 61 e 62 c.p.c., poiché il tribunale ha riconosciuto la validità della consulenza tecnica non ne ha accettato gli esiti senza dare alcuna giustificazione.
  • – la presunta nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., per aver omesso l’esame degli esiti della CTU, considerati dalla ricorrente un fatto decisivo per il giudizio.

I motivi del rigetto sono:

  • – la presunta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non è coerente con i contenuti normativi degli articoli.
    «La ricorrente si duole della valutazione della c.t.u., assunta ad elemento probatorio, operata dalla Corte territoriale, ma non già che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nell’art. 115 c.p.c., ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, ovvero ancora, quanto all’art. 116 c.p.c., che il giudice abbia disatteso il principio della libera valutazione delle prove in assenza di una deroga normativamente prevista, oppure, al contrario, abbia valutato secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. n. 11892/2016)».
  • – l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella vigente formulazione riguarda l’omesso esame di un “fatto storico”, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo.
    Nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, «il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua ” decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (tra le tante v. Cass., S.U., n. 8053/2014)».
    «Le doglianze si risolvono nella prospettazione di un vizio di motivazione non coerente con il paradigma attualmente vigente, nonché volta ad una nuova valutazione dei fatti e delle risultanze istruttorie, non ammissibile in questa sede».

La Cassazione ribadisce che il “fatto storico” è «accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti ed attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità ai sensi dell’art. 4, dell’art. 360 c.p.c.».

La CTU costituisce l’elemento istruttorio da cui è possibile trarre il “fatto storico”, ma non è “fatto storico”.

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Il Ministero della Giustizia ha diffuso il comunicato stampa con cui Poste Italiane annuncia che dal 23 settembre le notifiche degli atti giudiziari via posta tradizionale dovranno essere eseguite utilizzando i nuovi moduli.
Termina dunque il periodo di transizione previsto dopo l’introduzione dei nuovi modelli a seguito della Delibera AGCOM 155/19/CONS di maggio 2019.

I VECCHI MODELLI PER LE NOTIFICHE DEGLI ATTI GIUDIZIARI VIA POSTA TRADIZIONALE

I vecchi modelli di buste e moduli potranno essere utilizzati fino al 22 settembre. Superata questa data, le eventuali rimanenze non verranno né rimborsate né sostituite. Per questo motivo, è importante che i moduli non utilizzati vengano smaltiti e che i soggetti autorizzati procedano alla stampa in proprio dei moduli nel rispetto delle specifiche tecniche indicate su www.poste.it.
In alternativa, è possibile acquistare i moduli attraverso il il servizio “vendita stampati” disponibile nel medesimo sito.

Nel comunicato stampa ufficiale, Poste Italiane dichiara che «i clienti che presenteranno all’accettazione modulistica non conforme alle specifiche tecniche […] e quindi alla citata Delibera, a norma dell’art. 3 della l. 890/1982, saranno invitati a riconfezionare la spedizione utilizzando la modulistica conforme.
In caso di diniego, le spedizioni saranno accettate sotto la responsabilità del cliente e senza pregiudizio per la Società».

Potete visionare qui il comunicato di Poste Italiane e il comunicato del Ministero della Giustizia.

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Il phishing è una tipologia di truffa esercitata attraverso l’invio di mail che sembrano provenire da istituti di credito, enti o aziende, in cui vengono comunicati presunti problemi di utilizzo dei servizi online, di fatturazione, o la conferma di dati personali.

Per renderli più credibili, i messaggi contengono i loghi dell’istituto o dell’azienda e un link che solo apparentemente rimanda al sito web.
Se cliccato, il link porta in realtà a un sito falso il cui aspetto è però del tutto simile all’originale.

Una volta che l’utente inserisce i suoi dati nel form di accesso o di registrazione, il criminale può salvarli e utilizzarli per accedere al sito reale.   

In alcuni casi, il link rimanda davvero al sito reale dell’istituto o dell’azienda, precedentemente ‘hackerato’ dal cyber truffatore, il quale ha inserito un finto pop-up per la richiesta dei dati di accesso.

In altri, le mail contengono dei link che, se cliccati, attivano il download di ransomware che criptano il contenuto del computer. L’unica possibilità per riavere indietro i propri file è il pagamento di un riscatto.

Oltre alle mail, un mezzo di diffusione del phishing in crescita sono i social network, soprattutto Facebook.

Proprio la somiglianza dei messaggi di phishing con le comunicazioni ufficiali rende questo genere di truffa informatica particolarmente difficile da riconoscere. Molti utenti capiscono di essere caduti nella trappola troppo tardi, quando il loro computer è del tutto bloccato o a fronte di ingiustificati prelievi dal conto corrente.

Va notato che il phishing può essere esercitato anche via telefono. In questo caso, prende il nome di voice phishing o vishing.

PHISHING E COVID

Il phishing non è certo una novità, ma durante gli scorsi mesi si è registrato un aumento degli attacchi informatici in Italia.

Oren Elimelech, consulente del governo israeliano, ha spiegato come la paura generata dalla pandemia avrebbe «reso meno vigili gli utenti e innalzato il rischio per gli attacchi di phishing, anche grazie alla innata curiosità degli esseri umani, in questo caso spinta all’estremo dal costante bisogno di essere aggiornati sulla situazione».

Infatti, a differenza del phishing tradizionale che, come visto, si basa sull’invio di messaggi “commerciali”, il phishing durante il COVID ha visto un abbondante uso di mail apparentemente provenienti da fonti autorevoli (es.: OMS) contenenti link sull’andamento dei contagi o altre notizie sulla pandemia. Dati e notizie disponibili, ovviamente, solo a fronte della registrazione all’area privata di siti fasulli.

COME DIFENDERSI DAL PHISHING

Come ci si protegge dalle truffe e dai virus informatici? Esattamente come facciamo contro il COVID: curando l’igiene (informatico) e scegliendo le precauzioni più adeguate.

Ecco qui un breve elenco di buone pratiche da rispettare per difendersi dal phishing.

  1. Ricordatevi che banche, enti e aziende non chiedono mai dati personali tramite e-mail: diffidate da messaggi di posta elettronica che contengono un link per confermare i propri dati.
    Inoltre, il testo delle mail di phishing è molto generico e impersonale. Spesso, vi è la minaccia di sospendere i servizi nel caso in cui non si esegua quanto richiesto.
  2. Posizionate il puntatore del mouse sul link presente nella mail, senza cliccare, e in basso a sinistra del monitor vedrete comparire l’indirizzo Internet del sito indicato. Capirete subito se si tratta dell’originale o meno.
  3. Similmente, controllate l’indirizzo email di chi vi scrive: potreste accorgervi che non è l’indirizzo ufficiale.
  4. Diffidate dall’aprire eventuali allegati.
  5. Se continuate ad avere dubbi sulla veridicità della mail, contattate il mittente.
  6. Le mail di phishing arrivano soprattutto tramite spam. Assicuratevi che il vostro programma di gestione della posta elettronica sia dotato di filtri antispam che possano bloccare i messaggi potenzialmente pericolosi.
  7. Installate un antivirus che ti protegga anche dal phishing.
  8. Abbiate sempre delle password di accesso affidabili.
  9. Assicuratevi che la pagina in cui vi viene chiesto di inserire i vostri dati sia una pagina protetta. Per capirlo, basta guardare la barra degli indirizzi del browser: se l’indirizzo comincia con https e non http e/o compare il simbolo di un lucchetto, allora è una pagina protetta.
  10. Per connettervi a internet, soprattutto se volete visitare siti che richiedono i vostri dati (e-commerce, home banking), utilizzate solo connessioni sicure (no wi-fi pubblici). Le connessioni non sicure permettono ai cyber truffatori di reindirizzarvi più facilmente a pagine di phishing.

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Riforma delle intercettazioni: siamo pronti? Forse no…

 

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Domani, 1 settembre 2020, dopo una lunga incubazione iniziata a maggio 2017, entra in vigore la riforma delle intercettazioni. Si applicherà a tutti i procedimenti iscritti dal medesimo giorno.

La principale novità della riforma riguarda la nascita di un archivio digitale presso ogni Procura nel quale verranno immagazzinate tutte le intercettazioni (telefoniche o tramite trojan), ma anche i video e tutti gli atti collegati.

Lo scopo di questi grandi archivi è garantire un maggior controllo sulle informazioni acquisite, evitarne la fuoriuscita e garantire la riservatezza dei soggetti coinvolti.

Di fondamentale importanza è il ruolo del PM, che deve assicurarsi che nei verbali derivati dalle intercettazioni non vi siano espressioni che ledono la reputazione dei soggetti coinvolti, dati sensibili o informazioni private scambiate tra difensore e assistito.

La polizia giudiziaria ha a disposizione 5 giorni per trasmettere alla Procura i contenuti raccolti tramite le intercettazioni. Una volta inseriti i verbali in archivio, la Procura deve dimostrare di non aver trattenuto alcun contenuto originale nei propri uffici e lo stesso dovranno fare le aziende che hanno fornito alla polizia gli strumenti per le operazioni di ascolto.

Il contenuto delle intercettazioni potrà essere esaminato dal giudice e i suoi ausiliari, dal pubblico ministero, dai difensore delle parti, dagli assistiti, dagli eventuali interpreti.
Sarà possibile farlo da remoto, ma ogni Procura dovrà predisporre delle sale con postazioni di ascolto il cui accesso dovrà essere controllato.

RIFORMA DELLE INTERCETTAZIONI: LE PERPLESSITÀ

La riforma delle intercettazioni e la creazione dell’archivio digitale rappresentano un passo ulteriore verso la digitalizzazione del processo penale ma, come prevedibile, possono funzionare solo a fronte di regole chiare e un valido assetto tecnologico.

Per quanto riguarda le prime, si tratta di un percorso in divenire. Basti considerare che i brogliacci rimarranno cartacei fintantoché non giungeranno indicazioni da parte del Ministero della Giustizia.

Per il secondo, sfortunatamente la riforma viene introdotta senza che sia stata prevista alcuna forma di sostegno economico che consenta alle Procure di affrontare diversi ostacoli: oltre alle carenze strumentali, vi è la mancata formazione del personale, la scarsità di questo, e l’assenza di spazi dove custodire i documenti cartacei o creare le postazioni di ascolto.

Molte Procure non sono affatto pronte e in molti se ne rendono conto.
Un esempio è il procuratore di Terni, Alberto Liguori, che, come riportato dalla rivista ‘Il Dubbio’ così si interroga: «Gli hardware scelti dal Ministero vengono utilizzati per la prima volta: se qualcosa non dovesse funzionare, cosa succederà ai dati? E la gestione del cartaceo?».

I dubbi non mancano, ma ormai è questione di poche ore prima di affrontare la realtà.

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Praticanti: corsi di formazione obbligatori dal 31 marzo 2022

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Dopo il problemi riscontrati nella correzione delle prove del 2019 e le incertezze sull’esame del 2020, i praticanti sono alle prese con un’altra novità: i corsi di formazione per l’accesso alla professione forense diventano obbligatori dal 31 marzo 2022.

Questo differimento è inserito nel decreto n. 80/2020, “Regolamento concernente modifiche al decreto 9 febbraio 2018, n. 17, recante la disciplina dei corsi di formazione per l’accesso alla professione di avvocato, ai sensi dell’articolo 43, comma 2, della legge 31 dicembre 2012, n. 247” e posticipa di altri due anni l’obbligatorietà dei corsi, precedentemente stabilità al 31 marzo 2020.

REGOLE DEI CORSI DI FORMAZIONE PER L’ACCESSO ALLA PROFESSIONE FORENSE

I corsi di formazione per l’accesso alla professione forense saranno obbligatori per i tirocinanti iscritti nel registro dei praticanti dal giorno successivo alla scadenza del primo quadriennio dall’entrata in vigore del regolamento D.M. 80/2020.

I corsi saranno regolamentati dal ministero di Giustizia, tenendo conto dei pareri espressi dal Consiglio Nazionale Forense, e organizzati dai singoli consigli dell’ordine, dalle associazioni forensi e da altri soggetti previsti dalla legge (per. es.: scuole di specializzazione).

I corsi dureranno almeno 160 ore spalmate in 18 mesi e sarà prevista la frequenza obbligatoria per l’80%. Sono previste lezioni online per un massimo di 50 ore, 2 verifiche intermedie e una finale.

Solo in caso di superamento della prova finale, il tirocinante ricevere il certificato di compiuto tirocinio. In caso contrario, dovrà ripetere l’ultimo semestre di formazione e la verifica.

Le materie trattate durante i corsi sono:

a) diritto civile, diritto penale, diritto amministrativo;

b) diritto processuale civile, penale e amministrativo; processo telematico, tecniche impugnatorie, procedure alternative per la risoluzione delle controversie;

c) ordinamento e deontologia forense;

d) redazione degli atti giudiziari secondo il principio di sinteticità e dei pareri stragiudiziali;

e) ricerca, anche telematica, delle fonti e dei precedenti giurisprudenziali;

f) linguaggio giuridico; argomentazione forense;

g) diritto costituzionale, diritto del lavoro, diritto commerciale, diritto dell’Unione europea, diritto internazionale privato, diritto tributario, diritto ecclesiastico;

h) organizzazione e amministrazione dello studio professionale;

i) contribuzione e tributi della professione di avvocato e previdenza;

l) elementi di ordinamento giudiziario e penitenziario.

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Qual è l’obiettivo della giustizia: punire o riabilitare? E che ruolo ha, in ciò, l’avvocatura? È “solo” una professione oppure ha un valore sociale da non sottostimare?

Lo scorso luglio il CNF ha aderito a un progetto di giustizia riparativa proposto dal Ministero della Giustizia per lo svolgimento di lavori socialmente utili nelle sedi da parte di imputati ammessi all’istituto della messa alla prova.

La convenzione nasce in risposta alle spinte dell’Unione Europea verso un adeguamento dell’Italia agli standard comunitari e l’istituto della messa alla prova permette di abbandonare la funzione punitiva dello Stato, basata sul carcere, a favore di un approccio rieducativo della pena, come indicato dalla Costituzione.

L’ISTITUTO DELLA MESSA ALLA PROVA

L’istituto della messa alla prova si applica ai reati che prevedono una pena non superiore ai 4 anni.

È stato introdotto per gli adulti nel 2014 e prevede che l’imputato svolga attività lavorative a titolo gratuito, con finalità sociali, presso enti, organizzazioni e amministrazioni pubbliche.

Se, nel 2014, i soggetti coinvolti erano solo 511, nel 2019 sono diventati quasi 40.000.

IL RUOLO SOCIALE DELL’AVVOCATO

L’avvocato opera nel rispetto dei principi di libertà, lealtà, autonomia, indipendenza, dignità e competenza. È colui che garantisce che il processo si svolga secondo le regole, cosicché il giudice possa giungere alla decisione più adeguata.

È suo compito chiedere una pena proporzionata al reato, veder tutelati i diritti del suo assistito e, per estensione, di tutti noi.

Ma l’essere avvocato travalica i semplici aspetti tecnico-professionali e si basa anche aspetti umani.

Lo ha spiegato bene l’ex presidente Cnf Pietro Calamandrei: «Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore. Ma l’avvocato no. […] L’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. L’avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di carità».

Il Consiglio Nazionale Forense è il massimo organo di rappresentanza dell’avvocatura e l’apertura delle proprie sedi a coloro che beneficiano della messa alla prova non fa che sottolineare l’attitudine sociale della categoria.
Come comunicato dall’organo stesso: «Il Cnf, coerente con la funzione sociale del ruolo dell’avvocato, aderisce con convinzione al progetto rieducativo e confida in una crescente sensibilizzazione dell’opinione pubblica verso un sistema sanzionatorio non esclusivamente punitivo e maggiormente in linea con i principi più volte evocati dalla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo)».

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Tra le tante novità che molti avvocati hanno sperimentato durante il lockdown, il lavoro da casa/smart working è certamente una delle più significative. Per alcuni è stata una rivelazione positiva, capace di migliorare il rapporto tra vita privata e professione; per altri, esattamente l’opposto: call all’ora di cena, messaggi e notifiche in continuazione, reperibilità costante e mai una vera pausa.

E se un avvocato volesse prendersela, una pausa? Se volesse sparire e non rispondere più a chiamate, messaggi e mail dei suoi assistiti?

Diciamo subito che non esiste alcuna norma che forzi l’avvocato a essere sempre reperibile. Come tutti, anche lui ha una vita privata e necessita di momenti per staccare. Nonostante ciò, il Codice Deontologico impone degli obblighi che, in qualche modo, gli impediscono di sparire totalmente.

LA REPERIBILITÀ DELL’AVVOCATO E IL DOVERE DI INFORMAZIONE

Oltre ai doveri di fedeltà, diligenza, segretezza e riservatezza, esiste anche il dovere di informazione.

L’art. 27 del Codice Deontologico dice:

1. L’avvocato deve informare chiaramente la parte assistita, all’atto dell’assunzione dell’incarico, delle caratteristiche e dell’importanza di quest’ultimo e delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione.

2. L’avvocato deve informare il cliente e la parte assistita sulla prevedibile durata del processo e sugli oneri ipotizzabili; deve inoltre, se richiesto, comunicare in forma scritta, a colui che conferisce l’incarico professionale, il prevedibile costo della prestazione.

3. L’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, deve informare chiaramente la parte assistita della possibilità di avvalersi del procedimento di negoziazione assistita e, per iscritto, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione; deve altresì informarla dei percorsi alternativi al contenzioso giudiziario, pure previsti dalla legge.

4. L’avvocato, ove ne ricorrano le condizioni, all’atto del conferimento dell’incarico, deve informare la parte assistita della possibilità di avvalersi del patrocinio a spese dello Stato.

5. L’avvocato deve rendere noti al cliente ed alla parte assistita gli estremi della propria polizza assicurativa.

6. L’avvocato, ogni qualvolta ne venga richiesto, deve informare il cliente e la parte assistita sullo svolgimento del mandato a lui affidato e deve fornire loro copia di tutti gli atti e documenti, anche provenienti da terzi, concernenti l’oggetto del mandato e l’esecuzione dello stesso sia in sede stragiudiziale che giudiziale, fermo restando il disposto di cui all’art. 48, terzo comma, del presente codice.

7. Fermo quanto previsto dall’art. 26, l’avvocato deve comunicare alla parte assistita la necessità del compimento di atti necessari ad evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso.

8. L’avvocato deve riferire alla parte assistita, se nell’interesse di questa, il contenuto di quanto appreso legittimamente nell’esercizio del mandato.

9. La violazione dei doveri di cui ai commi da 1 a 5 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento. La violazione dei doveri di cui ai commi 6, 7 e 8 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.

In sostanza, l’avvocato deve informare il cliente al momento del conferimento del mandato e durante lo svolgimento dell’incarico, solo se strettamente necessario o se il cliente ne fa richiesta. Ciò non significa affatto che debba essere costantemente reperibile, ma certamente non può permettersi di sparire completamente.

SE L’AVVOCATO SPARISSE…

Se l’avvocato sparisse, smettesse di rispondere a mail e chiamate, e non offrisse le informazioni che è obbligato a dare, potrebbe incorrere in problemi.

Di fatto, il suo comportamento risulterebbe essere un vero e proprio inadempimento che minerebbe il rapporto di fiducia con il cliente, il quale potrebbe decidere di revocare il mandato e rivolgersi all’Ordine che valuterebbe un eventuale provvedimento disciplinare.

La revoca del mandato imporrebbe all’avvocato irreperibile la restituzione al cliente di tutti i documenti, ma manterrebbe intatto il diritto a vedersi pagato il lavoro svolto.

Nel caso in cui l’irreperibilità causasse al cliente dai danni dimostrabili (es.: prescrizione), questo potrebbe chiedere e ottenere il risarcimento.

In conclusione, come spesso accade, è tutta questione di equilibrio: gli avvocati hanno tutto il diritto di prendersi una pausa, fare una vacanza o “staccare” a patto che offrano, appena possibile, tutti gli aggiornamenti, le informazioni e le risposte ai dubbi e alle domande che i clienti pongono loro.

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La vicenda Palamara ha acceso i riflettori sulle reali modalità di assegnazione delle cariche dirigenziali delle Procure italiane. La Magistratura non ne è uscita nel migliore dei modi e il governo si è mosso con l’obiettivo di ripristinare valori come la trasparenza e il merito all’interno dell’istituzione.

E se gli avvocati rappresentassero la chiave di volta?

LA RIFORMA DEL CSM

La riforma della Magistratura prevede diverse misure e, tra queste, ce n’è una decisamente importante: gli avvocati potranno accedere all’Ufficio studi e documentazione di Palazzo dei Marescialli, ufficio che si occupa anche di compilare e gestire i fascicoli dei candidati alle nomine.

Nell’art.25 del ddl presentato si legge che il CSM può assegnare ai ruoli tecnici «un numero non superiore a 8 addetti esterni, individuati mediante procedura selettiva con prova scritta aperta ai professori universitari di ruolo di prima e di seconda fascia, agli avvocati iscritti da almeno dieci anni nel relativo albo e a tutti i magistrati ordinari, i quali sono posti fuori del ruolo organico della Magistratura».

È la prima volta che agli avvocati viene concesso di far parte dell’Ufficio studi e documentazione e, quindi, contribuire alla creazione dei fascicoli delle nomine.

INVASIONE DI CAMPO DA PARTE DEGLI AVVOCATI?

La presenza dell’avvocatura all’interno dei meccanismi della Magistratura non è da considerarsi «un’indebita invasione di campo da parte del ceto forense nella vita del corpo togato [ma] deve essere letta nell’ottica di un riequilibrio della giurisdizione».

Come disse l’ex presidente del CNF, Mascherin, durante un evento lo scorso dicembre:

«Nella nostra Costituzione, quando si parla di giurisdizione si parla di Magistratura. E se vogliamo che questa sia una vera garanzia per i cittadini, dobbiamo assicurarci che sia forte e indipendente dalla politica e da ogni altro potere.
Ciò è ancora più importante in questo periodo storico, caratterizzato da minacce alla democrazia che rischiano di comprimere l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione non solo in paesi totalitari, ma anche in Italia.
Si vede, per esempio, una crescente aggressione alla discrezionalità dei magistrati, sotto forma di normative che già contengono in qualche modo in sé la decisione finale a cui si vuole puntare (come nel caso della legittima difesa), stringendo la libertà del giudice. 
Un’altra forma di aggressione viene dalla pressione mediatica. Ciò che sta succedendo è che non si fanno più norme guardando alla Costituzione, ma puntando al consenso, basandosi sui sondaggi.

Per giungere a una Magistratura davvero indipendente e forte è necessario un elemento equilibratore del suo potere, un elemento tecnico che non sia esterno alla Magistratura, che non sia un soggetto politico o economico e che non sia il popolo.

Può essere solo l’avvocatura, il cui potere deriva dall’applicazione delle regole».

[Per approfondire: Associazione Nazionale Forense]

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