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Contributo a fondo perduto: come ottenerlo

C’è tempo fino al 13 dicembre per richiedere il contributo “Sostegni” e/o “Sostegni-bis alternativo”

Sei un soggetto che svolge attività di impresa, lavoro autonomo e reddito agrario titolare di partita Iva e risiedi in Italia? Inoltre, nel 2019 hai conseguito un ammontare di ricavi o compensi tra i 10 milioni ed i 15 milioni di euro? Bene, allora potresti rientrare tra i beneficiari del contributo “Sostegni” e/o “Sostegni-bis alternativo”.

Contributi a fondo perduto: requisiti e calcolo

Si è aperta lo scorso 14 ottobre la possibilità di presentare la richiesta per i contributi a fondo perduto “Sostegni” e “Sostegni bis alternativo”. In effetti, si tratta di un provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, il quale ha definito anche il modello di domanda. Come detto poc’anzi, esso si rivolge ai soggetti esercenti attività d’impresa, arte e professione o che producono reddito agrario, titolari di partita Iva il cui ammontare complessivo reddituale nel 2019 sia stato compreso fra i dieci ed i quindici milioni di euro.

 

 

Ulteriore requisito per l’ottenimento del contributo “Sostegni” è un calo di almeno il 30% tra l’ammontare medio mensile del fatturato del 2020 rispetto al corrispettivo del 2019. Invece, non possono aver accesso ai contributi i soggetti la cui attività a partita Iva non fosse attiva alla data dei rispettivi decreti-legge. Lo stesso accade per gli enti pubblici (art. 74 Tuir), gli intermediari finanziari e le società di partecipazione (art. 162-bis Tuir).

Il calcolo del contributo Sostegni

Circa il calcolo dell’importo ricavato dal contributo “Sostegni”, esso è ottenuto applicando la percentuale del 20% alla differenza tra l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi del 2020 e del 2019. Si parte da un minimo di mille euro per le persone fisiche e di duemila per i soggetti diversi dalle persone fisiche. Per altro, in questo caso spetta anche il contributo “Sostegni-bis alternativo” (art.1, commi da 1 a 3, Dl n.73/2021).

Va detto che, nel calcolo del contributo “Sostegni-bis alternativo” il contributo è pari al 30% della differenza tra l’ammontare medio mensile del fatturato del periodo 1° aprile 2020- 31 marzo 2021 ed il corrispettivo del 1° aprile 2019- 31 marzo 2020.

Infine, se si richiedono entrambi i contributi, per il contributo “Sostegni-bis alternativo” viene applicata la percentuale del 20% alla differenza tra l’ammontare medio mensile del fatturato e del corrispettivo del periodo 1° aprile 2020- 31 marzo 2021 e 1° aprile 2019- 31 marzo 2020.

Resta il fatto che, per tutti i soggetti, l’importo di ciascun contributo non può essere superiore a centocinquanta mila euro.

Come richiedere i contributi a fondo perduto

Per fare richiesta dei contributi a fondo perduto, è necessario presentare apposita istanza entro il 13 dicembre attraverso i servizi telematici dell’Agenzia delle entrate.

Nell’istanza si devono indicare:

  • Codice fiscale del richiedente (o del rappresentante o dell’intermediario);
  • Le informazioni sulla sussistenza dei requisiti;
  • Iban del conto corrente dove accreditare l’importo.

Infatti, i contributi a fondo perduto vengono erogati tramite bonifico o -solo su scelta irrevocabile del richiedente- possono essere riconosciuti come crediti di imposta utilizzabili in compensazione.

 

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Notifica a mezzo PEC in spam? Il ricorso non è possibile

Notifica a mezzo PEC in spam? Il ricorso non è possibile

Se la notifica a mezzo PEC finisce nella casella di spam, il destinatario può invocare la non conoscenza e/o non conoscibilità della stessa?

Sul tema è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza  n. 17968 del 23 giugno 2021.

NOTIFICA PEC IN SPAM E CANCELLAZIONE

Come riporta il CNF, il caso da cui scaturisce la sentenza riguarda l’ammissibilità dell’opposizione tardiva del decreto ingiuntivo notificato a mezzo PEC (art. 3 bis L n. 53/1994) a partire dal fatto che la mail PEC di notifica era finita nella cartella della posta indesiderata, svuotata dalla segretaria del destinatario senza alcun controllo per evitare “danni al sistema informatico aziendale” a causa di mail malevoli, come già accaduto in passato.

Il ricorrente in Cassazione deduce la violazione degli artt. 647 e 650 c.p.c.
La Corte di Appello, che aveva confermato il rigetto dell’opposizione da parte del Tribunale in primo grado, non avrebbe infatti preso in considerazione il comportamento della segretaria, volto solo a proteggere la società da pericoli informatici. Una scelta dunque inevitabile che rientra nel concetto di “forza maggiore”, il quale consente di giustificare l’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.

CASELLA PEC E OBBLIGHI DA RISPETTARE

La Corte di Cassazione ha però escluso tale ipotesi, riferendosi al contenuto dell’art. 20 del DM n. 44/2011, il Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione al CAD, il Codice dell’Amministrazione Digitale (D.Lgs. n. 82 del 2005).

A ciò si aggiunge che il DM 44/2011 incarica i “soggetti abilitati esterni privati” (difensori delle parti private, avvocati iscritti negli elenchi speciali, esperti e ausiliari del giudice) del compito di:
– garantire il corretto funzionamento della casella PEC,
– dotarsi di un antivirus per controllare i messaggi in arrivo,
– attivare il filtro antispam per evitare i messaggi indesiderati,
conservare, con ogni mezzo idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia,
– dotarsi di servizio automatico che lo avvisi nel caso in cui lo spazio nella propria casella di posta elettronica certificata fosse in esaurimento.

È poi dovere del possessore della casella PEC controllare anche i messaggi nella cartella della posta indesiderata.

Nel caso in questione, la Cassazione ha rilevato che il ricorrente non aveva adottato alcuna misura di protezione contro virus e spam, né stabilito una procedura “alternativa a quella della mera ed immediata eliminazione del messaggio PEC nel cestino, una volta classificato dal computer come spam”.

Per tali motivi il ricorso non è stato accolto.

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Cartelle esattoriali: più tempo per pagarle

Il decreto fiscale 2022 concede più tempo e più rate per le cartelle esattoriali

Chi, a causa della pandemia ha problemi a pagare i propri debiti con l’Erario, grazie al nuovo decreto fiscale può beneficiare di più tempo. Infatti: si riammettono nei termini i contribuenti decaduti dalla rottamazione ter e dal saldo e stralcio (art.1). Si estende il termine di pagamento (art.2) e si aumenta il numero delle rate per la rateizzazione (art.3).

Decreto fiscale: riammessi i decaduti dalla rottamazione ter e dal saldo e stralcio

Il decreto fiscale 2022, art.1, stabilisce le nuove modalità di trattamento delle rate da corrispondere nel corso del 2020 e di quelle da corrispondere entro e non oltre il 28 febbraio, 31 marzo, 31 maggio e 31 luglio 2021. Per queste rate, ai fini delle agevolazioni della rottamazione ter e del saldo e stralcio, il pagamento integrale è considerato tempestivo se effettuato entro il 30 novembre 2021. Inoltre, chi le paga con un ritardo non superiore a cinque giorni, non deve aggiungervi alcun interesse.

 

 

All’art.2, il decreto fiscale concede 150 giorni in più per il pagamento delle cartelle notificate dall’agente della riscossione dal 1° settembre al 31 dicembre 2021.

Infine, l’art. 3, che prevede due novità importanti:

  1. I debitori che, all’entrata in vigore del decreto sono decaduti dai piani di rateizzazione (art. 19 DPR n.602/1973 per chi è in temporanea condizione di obiettiva difficoltà) ne sono ora riammessi. Per questi soggetti, il termine di pagamento delle rate sospese slitta al 31 ottobre 2021: le rate diventano 18 (erano 10).
  2. Per questi stessi carichi:
  • Rimangono validi atti e provvedimenti adottati e adempimenti svolti dall’agente di riscossione tra il 1° ottobre 2021 e la data in vigore del decreto fiscale:
  • Sono attivi gli effetti prodotti ed i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi;
  • In merito ai versamenti delle rate sospese di tali piani, rimangono acquisiti gli interessi di mora, le sanzioni e le somme aggiuntive corrisposte.

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Attacco ransomware a un ospedale e danno da mancata cybersicurezza

Attacco ransomware a un ospedale e danno da mancata cybersicurezza

Cosa succede se un attacco ransomware e la mancata cybersicurezza causano un danno irreparabile o la morte di un paziente?

Nel 2019 un ospedale in Alabama è vittima di un attacco ransomware i cui effetti si protraggono per diversi giorni.

Proprio in quei giorni una donna si reca all’ospedale per partorire ma una complicanza procura alla neonata un danno celebrare e, qualche mese dopo, la morte.

La madre fa causa all’ospedale, sostenendo che al momento del parto le apparecchiature per monitorare il battito fetale e altre strumentazioni importanti fossero fuori uso e che proprio questo abbia impedito ai medici in sala parto di accorgersi dei problemi in corso e scegliere di praticare un cesareo, evitando o almeno limitando i danni alla neonata.

Secondo la madre, l’ospedale è responsabile di tutti i disservizi causati dall’attacco ransomware e di non averla avvisata della situazione critica generata dall’attacco.

L’ospedale sostiene invece che:

  • la situazione fosse sotto controllo,
  • – il giorno del parto fosse stato diffuso un avviso a proposito dell’incidente informatico,
  • – stesse al singolo medico decidere se avvisare o meno i pazienti dell’incidente,
  • non assistere i pazienti li avrebbe esposti a un rischio maggiore di quello connesso agli effetti residui dell’attacco.

QUAL È IL VERO PROBLEMA

A sostegno di quest ultimo dettaglio vi è un caso precedente.
Un’anziana viene colta da aneurisma e trasportata in ambulanza all’ospedale di Dusseldorf, in Germania, ma il reparto che dovrebbe accoglierla è chiuso proprio a causa di un attacco ransomware. La donna viene allora trasportata in un altro ospedale, a un’ora di strada di distanza, ma appena arriva muore.

In sostanza, in caso di attacchi ransomware a un ospedale, accogliere o non accogliere i pazienti comporta in ogni caso grandi rischi.

Il processo sulla morte della neonata si concentra su una questione specifica: doveva l’ospedale informare o meno la donna a proposito della situazione? Se, una volta informata, la donna avesse deciso di partorire da un’altra parte, i danni alla bambina davvero sarebbero stati evitati oppure se ne sarebbero generati altri?

Il vero problema è però un altro: un ospedale dovrebbe essere in grado di resistere agli attacchi informatici, se non addirittura evitarli, o almeno limitarne i danni.

IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA MANCATA CYBERSECURITY

La cibersecurity dovrebbe già essere considerata una priorità dalle aziende di qualsiasi settore. Non solo per gli effetti sull’operatività e per i danni economici derivanti, ma anche per le conseguenze civili e penali che potrebbero derivarne.

Riccardo Berti, avvocato del Centro Studi Processo Telematico, e Franco Zumerle, avvocato coordinatore della Commissione Informatica dell’Ordine degli avvocati di Verona, spiegano che:

«Un’evoluzione giurisprudenziale dei casi di risarcimenti connessi ad attacchi informatici contribuirà in futuro a rendere evidente il perimetro delle responsabilità aziendali nel caso e quanto può costare una negligenza in un mondo che ormai definisce standard e requisiti sempre più stringenti con riguardo alla sicurezza IT.

Un’azienda oggi non può più permettersi di trascurare la sicurezza dei propri sistemi informatici, anche perché il diritto estende alle conseguenze della negligenza il risarcimento civile del danno causato (e in certi casi di crassa negligenza anche le responsabilità penali) e questo comporta che un’eventuale incuria nella compliance IT rischia di riverberare in responsabilità davvero estese a mano a mano che le aziende informatizzano i loro sistemi e dipendono dalla tecnologia.»

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Referendum green pass: “difesa delle libertà”

Il presidente emerito della Cassazione spiega il referendum che mira ad abrogare il green pass

Il 15 ottobre scorso la certificazione verde è diventata obbligatoria in ogni ambito lavorativo, non senza creare polemiche. Ora, alcuni illustri giuristi -tra i quali il presidente emerito della Cassazione- lanciano il referendum per la sua abolizione. Alla base dell’iniziativa, la necessità di porre un freno all’ “emergenza giuridica prima ancora che sanitaria”.

 Referendum no green pass: il perché ce lo spiega Sceusa

Il referendum è una delle tre forme legali di risposta al green pass, che invece legittimo non è. Le altre due sono le manifestazioni pacifiche e le cause giudiziarie. Infatti, oltre alla violazione dell’art. 3 della Costituzione, il Green pass starebbe trasformando i diritti umani (lavoro, circolazione, studio) da riconosciuti in concessi.

 

 

Inoltre, i minori (dai 12 anni in su) vengono equiparati agli adulti nell’obbligo di esibire il green pass per esercitare attività fisiche essenziali. Ecco, in questo caso Sceusa ritiene che si tratti un grave abuso. Non solo: creando disaccordo sulla scelta di vaccinare o meno i figli piccoli, spacca le coppie di genitori.

Importanti sono anche le contraddizioni logiche a fondamento dello stesso green pass. Tali da impedire di avere una base razionale su cui sviluppare coerenti distinzioni normative. Ad esempio, per votare alle recenti amministrative non si è imposta l’obbligatorietà del green pass, essendo il diritto di voto tutelato dalla Costituzione. Invece, la stessa certificazione verde è posta come necessaria per i mezzi di trasporto a lunga percorrenza (mentre per quelli locali -come la metropolitana- no).

Green pass e magistratura: che cosa fare?

Secondo Sceusa, la magistratura dovrebbe smettere di stare a guardare e cominciare a fare il suo lavoro. Lo stesso discorso vale anche per la stampa: smetta di dare solo le versioni gradite al potere politico e di nascondere le altre. Di qui la necessità del referendum: 500.000 firme necessarie in difesa della libertà. Altrimenti il potere politico- mediatico potrà dire: “[…] i manifestanti messi tutti insieme, […] sono di meno. Li possiamo [anche] massacrare (tra gli applausi di chi si commuove per l’olocausto”.

 

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Obbligo Green Pass, cos’è cambiato per gli avvocati

Con l’estensione dell’obbligo del Green Pass sui luoghi di lavoro a partire dallo scorso 15 ottobre, cosa è cambiato per gli avvocati?

Le disposizioni di interesse per il mondo forense sono contenute nel D.L.n. 127 del 21 settembre 2021, in particolare:
– nell’art. 1, dedicato al lavoro nel settore pubblico;
– nell’art. 2, sull’accesso di magistrati, avvocati e altri negli uffici giudiziari,
– nell’art. 3 dedicato al lavoro nel settore privato.

Con una news specifica pubblicata sul sito, il CNF ha riassunto le misure che ricadono sugli avvocati. Vediamole insieme

GREEN PASS E CONDOTTE PRESSO GLI STUDI DEGLI AVVOCATI

Il decreto non parla esplicitamente degli avvocati, così come non cita alcuna altra specifica categoria di lavoratori.

L’unica differenziazione riguarda le aziende con meno di 15 dipendenti, alle quali è consentito di sospendere un lavoratore privo di Green Pass dopo 5 giorni di assenza e di sostituirlo per un massimo di 10 giorni, e con un solo rinnovo.

Gli avvocati rientrano nella sfera del settore privato, pertanto devono rispettare le disposizioni relative all’obbligo di Green Pass, sia per se stessi che per gli eventuali dipendenti e collaboratori.

Ricordiamo che i datori di lavoro sono tenuti a:
verificare il possesso del Green pass al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro da parte dei dipendenti e dei collaboratori;
− definire le modalità operative per le verifiche, anche a campione;
individuare, con atto formale, i soggetti incaricati di accertare eventuali violazioni degli obblighi.

Per quanto riguarda la presenza di altri soci, tendenzialmente dovrebbe essere richiesto il Green Pass anche a loro nel momento in cui accedono allo studio, ma vi sono alcuni dubbi. 
Trattandosi di liberi professionisti non è infatti possibile individuare un datore di lavoro, dunque a chi dovrebbero essere affidati gli incarichi organizzativi e di controllo?

Sul cliente, invece, non grava l’obbligo di avere il Green Pass per accedere allo studio. Il cliente non ha nemmeno il potere di verificare il possesso del certificato da parte del professionista.

ACCESSO AGLI UFFICI GIUDIZIARI

Come indicato dall’art. 2 al comma 8, ad avvocati, difensori, consulenti, periti, altri ausiliari del magistrato estranei alle amministrazioni della giustizia, testimoni e parti del processo non è richiesto di possedere il Green Pass per accedere agli uffici giudiziari.

L’obbligo ricade invece su magistrati, dipendenti e collaboratori.

Il Consiglio dei Ministri ha spiegato che questa differenza esiste «al fine di consentire il pieno svolgimento dei procedimenti» ed evitare che il mancato possesso della certificazione possa limitare il diritto di difesa o bloccare lo svolgimento dei procedimenti.

Qui il testo completo della news del CNF sull’obbligo di Green Pass per gli avvocati.

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Cassa Forense: bando “Marco Ubertini” 2021

Requisiti per ritenere valido il disconoscimento della copia di un documento

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Cassa Forense: bando “Marco Ubertini” 2021

La domanda di partecipazione va inviata esclusivamente via pec entro le 24 del 2 maggio 2022

Sul suo sito, Cassa Forense comunica la pubblicazione del bando n. 8/2021: Premio “Marco Ubertini”. Il premio, erogato in un’unica soluzione, è di tre mila euro per il primo classificato, duemila per il secondo e mille per il terzo. Si rivolge agli iscritti che hanno conseguito abilitazione agli esami per l’iscrizione all’Albo nell’anno 2020 (D.M. del 14/9/2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – 4^ serie speciale – concorsi ed esami – n. 72 del 15/9/2020 e s.m.i.) con la più alta votazione.

Cassa Forense, Bando “Marco Ubertini” 2021, requisiti, domanda e documenti

Innanzitutto, per l’ammissione alla partecipazione e ammissione in graduatoria per il bando “Marco Ubertini” è necessario non aver superato il 35° anno di età alla data di pubblicazione. Inoltre, bisogna aver conseguito l’abilitazione nella sessione di esami per l’iscrizione all’albo degli avvocati indetta nell’anno 2020. Infine, è essenziale non beneficiare o non aver beneficiato di altre borse di studio, assegni, premi o sussidi per il conseguimento dell’abilitazione nella sessione di esami per l’iscrizione all’Albo degli avvocati del 2020.

 

 

A questo punto, la domanda di partecipazione dev’essere inviata esclusivamente via PEC, entro le 24 del 2 maggio 2022. In allegato va aggiunto il certificato della Commissione esaminatrice/ Corte d’Appello attestante il superamento dell’esame e la votazione (per entrambe le prove orali). In più, vanno inviati anche: certificato attestante l’iscrizione all’Albo degli Avvocati ed autocertificazione e fotocopia del documento d’identità.

Con la domanda, si autorizza Cassa Forense a pubblicare sul sito la graduatoria completa. Dunque, pur senza nominativo appaiono codice meccanografico/ numero di protocollo, votazione conseguita e data di nascita del richiedente. Infine, con la stessa presentazione della domanda, si autorizza Cassa Forense ad effettuare controlli idonei, anche a campione, sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive ed autocertificazioni.

Cassa Forense, Bando premio “Marco Ubertini” 2021, importo e graduatoria

Per i vincitori, il premio è erogato in un’unica soluzione: tre mila euro per il primo classificato, duemila per il secondo e mille per il terzo. Nello specifico, si tratta di un’erogazione secondo graduatoria costituita, per ciascun Distretto, in base alla votazione più alta ottenuta.

Ora, in caso di parità, ha la precedenza il richiedente con minore età anagrafica. Nell’eventualità di un’ulteriore parità, ci si basa sulla priorità cronologica di presentazione della domanda.

E se non vengono assegnati premi in tutti i distretti? In questo caso, si assegnano i premi residui sulla base di una graduatoria nazionale unica.

 

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Post su fb contro l’azienda? Scatta il licenziamento

Pubblicare un post contro la propria azienda legittima il licenziamento per giusta causa

Scrivere un post dal contenuto offensivo rivolto ai vertici ed ai superiori dell’azienda in cui si lavora giustifica il licenziamento del dipendente. Questo, in estrema sintesi, è quanto affermato dalla Cassazione nella recente sentenza n. 27939/2021. Alla base della conclusione, l’idea che un post offensivo rappresenti un grave atto di insubordinazione, tale da non richiedere nemmeno l’accertamento del danno.

Licenziato il dipendente per post offensivo pubblicato sui social

Succede che un’azienda disponga il licenziamento di un dipendente, il quale lo impugna davanti al Tribunale, che però da regione alla datrice. Succede allora che il dipendente, con tempestività, si opponga alla decisione; tuttavia, la Corte di Appello conferma la decisione del primo grado. Alla base del contenzioso il contenuto sprezzante e offensivo di un post su fb e di tre e-mail, tutti ad opera del dipendente.

 

 

Nello specifico tale contenuto è indice di grave insubordinazione da parte del dipendente, tale da giustificare il licenziamento per giusta causa. In effetti, con la sua condotta il lavoratore avrebbe definitivamente compromesso il rapporto fiduciario necessario per poter proseguire il rapporto di lavoro.

Ora, il dipendente, nel suo ricorso in Cassazione, solleva i seguenti motivi:

  • La Corte non ha esaminato alcuni elementi decisivi che hanno giustificato suddetta elaborazione dei messaggi incriminati;
  • L’acquisizione del post è avvenuta illegittimamente dalla sua pagina, che essendo personale è anche riservata. In questo senso, la pubblicazione risulta incompatibile con qualsivoglia reato di denigrazione o diffamazione;
  • La Corte commette un errore nel qualificare la sua condotta come “grave insubordinazione ai superiori”;
  • La Corte non ha nemmeno accertato il grave nocumento morale o materiale” arrecato all’azienda dalla sua insubordinazione, pur avendolo ritenuto insito nella sua condotta.

Offendere i superiori è insubordinazione anche se non si accerta il danno arrecato

A questo punto, si arriva in Cassazione, la quale rigetta il ricorso. Alla base della decisione degli Ermellini queste motivazioni:

  • La sentenza è argomentata in modo congruo, la conclusione è rafforzata dalla doppia conforme;
  • Il secondo motivo è infondato: la pagina social personale del lavoratore “è [idonea] a determinare la circolazione del messaggio [anche] tra un gruppo indeterminato di persone”;
  • Anche il terzo motivo è infondato: il concetto di insubordinazione si riferisce a qualsiasi comportamento che pregiudichi sia l’esecuzione che il corretto svolgimento delle disposizioni suddette nel quadro dell’organizzazione.

In effetti, già nella decisione n. 9635/2016, la Cassazione precisava che “la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire […] [all’] art.2 della Costituzione, può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio nell’organizzazione aziendale […]”.

  • Infondato anche il quarto motivo: l’accertamento del grave danno morale o materiale non è necessario in quanto già tipizzato nella condotta.

 

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Requisiti per ritenere valido il disconoscimento della copia di un documento

Quali sono i requisiti che permettono di ritenere valido il disconoscimento della copia di un documento nell’ambito di un giudizio civile?
La Cassazione si è espressa a tal proposito con la sentenza n. 24634/2021.

IL DISCONOSCIMENTO DELLE COPIE

L’art. 2719 del Codice Civile spiega che le copie fotografiche di documenti hanno la stessa efficacia degli originali, se la loro conformità con questi è attestata da un pubblico ufficiale competente o non è espressamente disconosciuta.

IL CASO

Nell’ambito di una procedura fallimentare, il giudice delegato esclude la prelazione sugli interessi convenzionali a causa della mancata produzione da parte della banca delle note di iscrizione ipotecaria.

La banca si oppone ai sensi dell’art. 98 delle legge fallimentare, ma il Tribunale rigetta l’azione.
Il Tribunale ritiene infatti valido il disconoscimento formulato dal fallimento, ai sensi dell’art. 2719 del Codice Civile, sulla conformità agli originali delle copie delle note di iscrizione ipotecaria presentate dalla banca. La banca, a seguito del disconoscimento, non aveva esibito né prodotto gli originali.

La mancata produzione degli originali ha reso impossibile, secondo il Tribunale, l’accertamento della conformità delle copie.

La banca porta allora la questione in Cassazione.
L’istituto è convito che la decisone del Tribunale sia errata poiché ha conferito “valore assorbente” al disconoscimento della conformità agli originali delle copie dei documenti, senza considerare che il fallimento si era limitato a un disconoscimento generico delle copie, senza indicare in quali punti queste costituissero un “falso”.

I REQUISITI PER RITENERE VALIDO IL DISCONOSCIMENTO DELLE COPIE

La Cassazione accoglie il ricorso.
Questi i motivi:

– Il disconoscimento delle scritture private non è soggetto alle disposizioni dell’art. 215 c.p.c. comma 1, n. 2.
Ciò significa che il disconoscimento della conformità della copia all’originale non contempla l’inutilizzabilità del documento in difetto di istanza di verificazione, poiché il giudice può accertare la conformità anche aliunde, tramite altre prove, anche presuntive;

– ai fini del disconoscimento di cui all’art. 2719 del Codice Civile, la giurisprudenza ha introdotto un ulteriore requisito: l’indicazione specifica degli elementi che differenziano copia e originale;

– l’orientamento giurisprudenziale di legittimità ritiene che il disconoscimento formale debba avvenire, pena l’inefficacia, “attraverso una dichiarazione che evidenzi in modo chiaro ed univoco sia il documento che si intende contestare, sia gli aspetti differenziali di quello prodotto rispetto all’originale”.

Nel caso in questione, il Tribunale ha sbagliato nel ritenere efficace il disconoscimento, poiché il fallimento non ha evidenziato differenze fra gli originali e le copie presentate dalla banca ricorrente. Non sono nemmeno state rilevate segni (es.: cancellature.) che potessero generare dubbi sulla conformità delle seconde ai primi.

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Qual è il termine entro il quale è possibile contestare la CTU?

Con l’ordinanza n. 23457/2021 del 26 agosto 2021, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul termine entro il quale è possibile contestare la CTU nell’ambito civile.

IL CASO

Un cliente chiede al Giudice di Pace il rimborso dopo aver acquistato un capo d’abbigliamento, a suo parere difettato. Durante il giudizio viene disposta una consulenza tecnica d’ufficio per verificare la presenza del difetto e il Giudice alla fine dà ragione al cliente. La condanna al rimborso viene confermata anche dal Tribunale in sede gravame, e la venditrice decide di rivolgersi alla Corte di Cassazione.

Fra i vari motivi portati dalla venditrice, anche l’omessa pronuncia da parte del giudice di merito sulle eccezioni da lei formulate a proposito delle modalità di svolgimento della CTU. Dopo il primo incontro, il consulente tecnico d’ufficio non avrebbe comunicato alle parti le successive date per lo svolgimento delle indagini tecniche e non avrebbe inviato la bozza del suo riscontro prima del deposito in Cancelleria.
La ricorrente dice di aver sollevato queste eccezioni nel corso del giudizio e per poi ribadirle con la comparsa conclusionale.

CTU CONTESTATA, SERVONO PROVE SULLA TEMPESTIVITÀ

La Cassazione rigetta il ricorso, ritenendo inammissibile il motivo portato dalla venditrice e dichiarando che:

«le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d’ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto, sicché sono soggette al termine di preclusione di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2, dovendo, pertanto, dedursi – a pena di decadenza – nella prima istanza o difesa successiva al suo deposito».

Nel caso specifico, la ricorrente non ha indicato con sufficiente precisione in quale momento processuale siano state sollevate per la prima volta le doglianze rispetto alla CTU:

«non è sufficiente, al riguardo, la sola affermazione secondo cui ciò sarebbe avvenuto all’udienza del XX.X.XXXX, poiché il motivo non riporta, neanche per riassunto, il verbale di detta udienza, né precisa per quale adempimento essa fosse stata fissata, né specifica che la stessa fosse la prima udienza utile dopo il deposito della CTU oggetto di contestazione

La Cassazione ritiene che tali carenze siano decisive. La ricorrente avrebbe dovuto dimostrare di aver sollevato tempestivamente le eccezioni nel corso del giudizio di merito, con la prima difesa utile dopo il deposito del resoconto del CTU. Poiché tale prova manca, la sua richiesta non può essere accolta.

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