E se il tampone scade durante l’orario di lavoro?

Come comportarsi se il valore del test del tampone scade durante l’orario di lavoro

Durante questo periodo di ancora piena pandemia ci si potrebbe porre la seguente domanda. Ovvero, cosa fare se il test di un tampone perde validità nel corso dell’orario di lavoro? Lo chiarisce il Governo nelle proprie FAQ del merito.

Scadenza del Green Pass per il lavoratore in sede: linee guida di comportamento

Come dicevamo, il Governo emana specifiche rispetto all’ipotesi che un green pass da tampone negativo scada durante la giornata lavorativa. In questo caso, il datore di lavoro non può allontanare il dipendente dal luogo lavorativo. Infatti, nel momento in cui il lavoratore effettua l’accesso in loco con la propria Certificazione Verde valida, è autorizzato a rimanere lì.

Dunque, soltanto a fine giornata avrà l’obbligo di recarsi nuovamente in un centro che abbia l’abilitazione a effettuare un nuovo test di verifica. Dunque, l’iter di controllo del datore ha valenza solo nel momento dell’accesso del professionista nella struttura o comunque nel luogo lavorativo. Di conseguenza, è solo in questo caso che il lavoratore potrà essere allontanato per ragioni di sicurezza e normativa vigente.

Al contrario, non si prevede alcun controllo nel corso delle ore lavorative. Infatti, il professionista deve avere la possibilità di esercitare liberamente la propria professione. Pertanto, se nel corso dell’orario lavorativo giungesse un controllo non si potrebbe applicare alcuna sanzione.

Questo discorso vale sia per il lavoratore con la certificazione verde scaduta magari da qualche ora, sia per il datore di lavoro. Sarà sufficiente che quest’ultimo ottemperi all’obbligo di verifica del certificato al momento di ingresso dei lavoratori.

Ovviamente, al termine del proprio orario di lavoro il lavoratore dovrà provvedere al rinnovo della certificazione. Altrimenti, non avrà più l’autorizzazione a rientrare a lavoro: ad ogni ingresso ha l’obbligo di esibire il green pass valido.

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DNSH: clausole green nel piano PNRR

Do No Significant Harm, il monito per rispettare l’ambiente con gli interventi del PNRR

DNSH letteralmente significa “non arrecare un danno significativo all’ambiente”: ecco il monito che si legge nei documenti tecnici in merito al PNRR. Fa parte di una Guida Operativa di 300 parole che il Governo pubblica per aiutare a rispettare con efficienza il Regolamento europeo 2020/852. Quest’ultimo riguarda gli obiettivi climatici e ambientali che tra l’altro ci si erano prefissati con l’accordo di Parigi e il Green Deal.

DNSH: clausole green nel piano PNRR per rispettare l’ambiente e il fragile clima

La clausola DNSH rivela la sua importanza in quanto riguarda in maniera diretta ben oltre 150 interventi del PNRR. Ora, quali sono gli elementi di novità rispetto alla normativa vigente? Ecco alcuni esempi concreti per capire:

  • Per quanto riguarda le costruzioni, la domanda di energia primaria negli edifici finanziati deve essere inferiore del 20% alla domanda di energia primaria risultante dai requisiti Nzeb (ossia, “edificio a energia quasi zero”);
  • Obbligo di avere come base l’Eu Green Public Procurement per acquistare le forniture e le attrezzature elettriche ed elettroniche che si usano nel settore sanitario;
  • Certificazioni sulle prestazioni energetiche necessarie per i data center.

La Guida si rivolge ai soggetti attuatori e precisa che dovrà essere cura dell’impresa proponente tenere conto dei vincoli DNSH. Questo in caso di procedimenti preliminari per le autorizzazioni ambientali, come ad esempio ViaVas o Aia.

Transizione ecologica, valutazione di conformità, biodiversità: l’attenzione green nel PNRR

Innanzitutto, rispetto al capitolo sulla transizione ecologica si comincia con la produzione di elettricità da pannelli solari. Inoltre, questa svolgersi con adeguati livelli di efficienza, come inclinazioneassolazione e ampiezza. Infine, è necessario limitare l’uso del suolo.

Una specifica: se gli impianti hanno ubicazione in aree sensibili per quanto riguarda biodiversità si deve procedere a una valutazione di conformità. Si tratta di un’accortezza che va estesa anche per l’eolico. Infatti, se gli impianti si trovano in aree sottoposte a vincoli paesaggisticiambientali e idrogeologici, si dovranno acquisire i relativi nulla osta.

Infine, si deve sempre tenere in mente della cura e rispetto delle aree protette, così come assicurarsi che eventuali suoni non danneggino la flora e fauna circostante.

DNSH: clausole green nel piano PNRR sulla produzione e stoccaggio dell’idrogeno

Ora, per quanto riguarda la produzione e stoccaggio dell’idrogeno, il documento sottolinea l’esclusione di “ogni processo che utilizzi il gas naturale come materia prima della reazione (steam methane reforming)”. Il discorso vale per:

  • Interventi in aree industriali dismesse;
  • Decarbonizzazione dei settori industriali “hard to abate”.

Inoltre, alla luce della lotta al cambiamento climatico, bisogna garantire che la riduzione delle emissioni di CO2 deve essere di almeno il 74,3% in entrambi i casi.

Per quanto riguarda il primo punto, non si dovrà mai ricorrere alla miscelazione (blending) con il gas naturale o altro di origine fossile. Invece, per quanto riguarda la seconda si ammette un mix di almeno il 10% di idrogeno con altri fluidi di origine fossile.

Per concludere, ricordiamo che il principio del DNSH è fondamentale per accedere ai finanziamenti del RRF. Esso si basa su quanto specificato nella “Tassonomia per la finanza sostenibile”. Inoltre, i piani devono includere interventi che concorrono per il 37% delle risorse alla transizione ecologica.

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Se la domanda di condono edilizio viene respinta?

Condono edilizio respinto, quando avviene la prescrizione per la restituzione delle somme versate

Con la sentenza 00682/2022 il Tar Lazio si esprime in merito al calcolo della prescrizione per la restituzione di quelle somme che si versavano per un condono edilizio. Qualora quest’ultimo venga negato, gli importi che si corrispondono per oblazione si restituiranno entro dieci anni. Invece, tali importi si devono restituire entro tre anni solo nel caso di conguaglio per silenzio d’assenso. Vediamo assieme la vicenda processuale.

Quando avviene la restituzione degli importi corrisposti in caso di condono edilizio negato?

La vicenda coinvolge una donna che fa ricorso per “l’accertamento del diritto alla restituzione delle somme versate, quale erede del coniuge, a titolo di oblazione in relazione a due pratiche di condono edilizio presentate dal defunto marito”. Le due domande alla quale si riferisce risalgono una al 1986 e l’altra al 2004, entrambe respinte nel 2005.

A questo punto, c’è un ricorso al Tar Lazio. E si prosegue con la:

  • Impugnazione dei due provvedimenti;
  • Demolizione dei manufatti che si ritenevano non sanabili dal Comune;
  • Rinuncia all’impugnativa che si proponeva.

Successivamente, nel 2014 tale signora richiede la restituzione delle somme versate a titolo di oblazione, così come gli interessi. Poi, la donna decide di interpellare il Tar Lazio sostenendo che si debba applicare il termine di prescrizione decennale anziché quello triennale. Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate costituita in giudizio chiede il rigetto del ricorso.

Cosa stabiliscono i giudici in merito al calcolo della prescrizione

Al contrario, per i giudici si deve accogliere il ricorso della donna. In effetti, portano all’attenzione che il termine triennale di prescrizione si possa applicare solo nel caso “di somme dovute a conguaglio, scaturenti dal silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria.”. Dunque, “ne discende, attesa la sostanziale specialità della norma, l’inapplicabilità del termine breve ai casi in cui, come quello in esame, il procedimento di condono si sia definiti con provvedimento di rigetto.”

In aggiunta, affermano che: “in tali ipotesi, in cui il diniego importa l’insorgere di un diritto al rimborso di oneri indebitamente versati, l’azione per la ripetizione di quanto versato si prescrive nell’ordinario termine decennale”. Quindi, questo termine decorre “ordinariamente, dal momento in cui l’Amministrazione adotta il provvedimento di rigetto del condono”.

Per concludere, ecco ciò che stabiliscono i giudici in merito al calcolo della prescrizione:

Il termine di prescrizione decennale, che aveva quindi cominciato a decorrere dal marzo 2011 non era evidentemente decorso al momento della presentazione della relativa domanda all’agenzia delle Entrate, avvenuta in data 22 maggio 2015”.

 

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L’Italia è percepita come un Paese meno corrotto

Italia avanza di dieci posizioni nella classifica Transparency International del 2021

Nella classifica dell’anno appena passato sull’Indice di percezione della corruzione dei vari Paesi l’Italia sale di una decina di posizioni. Dunque, il ranking di Transparency International che dimostra qual è la percezione in merito di 180 Paesi posiziona l’Italia al 42esimo posto. Ne consegue che sta crescendo la fiducia internazionale nei confronti del Bel Paese, che rimane tuttavia ancora lontano dalla media dei “colleghi” dell’UE.

Ranking nella classifica mondiale sulla percezione della corruzione

Il 42esimo posto che si guadagna l’Italia corrisponde ad un punteggio di 56 per la classifica di Transparency international14 punti in totale conquista il Bel Paese nel giro di dieci anni, mentre gli altri Paesi dell’UE la distaccano con 64 punti.

A tal proposito, Transparency afferma che il progresso “è il risultato della crescente attenzione dedicata al problema della corruzione nell’ultimo decennio e fa ben sperare per la ripresa economica del Paese dopo la crisi generata dalla pandemia”. Ciononostante, evidenzia che non ci sono stati cambiamenti sconvolgenti a causa del periodo: il livello di percezione della corruzione rimane fermo.

Ecco chi sono i primi in classifica:

  • Danimarca, Nuova Zelanda, Finlandia: 88 punti;
  • Germania: 80 punti;
  • Regno Unito: 78.

Invece, in coda alla classifica si trovano Siria, Somalia, Sud Sudan.

Ora, specifichiamo che l’indice che si va ad elaborare ogni anno si basa sulla percezione del livello di corruzione nel settore pubblico. Inoltre, l’analisi si compie attraverso l’impiego di 13 strumenti di analisi e di sondaggi che si rivolgono a delle persone esperte in materia.

In particolare, secondo l’analisi un punteggio inferiore a 50 rappresenterebbe l’evidenza di importanti problemi di corruzione. E di conseguenza, il rischio è quello di un arretramento della tutela dei diritti umani, la libertà d’espressione e la crisi della democrazia.

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Arriva la normativa che blocca le chiamate di telemarketing anche per i cellulari

DPR contro squilli molesti anche ai numeri di cellulare: la fine del telemarketing selvaggio

È in arrivo il decreto che permetterà di evitare la ricezione delle chiamate indesiderate sul telefono mobile. Lo annuncia il 21 gennaio 2022 un comunicato stampa del Consiglio dei Ministri in cui si afferma l’estensione del “registro delle opposizioni”. Inoltre, la Legge di Conversione n. 205/2021 interviene anche in materia di dati personali. Vediamo le novità nel dettaglio.

Stop al telemarketing selvaggio su mobile e modifica del Codice sui dati personali

Nel Comunicato Stampa del Consiglio dei Ministri si legge che:

“Il testo attua l’estensione, prevista dalla nuova normativa, della disciplina del registro pubblico delle opposizioni a tutte le numerazioni nazionali fisse e mobili, comprendendo anche quelle non riportate negli elenchi telefonici, cartacei o elettronici, che fino ad oggi ne erano escluse.”

Invece, per quanto riguarda il recente decreto legge n. 139/2021 si comprende ciò che comporta la modifica del codice sui dati personali per:

“Nuove disposizioni in materia di iscrizione e funzionamento del registro delle opposizioni e istituzione di prefissi nazionali per le chiamate telefoniche a scopo statistico, promozionale e di ricerche di mercato.”

Chi può iscriversi al Registro delle opposizioni e quali sono gli obblighi per gli operatori di telemarketing?

Dunque, possono iscriversi al registro delle opposizioni “tutti gli interessati che vogliano opporsi al trattamento delle proprie numerazioni telefoniche”. Tale trattamento si effettua “mediante operatore con l’impiego del telefono”. Allo stesso tempo, ci si può iscrivere “ai fini della revoca di cui al comma 5”.

Ovvero, sancendo la fine di chiamate prive di operatore ma con sistemi automatizzati per l’invio di materiale pubblicitario o per vendita diretta. In particolare, gli operatori di questo sistema hanno l’obbligo di consultare mensilmente il registro pubblico delle opposizioni e di provvedere all’aggiornamento delle proprie liste.

Infine, tutti gli operatori che svolgono attività di call center per chiamate con o senza operatore hanno un ulteriore obbligo. Ossia, presentare “l’identificazione della linea chiamante e il rispetto di quanto previsto dall’articolo 7, comma 4, lettera b), del codice di cui al decreto legislativo n.196 del 2003.”

Quindi, il registro pubblico delle opposizioni è un servizio (gratuito) grazie al quale l’utente si può opporre all’utilizzo del suo numero per il telemarketing. Così, il proprio telefono e indirizzo negli elenchi pubblici non verrà preso in considerazione per scopi pubblicitari.

Stop al telemarketing selvaggio su mobile: come funziona il registro pubblico delle opposizioni

In altre parole, chiunque voglia fare del telemarketing ora dovrà consultare il registro delle opposizioni prima di passare alle chiamate. Qui, si indica chiaramente se il soggetto in questione ha dato o meno il suo consenso a ricevere chiamate di pubblicità.

Dunque, gli utenti che vogliono iscriversi al registro dovranno aggiornare i dati e revocare l’iscrizione al RPO. A tal proposito, si può procedere in questi diversi modi:

  • Via web, con la compilazione di un modulo elettronico;
  • Telefonicamente, dalla linea telefonica per la quale si chiede l’iscrizione nel registro;
  • Mediante posta elettronica.

 

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Residenza virtuale, cosa dice la legge?

Come richiedere la residenza virtuale, collegamento tra territorio e soggetti senza fissa dimora

La residenza virtuale assicura un collegamento tra il territorio e i soggetti, qualora questi ultimi si trovino in condizioni particolari. Ovvero, quelle persone che per scelta o difficoltà economiche si trovano in uno stato di senza fissa dimora. La residenza virtuale permette di rintracciare e dare a queste persone i diritti che spettano loro.

Residenza virtuale: cos’è e come richiederla ai sensi della Legge

Innanzitutto, ricordiamo che la Legge n. 1228/1954 stabilisce che l’iscrizione all’anagrafe del Comune è un diritto soggettivo. Quindi, esso spetta a tutti i cittadini che ne abbiano facoltà. Di conseguenza, ogni Comune ha l’obbligo di tenere l’anagrafe della popolazione residente e di registrare anche le posizioni di coloro che sono senza fissa dimora lì domiciliate.

A loro volta, ogni domiciliato ha l’obbligo di registrarsi al proprio comune e di comunicare ogni suo cambiamento, come il trasferimento (art. 2). A questo punto, la Circolare Istat n. 29/1992 stabilisce che quando il Comune riceve un’iscrizione anagrafica da senza fissa dimora dovrà provvedere ad attribuire loro una residenza in via fittizia. Ossia, una residenza che non esiste ma che ha comunque un valore giuridico.

A cosa serve questa residenza in via fittizia? Si tratta di una soluzione indispensabile per la richiesta di documenti come carta d’identitàpermesso di soggiorno e tessera sanitaria. Se tale soluzione non viene riconosciuta, il Comune viola importanti diritti e doveri di rango costituzionale come:

  • Il dovere di solidarietà politica, economica e sociale;
  • Diritto all’uguaglianza formale e sostanziale;
  • Lavoro;
  • Libertà personale;
  • Inviolabilità del domicilio;
  • Libertà di fissare la propria residenza nel territorio dello Stato;
  • Difesa in giudizio;
  • Salute, assistenza e previdenza sociale;
  • Voto.

Registro nazionale delle persone che non hanno fissa dimora e residenza virtuale

Successivamente, la Legge del 15 luglio 2009 n. 94 modifica l’art. 2 della Legge n. 1228/1954. Con essa si istituisce presso il Ministero dell’Interno il Registro nazionale delle persone che non hanno fissa dimora. Questo funziona attraverso l’utilizzo del sistema INA-SAIA.

Tale sistema viene tenuto dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali – Direzione centrale per i servizi demografici. Nello specifico, solo il Ministero accede in via esclusiva a tale registro. E, lo fa attraverso un’apposita funzione di ricerca col fine di tenere e conservare il registro.

 

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Col decreto legge n. 1 del 7 gennaio 2022 l’obbligo vaccinale si estende non più solo al personale sanitario, ma anche a tutti gli over 50. Difatti, dall’art. 1 si evince che fino al 15 giugno 2022 tale misura si estende a tutti i cittadini italiani e altri residenti UE. Chiunque violi tale obbligo incorrerà in una sanzione di 100 euro, con possibilità di ricorso al Giudice di Pace.

Obbligo vaccinale: cosa prevede la Legge per la tutela della salute pubblica

Innanzitutto, specifichiamo che il fine annesso a tale misura è la tutela della salute pubblica e il mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza. Questo decreto si applica a:

  • Cittadini Italiani;
  • Residenti in Italia ma cittadini di altri Stati membri dell’UE;
  • Cittadini stranieri.

Come chiariscono gli artt. 34 e 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 riguarda i cittadini che abbiano compiuto il cinquantesimo anno d’età salvo ciò che gli artt. 4, 4 -bis e 4 -ter. prevedono.

In quali casi si incorre in sanzioni con multe da 100 euro per l’obbligo vaccinale over 50?

L’art. 4 sexies specifica che chiunque violi tale obbligo vaccinale incorrerà in una sanzione di 100 euro nei casi che elenchiamo:

  • Se alla data del 1° febbraio 2022 non si iniziava il ciclo vaccinale primario;
  • Qualora dal 1° febbraio 2022 non ci si sottoponesse alla dose di completamento del ciclo vaccinale primario. Nel rispetto delle indicazioni e nei termini della circolare del Ministero della Salute;
  • Se dal 1° febbraio 2022 non si effettuava la dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario entro i termini di validità delle certificazioni verdi COVID-19.

La multa dei 100 euro avverrà ad opera del Ministero della Salute tramite l’Agenzia delle Entrate Riscossione. Successivamente, tali enti provvederanno a indicare agli interessati un termine perentorio di dieci giorni dalla ricezione della sanzione. Ora, tali soggetti dovranno comunicare l’eventuale certificazione relativa al differimento o all’esenzione dall’obbligo vaccinale. Ovvero, una ragione di assoluta e oggettiva impossibilità.

Poi, se la ASL non conferma l’insussistenza dell’obbligo vaccinale o l’impossibilità di adempiervi, provvede a notificare un avviso di addebito. Tale avviso ha valore di titolo esecutivo e deve notificarsi entro centottanta giorni dalla relativa trasmissione.

Come fare ricorso per l’obbligo vaccinale over 50 dopo aver ricevuto la multa

Ora, se il trasgressore non intende pagare la sanzione entro il termine può fare ricorso entro 30 giorni al Giudice di Pace. A questi pagherà il contributo unificato dal valore di una quarantina d’euro. Inoltre, davanti al giudice si dovrà presentare da solo, senza assistenza dell’avvocato. Nello specifico, se si decide di fare ricorso conviene chiedere all’Agenzia di sospendere l’addebito dell’avviso.

A questo punto, si potrà accogliere o rigettare il ricorso. Tuttavia, il soccombente in caso di rigetto ha ancora una possibilità. Infatti, può impugnare la decisione del Giudice di Pace davanti al Tribunale nel termine di 30 giorni da quando gli si notifica la sentenza.

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Parlamento UE approva il nuovo Regolamento sui Servizi Digitali

Il 21 gennaio scorso il Parlamento Europeo vota e approva in plenaria la proposta del Regolamento sui Servizi Digitali (DSA). Al medesimo evento si elegge la nuova presidente del Parlamento europeo, si discutono le priorità della Francia per la Presidenza del Consiglio e infine si votano appunto le misure sui servizi digitali. Tuttavia, l’approvazione del DSA e la successiva versione adottata dal Parlamento non sembra adeguarsi agli obiettivi che ci si prefissava nel 2020.

Digital Service Act approvato dal Parlamento dell’Unione Europea: perplessità in merito alla versione

Innanzitutto, ricordiamo che il fine del DSA è principalmente quello di stabilire delle regole comuni per le piattaforme digitali. Nello specifico, è fondamentale la questione riguardo lo stabilire per tutti cosa sia illegale in ambito digitale, sia online che offline. Tuttavia, il DSA che il Parlamento approva prevede dei limiti che paiono indebolire la lotta all’illegalità invece che contrastarla con maggiore forza.

In effetti, tra le altre cose si decide di adottare un sistema di “notifica e azione” e una garanzia per la rimozione di prodottiservizi e contenuti. Inoltre, si rafforza l’obbligo di tracciamento dei commercianti, che per il momento riguarda solo i marketplace. Dunque, si tratta di una soluzione che ha una sua efficacia solo per quanto riguarda la lotta alla contraffazione ma non per i contenuti.

Invece, è necessario che i temi del negoziato riguardino anche i motori di ricerca, luogo ricco di link e contenuti illegali. Oltre a questo, si devono risolvere gli aspetti di dettaglio sullo stay down e un’apertura maggiore vero servizi di monitoraggio.

Le modifiche al DSA introdotte con l’approvazione da parte del Parlamento dell’Unione Europea

Ora, stiliamo un elenco delle modifiche in merito al nuovo Regolamento per i Servizi Digitali che il Parlamento UE approva:

  • Esenzione delle micro e piccole imprese da alcuni obblighi;
  • Scelta più trasparente e autonoma sulla pubblicità mirata. Nello specifico, sarà possibile rifiutare il consenso a un sito senza troppe complicazioni o giri di parole;
  • Proibizione di tecniche di targeting e amplificazione rispetto a categorie di soggetti vulnerabili;
  • Risarcimenti possibili per eventuali danni a seguito dell’inadempimento di obblighi di diligenza da parte delle piattaforme;
  • Divieto di tecniche ingannevoli o di nudging da parte delle piattaforme online che possano influenzare negativamente gli utenti;
  • Scelta maggiore in termini di classificazione su algoritmi. Ossia, la possibilità che piattaforme grandi forniscano almeno un sistema di raccomandazione non basato sulla profilazione;
  • Rispetto da parte dei fornitori di libertà d’espressione e di pluralismo dei media;
  • Nuova disposizione sul diritto di utilizzo e pagamento dei servizi digitali in maniera anonima.

Dunque, ciò che volge maggiormente le spalle al progresso è proprio un’azione efficace di contrasto dei contenuti illegali online. Paradossalmente, rischia invece di frenare le attività di lotta all’illegalità su vari fronti. Ad esempio, per quanto riguarda lo streaming illegale di contenuti; la diffusione degli stessi sulle piattaforme di messaggistica o la scarsa efficacia dell’intervento dei motori di ricerca.

Quindi, va alla presidenza di turno francese migliorare queste proposte.

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L’Avvocatura dice no alle sentenze da remoto

Spese legali a carico dello Stato. In quali circostanze?

Accesso alla giustizia come garanzia essenziale per i cittadini, a partire dai non abbienti. Da qui si parte nell’emanazione di una recente sentenza della Corte Costituzionale in merito alle spese legali a carico dello Stato. È lo Stato a farsi carico delle spese per i non abbienti, non solo nel processo ma anche nella mediazione obbligatoria conclusa con successo. Vediamo assieme perché.

Stato: spese legali nel processo e nella mediazione obbligatoria conclusa con successo

Una nota che l’ufficio stampa della Consulta diffonde illustra le motivazioni con cui la Corte Costituzionale dichiara illegittima la disciplina sul patrocinio a spese dello Stato. Nello specifico, si evince:

“là dove non prevede che questo beneficio possa essere riconosciuto ai non abbienti anche per l’attività difensiva svolta in loro favore nel procedimento di mediazione obbligatoria concluso con esito positivo”.

Si tratta di una decisione importante per il diritto alla tutela assicurativa dell’avvocato. Lo è nonostante riconoscere a tutti tale diritto pesa sull’equilibrio di bilancio. Infatti, si tratta di un’esigenza che:

“recede di fronte alla possibilità, per il legislatore, di intervenire, se del caso, a ridurre quelle spese che non rivestono il medesimo carattere di priorità”

Dunque, è lo Stato a doversi fare carico delle spese legali per i non abbienti non solo nel processo ma anche nella mediazione obbligatoria. Difatti, la Corte ricorda che si tratta di:

“una spesa costituzionalmente necessaria per assicurare l’effettività dell’inviolabile diritto al processo e alla difesa”

Il giudice Luca Antonini è il Redattore della sentenza (n. 10 del 2022), con la quale si afferma che l’attuale disciplina è dunque irragionevole e lesiva del dritto di difesa.

Lesivo non consentire ai non abbienti di avvalersi del patrocinio dello Stato per le spese legali

Nello specifico, l’incostituzionalità riguarda gli articoli 74, secondo comma75, primo comma, e 83, secondo comma, del Dpr n. 115 del 2002. Nella sentenza si spiega che è irragionevole imporre un procedimento in alcune materie per finalità deflattive ma non riconoscere anche la possibilità di ottenere il patrocinio a spese dello Stato.

Secondo il giudice delle leggi questo potrebbe indurre a non raggiungere l’accordo in fase di mediazione per rivolgersi al giudice stesso. Questo allo scopo di ottenere il pagamento a carico delle Stato delle spese difensive. Di conseguenza, si vanificano le finalità deflattive della mediazione obbligatoria.

Inoltre, secondo la Corte è lesivo del diritto di difesa prevedere come obbligatorio un procedimento che può condizionare l’esercizio del diritto di azione. E, non assicurare al contempo la possibilità per i non abbienti di avvalersi del patrocinio a spese dello Stato.

Corte Costituzionale: irragionevole e lesiva del diritto di difesa l’attuale disciplina

Ora, la pronuncia precisa che:

“quando una scelta legislativa giunge sino a impedire a chi versa in una condizione di non abbienza l’effettività dell’accesso alla giustizia vengono nitidamente in gioco il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.) e l’intero impianto dell’inviolabile diritto al processo di cui ai primi due commi dell’art. 24 Cost.”.

Infine, la Corte Costituzionale sostiene che:

“è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”.

Il valore della decisione è fondamentale in questo periodo. Infatti, il PNRR tende ad anteporre le ragioni dell’efficienza anche nel sistema giudiziario. Tuttavia, il rischio è quello di sacrificare la centralità della persona.

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Privacy ai tempi della pandemia, cosa dice il Garante

Che valore ha il diritto alla privacy nel periodo pandemico da Covid-19?

Tre sono in particolare le soluzioni che fanno sorgere dubbi ai cittadini in merito alla fine che fanno i propri diritti di privacy in questo periodo. Ossia, la Didattica a distanza (DAD), il Green Pass e ora il Super Green Pass. A tal proposito, il Garante Privacy nota come i dati personali nei confronti di tali soluzioni siano talvolta trattati in maniera fumosa.

La privacy durante il periodo di pandemia da Covid 19: l’opinione del Garante

Il 7 dicembre del mese scorso l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali esprimeva perplessità nei confronti dell’introduzione del Green Pass. Nello specifico, il Garante sottolineava e auspicava che questo strumento, ideato per la sicurezza personale, non si trasformi in strumento di sorveglianza di massa.

Inoltre, il Garante mostrava dubbi anche in merito alla consegna della Certificazione Verde da parte dei dipendenti al proprio datore di lavoro. In effetti, egli afferma che:

“La prevista ostensione (e consegna) del certificato verde a un soggetto, quale il datore di lavoro, al quale dovrebbe essere preclusa la conoscenza di condizioni soggettive peculiari dei lavoratori come la situazione clinica e convinzioni personali, pare infatti poco compatibile con le garanzie sancite sia dalla disciplina di protezione dati, sia dalla normativa giuslavoristica (artt. 88 Reg. Ue 2016/679113 d.lgs. 196 del 20035 e 8 l. n. 300 del 197010 d.lgs. n. 276 del 2003).”

L’intervento originario del Garante in merito al diritto di privacy durante la DAD

Il primo intervento del Garante Privacy dacché il Covid ha inizio risale a marzo 2020 in merito alla didattica a distanza. Al proposito, chi forniva la piattaforma era esente dalla ricezione di una nomina, ai sensi dell’art. 28 del GDPR. Effettivamente, la motivazione è che il servizio si rivolge direttamente agli utenti.

In quest’occasione, accade che uno studente si oppone all’utilizzo di tale servizio. In effetti, dato che si da libero consenso per l’uso del servizio, lo studente aveva il diritto di esprimere diniego. Tuttavia, tale possibilità non si prese in considerazione.

Garante in merito al diritto di privacy col piano vaccinale e le vaccinazioni nel luogo di lavoro

Successivamente, il Garante Privacy si esprime con Linee Guida anche in merito al piano vaccinale. Così come alla possibilità per i datori di lavoro di offrire il servizio di vaccinazione in loco. Le sue direttive sono contenute nel Documento “Vaccinazione nei luoghi di lavoro: indicazioni generali per il trattamento dei dati personali”.

Qui, si stabilisce che:

“il datore di lavoro, attraverso le competenti funzioni interne, potrà fornire al professionista sanitario indicazioni e criteri in ordine alle modalità di programmazione delle sedute vaccinali, senza però trattare dati personali relativi alle adesioni di lavoratrici e lavoratori identificati o identificabili”.

Tuttavia, a questa affermazione segue quest’altra eccezione:

“Resta salvo che ove dall’attestazione prodotta dal dipendente sia possibile risalire al tipo di prestazione sanitaria da questo ricevuta, il datore di lavoro, salva la conservazione del documento in base agli obblighi di legge, dovrà astenersi dall’utilizzare tali informazioni per altre finalità nel rispetto dei principi di protezione dei dati (v. tra gli altri, il principio di limitazione della finalità di cui all’art. 5, par. 1, lett. b), del Regolamento) e non potrà chiedere al dipendente conferma dell’avvenuta vaccinazione o chiedere l’esibizione del certificato vaccinale.”

La discussa questione dell’obbligatorietà del Green Pass e Super Green Pass in periodo di pandemia

Ora, torniamo nuovamente con la memoria all’audizione del Garante dello scorso 7 dicembre. Qui, l’Autorità cercava di giustificare le proprie scelte in aderenza ai principi europei sul trattamento dei dati personali. Nello specifico, lo fa con un esercizio retorico che si concretizza in una specie di “excusatio non petita” di prevenzione.

Questa posizione dell’Autorità ha fatto sì che scaturissero critiche nei confronti del suo contegno. Effettivamente, fino al 15 ottobre si impedivano specifiche sull’obbligatorietà del Green Pass per ragioni di tutela dell’individuo.

Dunque, le scelte in merito alla pandemia, le restrizioni, le certificazioni, saranno un compromesso senza ripercussioni? Sono il male minore che possiamo accettare? E cosa comporterà per il futuro la conoscenza della possibilità di uno strumento come il Green Pass?

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