Conti correnti: il rialzo dei tassi non si sta riversando sui rendimenti

Gli effetti del rialzo dei tassi non si stanno riversando sulla remunerazione dei conti correnti italiani. Per l’ultimo report dell’Abi, a ottobre 2022 il tasso medio praticato su conti correnti, certificati di deposito e depositi a risparmio è stato dello 0,37%, contro lo 0,34% del mese precedente.

In tale contesto, la crescita dei depositi si è fermata. Infatti, ad ottobre, i soldi registrati sui depositi in Italia si attestavano sui 1.835 miliardi di euro, con variazione piatta su base annua. (+0,1%).

Questa è la prima volta che nel giro di 12 mesi la variazione tendenziale si annulla. I depositi si attestano poco al di sotto del picco di luglio di 1.873. Sono valori al di sopra di quanto è stato registrato prima della pandemia, tre anni fa, ovvero 1.565 miliardi.

Qualcosa, tuttavia, sembra essere cambiato negli ultimi mesi nel comportamento dei cittadini italiani. È probabile che l’inflazione si stia facendo sentire, riducendo le effettive disponibilità tra i cittadini italiani.

I rendimenti sui conti potrebbero essere ridotti, è vero. Ma il vero tasto dolente sono i costi, che premono molto sui conti correnti, soprattutto in quelli tradizionali.

L’ultimissimo rapporto di Bankitalia ha fotografato un trend in crescita delle spese annue dei conti correnti. Ma soprattutto, si nota come sia difficile diminuire il fenomeno di penalizzazione degli utenti più fedeli: se il conto bancario è particolarmente longevo, i costi risultano ancora maggiori.

Un cliente che ha aperto un conto da più di 10 anni, in media, spende 113 euro, rispetto ai 64 di un cliente con un conto aperto da un solo anno. Parliamo di costi complessivi praticamente dimezzati.

Spiega il responsabile nazionale credito Adiconsum Carlo Piarulli: «Ancora una volta dal rapporto Bankitalia sui conti corrente emerge questo fenomeno increscioso per cui i clienti più fedeli alla banca sono più penalizzati in termini di costi rispetto ai nuovi clienti».

«Capisco» continua, «che le banche devono trovare sempre nuove modalità per essere più attrattive, ma alla fine quello che emerge è un turnover della solita clientela che gira tra gli istituti». Su questo fronte, d’altronde, la mobilità è molto rara.

Secondo un’indagine condotta da Altroconsumo, 8 persone su 10 non hanno cambiato conto corrente nel corso degli ultimi 5 anni. In Italia, inoltre, si stima che non abbia un contro corrente tra il 12% e il 15% dei cittadini.

«Quello che noi suggeriamo ai consumatori più fedeli è di controllare sempre gli oneri che gravano sui conti. Se notano costi anomali o aumenti insostenibili è sempre importante rivolgersi al proprio sportello e chiedere una ricontrattazione delle proprie condizioni, soprattutto se il cliente ha un rapporto di lunga durata e i costi sono sproporzionati rispetto alla nuova clientela».

Nel caso in cui un cliente sia insoddisfatto, «può sempre cambiare banca e gli istituti sono obbligati a fare il passaggio entro 12 giorni lavorativi. È bene che i consumatori siano dinamici su questo fronte e che le banche si attrezzino con offerte più competitive per non perdere la clientela».

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Il Governo italiano ha fatto il punto della situazione per quanto riguarda la digitalizzazione del nostro Paese, snocciolando tutti i dati ufficiali relativi a SPID, CIE, app IO e PagoPA.

Si tratta di numeri importanti, sia per quanto riguarda l’interpretazione della strada che sta prendendo il nostro paese, sia per quanto riguarda i risultati conseguiti in generale

Secondo il Dipartimento per la trasformazione digitale abbiamo raggiunto dei “massimi storici”, con oltre 6 milioni di identità Spid attivate nel 2022 e più di 7 milioni di CIE rilasciate. 1 miliardo, invece, gli accessi ai servizi della PA attraverso SPID, contro i 21 milioni di autenticazioni con CIE.

Sembra lontano, dunque, il passaggio da SPID a CIE recentemente ipotizzato dal governo Meloni, e assumere CIE come unica forma di identità digitale sembra attualmente molto difficile.

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I dati del 2022

SPID

Nel 2022 sono state attivate 6 milioni di identità SPID, per un totale di 33 milioni e mezzo.

1 miliardo di accessi con SPID: soltanto nell’anno precedente erano 570 milioni.

Hanno attivato l’autenticazione con SPID 3000 enti pubblici e 68 soggetti privati.

CIE

Sono state rilasciate 7 milioni di CIE, su un totale di 32,7 milioni.

Le autenticazioni con CIE sono state 21 milioni, e hanno riguardo 6.240 enti pubblici e privati.

3.382 enti federati hanno attivato il servizio.

App IO

L’app è stata scaricata 32 milioni di volte, con una media di 6 milioni e mezzo di utenti al mese.

332 milioni le transazioni di IO con PagoPA, registrando un aumento del 103% e con un valore economico di 61 miliardi di euro.

I messaggi inviati ai cittadini sono stati 247 milioni. I servizi totali disponibili ammontavano a 170.000 e 94.000 erano nuovi.

PagoPA

Hanno ricevuto almeno una transazione 19.088 enti, con più di 9 milioni e mezzo di utenti attivi mensili.

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Con la sentenza n. 10761/2022 il Consiglio di Stato ribadisce l’applicazione degli appalti di accesso civico generalizzato (art. 5 comma 2 del DL 33/2013). Questa applicabilità è prevista dall’art. 35 del nuovo codice.

L’applicabilità, nel caso in esame, viene estesa anche al soggetto che non fa parte della procedura di gara. Così come evidenziato dalla giurisprudenza, «la richiesta di accesso agli atti è indifferente allo scopo ultimo per cui viene esercitata» e questo comporta l’irrilevanza «di un problema di legittimazione alla pretesa sostanziale».

Diventa in tal modo irrilevante la circostanza con cui l’impresa che richiede l’accesso sia stata esclusa dalla procedura di gara, poiché «conclusasi la procedura concorsuale i documenti prodotti dalle ditte partecipanti assumono rilevanza esterna».

Inoltre, «la documentazione prodotta ai fini della partecipazione ad un gara di appalto esce dalla sfera esclusiva delle imprese per formare oggetto di valutazione comparativa essendo versata in un procedimento caratterizzato dai principi di concorsualità e trasparenza».

Le eccezioni opponibili all’istanza di accesso civico generalizzato possono essere rinvenute nei cd. «limiti assoluti all’accesso di cui all’art. 5-bis comma 3, n.33/2013 e i suoi richiami (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 10 del 2020, cit., spec. par. 24 ss.)» a quelli «correlati agli interessi-limite, pubblici e privati, previsti dall’art. 5-bis, comma 1 e 2, DL n.33/2013, nella prospettiva del bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza».

Quanto affermato dal Consiglio di Stato viene ripreso anche nel nuovo codice dei contratti. La nuova norma considera le modifiche «al fine di allineare lo svolgimento della procedura di accesso all’utilizzo delle piattaforme di e-procurement», dato che le stazioni appaltanti devono assicurare «l’accesso alle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici in modalità digitale».

Nel comma 4 della norma si prevede che acquisire dati e informazioni sia consentito «ai sensi degli articoli 3-bis e 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n.241 e degli articoli 5 e 5-bis del decreto legislativo 14 marzo 2013, n.33».

Viene ribadita nella relazione «la possibilità di richiedere, attraverso l’istituto dell’accesso civico generalizzato, la documentazione di gara nei limiti consentiti e disciplinati dall’art. 5-bis del DL 14 marzo 2013 n.33».

Il Consiglio di Stato chiarisce che l’accesso civico generalizzato viene applicato a tutte le fasi di aggiudicazione dei contratti pubblici. Precisando «che il principio di trasparenza, che si esprime nella conoscibilità dei documenti amministrativi, rappresenta il fondamento della democrazia amministrativa in uno stato di diritto, assicurando anche il buon funzionamento della pubblica amministrazione attraverso l’intelligibilità dei processi decisionali e l’assenza di corruzione».

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Ritorna il bonus trasporti. L’annuncio è stato fatto in televisione il 12 gennaio dal premier Meloni. «Nell’ultimo decreto c’è una norma che rimborsa i pendolari della somma che spendono per gli abbonamenti ai mezzi pubblici».

«Stiamo cercando di aiutare, in una situazione di difficoltà, chi è in maggiore difficoltà piuttosto che dare aiuti indistintamente a tutti». La novità è stata inserita nel provvedimento che riguarda i prezzi dei carburanti, pubblicato sabato 14 gennaio in Gazzetta dopo le polemiche sull’eliminazione del taglio delle accise.

La nuova versione del Bonus Trasporti

Il bonus sarà destinato alle persone con reddito inferiore a 20mila euro. In precedenza, era stato stabilito il limite di 35mila.

Nel decreto sulla trasparenza dei prezzi della benzina vengono stanziati 100 milioni per l’intervento. Il buono avrà il nominativo del beneficiario, e sarà utilizzabile per acquistare un solo abbonamento. Non può essere ceduto, non rileva al fine del computo del valore dell’Isee e non costituisce reddito imponibile.

È, dunque, la nuova versione del bonus trasporti, che era rimasto in vigore fino allo scorso 31 dicembre. Il 12 gennaio, il governo, durante l’approvazione del DL Aiuti-quater ha accolto un ordine del giorno proposto dall’ex ministro del Lavoro Orlando, che aveva gestito la piattaforma per richiedere gli sconti.

Si tratta «di un primo segnale di attenzione, su cui vigileremo e ci impegniamo ad una concreta attuazione, ad una misura di buon senso che avevamo introdotto con lo scorso Governo mettendo a disposizione risorse utili a studenti, pensionati, lavoratori, pendolari e famiglie per alleviare i costi di trasporto favorendo in questo modo una valida alternativa all’utilizzo del mezzo privato».

Il vecchio bonus era apparso del DL Aiuti (50/2022). All’art 35 si istituiva un Fondo con lo stanziamento di 180 milioni per il finanziamento di «un buono da utilizzare per l’acquisto di abbonamenti per i servizi di traporto pubblico locale, regionale ed interregionale, ovvero per i servizi di trasporto ferroviario nazionale».

Tale Fondo è stato successivamente incrementato di 10 milioni grazie ai decreti Aiuti-Bis e Aiuti-ter, ed è stato depotenziato nel DL Aiuti-quater, che stabilisce una sforbiciata di 50 milioni per il finanziamento delle misure di calmieramento dell’aumento dei costi delle bollette, principalmente per gli enti del Terzo Settore.

Per saperne di più, tuttavia, dovremo aspettare il 14 febbraio, data in cui verranno pubblicati i dettagli nel decreto attuativo.

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Lo scorso 7 dicembre, il ministro della giustizia Carlo Nordio ha annunciato al Senato di aver intenzione di proporre «una profonda revisione della disciplina delle intercettazioni» e di voler vigilare «in modo rigoroso su ogni diffusione che sia arbitraria e impropria».

Le intercettazioni, secondo Nordio, «sono diventate strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica». Commentava allora Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Anm: «Le intercettazioni sono uno strumento importantissimo, soprattutto nel contrasto alla criminalità mafiosa e terroristica».

Per Santalucia, la presenza estremamente radicata delle organizzazioni mafiose nel nostro paese giustifica «l’uso superiore a quello di altri Paesi che si fa delle intercettazioni in Italia. Siamo assolutamente d’accordo che non debbano causare lesioni al diritto di riservatezza. Una legge è stata fatta qualche anno fa per questo. Vorremmo sapere dal ministro, primo dell’annuncio della riforma, se quella legge ha funzionato o meno».

Sabato scorso, 14 gennaio, Nordio ha definito il costo delle intercettazioni “esorbitante” durante un question time al Senato.

Le spese ammontano «tra i 160 e i 180 milioni di euro l’anno». Sembra una somma eccessiva, magari con sprechi da tagliare. Tuttavia, a differenza di altri esborsi istituzionali, questi strumenti d’indagine non sono soldi buttati.

Secondo Il Fatto Quotidiano, il ministro della Giustizia, pur avendo fatto il magistrato per lunghi anni, non ricorda che è proprio grazie alle intercettazioni che lo Stato riesce a confiscare patrimoni miliardari collegati ad attività criminali. Si parla di un flusso di entrate continuo per le casse pubbliche, che senza intercettazioni non potrebbe esistere.

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Anche per il senatore pentastellato Roberto Scarpinato, uno dei più importanti pm antimafia, «grazie alle intercettazioni lo Stato ha avuto la possibilità di confiscare beni del valore di vari miliardi di euro. Ricordo che nel triennio in cui ho diretto il Dipartimento Mafia ed economia della Procura di Palermo abbiamo sequestrato due miliardi e seicento milioni di euro».

Per Santalucia parliamo di «uno strumento importantissimo per accertare reati di criminalità economica. Ovviamente, se venissero depotenziate, anche la capacità di confiscare patrimoni illeciti di rilevante entità verrebbe depressa». Dunque, «la comparazione dei costi va fatta anche su questo versante».

Dopo la cattura di Matteo Messina Denaro

Maurizio De Lucia, Procuratore capo della Procura di Palermo, durante la conferenza stampa di ieri sulla cattura di Matteo Messina Denaro sottolinea quanto siano state fondamentali le intercettazioni in questo caso.

Spiega il capo dei pm: «L’indagine si basa sull’attività di intercettazione che, se fosse il caso di ribadirlo, sono indispensabili e irrinunciabili nel contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso. Senza intercettazioni non si possono fare indagini e soprattutto le indagini non portano ad alcun risultato. Questa è la cosa più importante e deve essere chiara».

La riforma delle intercettazioni

Il ministro Nordio starebbe lavorando ad una riforma delle intercettazioni, al fine di limitarne l’utilizzo. La decisione ha scatenato fortissime polemiche soprattutto da parte delle opposizioni. Nordio vorrebbe anche eliminare il Trojan, uno «strumento incivile».

Ha ribadito che in ogni caso la riforma non toccherebbe mafia e terrorismo: tagliare i costi e limitare l’utilizzo dello strumento fa in modo che le intercettazioni vengano utilizzate soltanto «in casi eccezionali di gravissima pericolosità nazionale».

«Le intercettazioni sono assolutamente indispensabili nella lotta contro la mafia e il terrorismo. Sono fondamentali per la ricerca della prova e per comprendere i movimenti di persone pericolose».

Bisogna, tuttavia, «cambiare radicalmente l’abuso che se ne fa per i reati minori con conseguente diffusione sulla stampa di segreti individuali e intimi che non hanno niente a che fare con le indagini».

Commenta anche il premier Meloni: «Le intercettazioni sono fondamentali. Uno strumento di indagine di cui non si può fare a meno. Per questo genere di reati nessuno le ha mai messe in discussione».

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Gratteri vs Nordio

Per Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, «il ministro della Giustizia sbaglia. L’intercettazione telefonica costa 3 euro al giorno, cioè due caffè in un bar elegante».

«Il ministro Nordio durante la campagna elettorale ha detto che le intercettazioni costano troppo, che devono essere limitate o addirittura abolite. Criticato per le sue dichiarazioni, e fattogli presente che nel programma di Fratelli d’Italia questo capitolo non c’era, ha detto che non si riferiva a quelle ambientali, ma a quelle fisse».

Continua Gratteri: «Lui dice che il mafioso non parla al telefono. Ma sbaglia. Un mafioso che dice al suo interlocutore ci vediamo al bar oppure al solito posto, per me, investigatore e pubblico ministero, è un dato importantissimo, perché si potrebbe trattare dell’esecutore materiale di un reato».

Il pericolo di rendere pubblici aspetti della vita privata degli intercettati, secondo il magistrato calabrese, è «un pericolo che non esiste più. Ci sono due leggi che impediscono agli inquirenti in conferenza stampa di riportare i nomi degli arrestati. Riportare sui giornali pezzi di intercettazioni non è più possibile».

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All’interno del contratto tra clienti e avvocati, il prezzo viene fissato seguendo il principio della tariffa oraria, senza fornire altre indicazioni. Ma per la Corte di giustizia europea, la clausola relativa non soddisfa l’obbligo di comprensibilità e chiarezza.

Con la sentenza 12 gennaio 2023 (causa C-395/21), la Corte di Giustizia Ue ha risposto alla domanda di pronuncia pregiudiziale, riguardo l’interpretazione degli articoli 3, 4 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE, sulle clausole abusive dei contratti stipulati con i consumatori.

La domanda era stata sollevata all’interno di una controversia tra un avvocato lituano ed un suo cliente, per quanto riguarda i contratti per la prestazione dei servizi legali. Gli onorari che spettavano al professionista erano fissati con importo di 100 euro per ogni ora di prestazione o consulenza.

Il legale, non avendo ricevuto tutti gli onorari reclamati aveva intrapreso vie giudiziarie, e la causa in questione era arrivata di fronte alla Corte suprema della Lituania.

Quest’ultima, successivamente, ha deciso di rivolgersi alla Corte europea, con lo scopo di ottenere chiarimenti per quanto riguarda l’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione, finalizzate a proteggere i consumatori da clausole contrattuali abusive.

In particolare, si è fatto riferimento all’obbligo di trasparenza rispetto alle clausole dell’oggetto principale dei contratti di prestazione dei servizi legali.

Il contratto deve esporre in modo trasparente il concreto funzionamento del meccanismo al quale fa riferimento la clausola, in modo tale che il consumatore sia in grado di valutare le conseguenze economiche che ne derivano, basandosi su criteri precisi e intelligibili.

Il professionista è tenuto a comunicare alcune informazioni al consumatore, che dovranno contenere indicazioni che permettano al consumatore di valutare, approssimativamente, il costo totale dei servizi in questione, come la stima del numero minimo o prevedibile di ore necessarie per fornire il proprio servizio. Oppure un impegno ad inviare relazioni o fatture che testimoniano il numero di ore di lavoro effettivamente svolte.

La valutazione spetterà al giudice nazionale, che dovrà stabilire se le informazioni fornite dal legale abbiano consentito al consumatore di prendere decisioni con prudenza e piena cognizione delle conseguenze finanziarie, che derivano dalla conclusione di tale contratto.

Soltanto in questo modo verranno soddisfatti gli obblighi di formulazione chiara e comprensibile così come stabilito dall’Ue.

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La riforma della giustizia Cartabia ha esteso la procedibilità a querela per alcuni reati al fine di raggiungere gli obiettivi del Pnrr – ovvero, ridurre del 25% i tempi dei processi penali entro il 2026. Per farlo, bisogna ridurre il numero dei procedimenti.

Ma dopo sole due settimane dalla sua entrata in vigore sono arrivate profonde critiche da parte dei giuristi. I punti che sono stati maggiormente criticati corrispondono proprio ai quelli fondamentali della riforma. Per alcuni, questi punti provocano effetti assolutamente controproducenti.

Uno dei punti principali della riforma Cartabia è la trasformazione in tema di disciplina di alcuni reati procedibili d’ufficio che ora potranno essere indagati soltanto mediante querela. Questo è uno dei fattori che è stato maggiormente criticato: non soltanto in materia di querela delle vittime, ma anche per le funzionalità in sé dell’ordinamento.

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Si è espresso in merito anche l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte, ora magistrato a Roma. Il problema principale, per Albamonte, è che la lista che è stata indicata nella riforma Cartabia contiene anche dei reati di forte impatto.

Violenza privata e sequestro di persona implicano una certa dose di sottomissione psicologica e prevaricazione, rendendo difficile alle vittime esporre denuncia. La norma, con la sua retroattività, porta alcuni processi al naufragio, poiché non ci sono querele. Le vittime potrebbero infatti essere spaventate e difficili da rintracciare.

Ma oltre alla responsabilizzazione eccessiva delle vittime, Albamonte ha sottolineato anche un altro aspetto negativo, in particolar modo legato ai furti, che potrebbero risultare ancora più complessi da denunciare.

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A Palermo ben 3 boss rischiano di non procedere al processo a causa degli effetti della riforma. Secondo Roberto Rossi stanno accadendo situazioni analoghe in tutta Italia.

Il procuratore di Bari sottolinea i problemi dell’elenco di reati, specialmente quelli collegati alla criminalità organizzata o quelli connessi a situazioni in cui le vittime hanno paura.

Ma anche nel caso di reati meno gravi, bisogna prendere in considerazione il fatto che, in alcune zone italiane, il livello di criminalità minaccia seriamente i cittadini. Per Rossi, il rischio è che alcuni reati vengano depenalizzati, perché le vittime si convinceranno a ritirare le querele accontentandosi di un risarcimento danni.

Rossi e Albamonte si trovano d’accordo su questo punto, ovvero sulla depenalizzazione di alcuni tipi di reati per ridurre il carico dei tribunali, alleggerendo la responsabilità delle vittime.

Un altro aspetto critico della riforma della giustizia Cartabia è quello che prende in considerazione le misure alternative di un grandissimo numero di detenuti, con il pericolo che tutto questo si traduca in scarcerazioni di massa.

A tal proposito il governo concede 20 giorni di tempo per ritardare tali fatti, consentendo alla polizia giudiziaria di adeguarsi, ma forse è troppo poco tempo. Per Rossi potrebbe verificarsi esattamente l’opposto dell’obiettivo prefissato dalla riforma Cartabia, ovvero l’allungarsi dei processi.

I presunti difetti della riforma sono stati sottolineati anche da Nicola Gratelli, procuratore di Catanzaro, che ha definito la riforma un vero e proprio disastro. I problemi che sono stati portati alla luce da Gratelli sono sempre gli stessi:

  • la paura delle vittime, che potrebbe indurle al ritiro della querela o a non presentarla affatto;
  • la mancanza di adeguate punizioni, vista l’ambita velocizzazione dei processi, che verrà ottenuta con la diminuzione di questi, e non soltanto su un cambiamento procedurale efficace;
  • situazioni troppo difficili da punire, soprattutto se le vittime non risiedono in Italia.

La riforma Cartabia sarà modificata?

Per Gratelli, comunque, ci sarà presto una modifica della riforma. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, infatti, sta lavorando alla riforma, convinto che servano «interventi urgenti per affrontare le criticità emerse» e per «garantire all’Italia le risorse indispensabili per la ripartenza».

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Di tutt’altra opinione l’esponente del Terzo Polo Enrico Costa, che attacca via Arenula e difende la riforma Cartabia.

«Contro la sua legge si sta saldando il fronte forcaiolo della maggioranza. Nel decreto Rave c’era già la proroga di due mesi della riforma penale di Cartabia, ma stranamente, senza l’allarme mediatico, hanno previsto solo venti giorni in più per presentare la querela, ma non sono entrati nel merito dei reati, mafia compresa».

Per il professore di diritto penale Gian Luigi Gatta, ex consigliere di Marta Cartabia, si starebbero cercando «casi limite per affondare la Cartabia. Ma la riforma libera i tribunali dell’enorme quantità di reati banali».

«In questi 30 anni almeno 3 riforme hanno esteso il numero dei reati procedibili a querela, nel 1999 e nel 2022». Gatta sostiene che la legge Cartabia si sia «limitata ad estendere la procedibilità a querela ad alcuni reati».

In questi giorni, l’attenzione si è rivolta verso lesioni personali lievi e sequestro di persona semplice, punito con un minimo di 6 mesi di reclusione. «Mi sembra che sia così anche nel caso di Palermo».

Un caso «del tutto particolare, visto che le vittime del sequestro e delle lesioni sono dei rapinatori “non autorizzati” da Cosa Nostra, che non hanno presentato la querela nei confronti dei loro “colleghi” malviventi ma che, comunque, restano sottoposti a custodia cautelare perché, appunto, accusati anche di reati gravissimi, procedibili d’ufficio. Non vedo alcuna notizia sensazionale, insomma».

Gruppi Facebook per mitigare gli effetti della riforma

Nel frattempo, un avvocato napoletano ha deciso di «mitigare gli effetti» della riforma Cartabia «nel settore dei divorzi e delle separazioni».

Genitori separati è il nome del gruppo Facebook creato da Carmen Posillipo, avvocato matrimonialista, per «dare quell’opportunità di sfogo e quella speranza di riappacificazione che la riforma ha, di fatto, ridotto ai minimi termini».

Online, secondo Posillipo, chi ha perso il partner o il coniuge potrà «trovare consigli e risposte per dare una chance al secondo tempo di una storia». Sui social, ormai, «si leggono continuamente post in cui si evidenza che con la riforma Cartabia l’avvocato muore. È vero perché è sempre meno prevista la sua presenza, e questo mi ha spinto a trovare spazi alternativi di confronto».

Lo scopo del gruppo Facebook è mettere insieme persone sole, che si sentono perse dopo la separazione. «Secondo quanto mi suggerisce la mia esperienza potrebbe scongiurare episodi di violenza che possono verificarsi quando la disperazione prende il sopravvento e non si trovano soluzioni nella società».

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Con l’escalation della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina saranno diversi gli impatti sulle imprese di tutto il mondo, intrappolate nel conflitto tra le due più grandi economie mondiali.

L’amministrazione Biden ha deciso di emettere grandi restrizioni sull’esportazione dei chip. Le nuove regole commerciali arrivano in un momento in cui gli USA temono il sempre maggior potere geopolitico della Cina.

In ogni settore le imprese dovranno analizzare la propria supply chain per capire in che modo e quanto la guerra commerciale interesserà i loro affari.

Spiega Alex Capri, un ricercatore che si occupa di commercio globale: «Una catena del valore globale completamente razionalizzata significa che il capitale, le competenze e la produzione migrano verso il loro punto più efficiente. Quei giorni sono finiti per tutti i beni strategici, non solo per i semiconduttori».

Lo scorso ottobre gli USA hanno istituito nuovissimi controlli sulle esportazioni, che bloccano la vendita di semiconduttori avanzati e strumenti per produrli ad alcuni produttori cinesi. Questi prodotti potranno essere commercializzati soltanto se l’azienda cinese possiede una licenza speciale.

A metà dicembre l’amministrazione Biden ha ampliato queste restrizioni impedendo a 36 produttori di chip cinesi di accedere alle tecnologie statunitensi. Questi controlli sulle esportazioni contengono restrizioni sui semiconduttori utilizzati all’interno delle intelligenze artificiali.

Lo scopo è quello di negare alla Cina di accedere ad una tecnologia avanzata che potrebbe potenzialmente utilizzare per migliorare la potenza militare e per violare diritti umani.

Ci sono casi in cui le restrizioni possono essere revocate, ma non senza il controllo e l’approvazione da parte degli Stati Uniti, che certificano che un’azienda non utilizzerà i semiconduttori per scopi malevoli.

I primi effetti della guerra commerciale

Si vedono già i primi impatti delle regole sull’esportazione. Per esempio, Apple doveva collaborare con YMTC per una funzione dell’ultimo iPhone. La procedura per certificare l’azienda come fornitore era già stata avviata, ma l’amministrazione Biden ha deciso di lanciare l’offensiva contro i produttori cinesi.

Anche Nvidia e AMD sono state colpite da queste restrizioni. Ma non sono interessati soltanto i produttori di chip americani da questa guerra commerciale, dato che le nuove regole impongono il divieto a tutte le imprese statunitensi di commerciare con società che esportano tecnologie soggette a restrizioni.

Alibaba, Baidu, Huawei, SenseTime e Megvii faticheranno a procurarsi chip avanzati per portare a termine i loro lavori. Spiega Josep Bori, direttore di GlobalData: «Non saranno più in grado di acquistarli da Nvidia o AMD e i fornitori cinesi di chip AI come HiSilicon, Cambricon, Horizon Robotics o Biren Technology non saranno in grado di produrre i propri chip AI».

Fornitori «come Taiwan Semiconductor Manufacturing Company stanno obbedendo al divieto degli Stati Uniti e i produttori cinesi non sono ancora in grado di produrre qualcosa di più piccolo di 14 nanometri».

Ci sono alcune aziende non cinesi che hanno deciso di cominciare a spostare la loro capacità produttiva al di fuori della Cina. TSMC, per esempio, ha installato i suoi impianti di produzione in Europa e negli Stati Uniti.

Charlie Dai, direttore della ricerca della società Forrester afferma: «Oltre ai produttori di chip e semiconduttori in Cina ogni azienda della catena di fornitura di chipset avanzati, come i produttori di veicoli elettronici e di apparecchiature HPC (high performance computing) sarà colpita».

«Ci saranno danni collaterali», continua, «all’ecosistema tecnologico globale in ogni area, come la progettazione di chip, la produzione di strumenti e la fornitura di materie prime».

Le interdipendenze tra USA e Cina sono difficili da sciogliere nell’immediato, quindi le imprese potrebbero non avvertire immediatamente il contraccolpo. È improbabile che le restrizioni abbiano un effetto diretto sulla capacità dei produttori globali di chip di produrre semiconduttori, dal momento che non hanno investito in Cina per produrre chip lì».

Ma le nuove regole impatteranno sulla catena per i produttori di chip. La Cina, «essendo la seconda economia più grande del mondo, è un mercato enorme per molte aziende globali di semiconduttori e ci sarà un impatto sui loro piani di crescita e di entrate».

«Potrebbero ridimensionare i loro piani per la produzione di chip, che richiedono ingenti investimenti, a causa di problemi di flusso di cassa a breve termine. A lungo termine, accelererà la produzione locale di chip in India, Vietnam, Malesia, Singapore e altri Paesi».

Per lungo tempo Taiwan è stata in testa nella classifica dei produttori di chip semiconduttori. Ora, però, India, Francia, Giappone, Regno Unito e Australia stanno offrendo degli incentivi al fine di attrarre investimenti nei semiconduttori.

Le restrizioni commerciali potrebbero causare ulteriori cambiamenti a lungo termine per la produzione e per il commercio globali. Queste sanzioni «incoraggeranno maggiori investimenti manifatturieri nella produzione di telefoni, automobili, elettronica, elettrodomestici, macchinari, apparecchiature di telecomunicazione al di fuori della Cina, a partire da India e Vietnam».

Tale spostamento nella produzione «era già in atto, a causa del mercato locale in India e della strategia di diversificazione per mitigare le interruzioni della catena di approvvigionamento. Ma le restrizioni sui chip saranno incentivo per aumentare la produzione di esportazione anche dall’India e da altri Paesi».

La maggior parte delle aziende potrebbe non dover trattare in maniera diretta con le società cinesi interessate da questi divieti. Tuttavia, bisognerà comunque valutare in maniera attenta tutta la catena di fornitura tecnologica.

«Nelle aziende che lavorano su progetti di intelligenza artificiale, sia per automatizzare le linee di produzione o per fornire assistenza automatica ai propri clienti, i CIO devono considerare attentamente i propri fornitori».

Se qualcuno «è cinese, l’azienda potrebbe subire interruzioni. Per esempio, se utilizzate il cloud Alibaba per i carichi di lavoro di formazione AI. O se acquistate chip AI da Horizon Robotics».

Ci si deve chiedere se i fornitori cinesi potranno fornire gli stessi livelli di supporto e tecnologia in futuro, e se ci sono problemi nell’accedere a chip o tecnologie avanzate da partner occidentali.

È necessario «rivalutare i propri criteri di selezione dei fornitori dal punto di vista della resilienza della supply chain, vale a dire quanto sia esposta al problema dei chip semiconduttori in Cina. Devono identificare potenziali vulnerabilità nei progetti tecnologici, incluso il calcolo ad alte prestazioni aziendali. E valutare le capacità di tali fornitori in termini di aggiornamenti futuri, roadmap tecnologia e capacità di supporto».

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Negli Stati Uniti è stato condotto un esperimento per capirlo, e la risposta è stata decisamente inquietante. In soli novanta minuti, i tecnici hanno craccato più di 13.000 password, corrispondenti al 16% di tutte quelle presenti sui dispositivi dipartimentali.

Il Department of Interior di Washington non è uguale al Ministero degli Interni italiano. Il primo si occupa della gestione del patrimonio culturale e delle risorse naturali. Ci troviamo circa a metà tra il Ministero dell’ambiente dei Beni Culturali in Italia.

L’Ispettorato, che ha il compito di vigilare attentamente sulle pratiche di sicurezza, è arrivato alla conclusione che «i requisiti di complessità delle password non sono abbastanza stringenti da prevenire potenziali accessi indesiderati ai sistemi e ai dati».

La maggior parte degli account dei dipendenti sono protetti soltanto da password, dunque sono sprovvisti di autenticazione a due fattori o da altre impostazioni di sicurezza.

Per impossessarsi delle password, gli ispettori hanno speso meno di 15.000 dollari, assemblando una catena di pc capaci di eseguire complessi calcoli matematici. Il sistema è stato in grado di ricostruire le password dei dipendenti: la più utilizzata in assoluto è Password1234.

Dunque, un gruppo di cybercriminali con ottime risorse economiche potrebbe impossessarsi senza problemi delle credenziali dei dipendenti – anche di quelli di alto rango. Il 5% degli account che sono stati analizzati erano protetti da qualche variazione della parola password.

Senza autenticazione a due fattori si rischia di essere maggiormente vulnerabili agli attacchi informatici. Le policy interne, in realtà, impongono di dotarsi di questa misura di sicurezza, anche se i funzionari sembrerebbero averla completamente ignorata.

Per l’Ispettorato: «Nell’attuale scenario sono necessari metodi di autenticazione forti e pratiche solide di gestione di account e password per proteggere i sistemi informatici da accessi non autorizzati. L’eccessiva dipendenza dalle password per limitare l’accesso al sistema al solo personale autorizzato può avere conseguenze catastrofiche».

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Se manca l’accordo tra i genitori, il figlio resterà senza cognome fino alla decisione del giudice. È possibile anche che il figlio abbia tre o addirittura più cognomi, nel caso in cui i genitori ne avessero più di uno e non fossero intenzionati a rinunciare a nessuno di questi.

Queste sono alcune delle indicazioni provenienti dal Consiglio Nazionale del notariato attraverso lo studio 200-20222/P diffuso il 10 gennaio, con oggetto: «Il nome (prenome e cognome). Il punto dopo la Corte costituzionale».

Con la sentenza 131 è stata dichiarata l’illegittimità del primo comma dell’art. 262 «nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assuma i cognomi dei genitori, nell’ordine dei medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto».

Nel caso in cui i genitori decidano di trasmettere al figlio il cognome di entrambi, devono decidere anche l’ordine di attribuzione dei cognomi. Senza accordo tra i genitori, l’ufficiale dello stato civile non potrà formare l’atto di nascita.

La soluzione al contrasto dei genitori spetta soltanto al giudice, anche se sono gli stessi genitori a doversi attivare nell’ottenere l’intervento del giudice.

In attesa della decisione del giudice, il figlio non potrà comunque essere iscritto all’anagrafe, e i due genitori non potranno ottenere alcuna certificazione che lo riguardi. Il ricorso al giudice «potrà anche tradursi in un ritardo nella formazione dell’atto di nascita del figlio […] poiché non si vede come l’ufficiale dello stato civile possa darvi corso fino a quando il giudice non si sia pronunciato al riguardo».

Con la circolare n. 63 del 01/06/2022 del Ministero dell’interno viene evidenziato come l’accordo tra i due genitori è necessario anche per attribuire al figlio soltanto un cognome. In assenza di tale decisione, avverrà automaticamente l’attribuzione del doppio cognome, nell’ordine deciso dai genitori – o, come abbiamo visto, dal giudice.

Ricorda il Notariato che è necessario evitare che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori determini un meccanismo moltiplicatore. Infatti, troppi cognomi andrebbero a ledere la funzione identitaria.

È opportuno che il genitore con doppio cognome scelga quello che rappresenti il legame genitoriale, a meno che i genitori non optino per attribuire soltanto un doppio cognome. Afferma il Notariato: «In ogni caso, attualmente, riguardo all’eventualità che uno o entrambi i genitori abbiano già un doppio cognome, in assenza di normativa, nell’attribuzione del cognome del figlio devono essere rispettati tutti i cognomi dei genitori».

Il legislatore dovrà valutare anche l’interesse di un figlio che non vuole vedersi attribuito un cognome diverso rispetto a quello di altri fratelli. Il cognome assegnato al primogenito, in questo caso, potrebbe vincolare anche la prole successiva riconosciuta dai genitori.

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