Migranti: addio alla protezione speciale

Lunedì 17 aprile 2023

Durante la celebrazione del 171esimo anniversario della Polizia di Stato, tenutasi mercoledì 12 aprile 2023, il sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni, ha dichiarato:

«La protezione speciale è un unicum italiano che crea condizioni attrattive per l’immigrazione e la azzereremo. L’Italia garantisce già asilo, ma questa la cancelleremo con la conversione del Decreto Cutro».

Successivamente è stato depositato in commissione affari un sub-emendamento di maggioranza, che «recepisce quelli della Lega, dando una stretta alla protezione speciale introdotta dal ministro Lamorgese e dalla sinistra del 2020».

Secondo fonti interne alla Lega, così come riporta il Sole24Ore, «era diventata una sanatoria, un pull factor di immigrazione. La protezione speciale ha creato sovraffollamento in tribunali e questure e non ha prodotto integrazione. Si ritorna ai decreti Salvini».

Con il subemendamento vengono introdotte delle restrizioni ai permessi di soggiorno per calamità e a tutti quelli concessi per le cure mediche. Basandosi sul testo, si richiede che questi permessi non vengano più convertiti in permessi di soggiorno lavorativi.

Vengono circoscritte, inoltre, le condizioni che vanno ad impedire l’espulsione dal Paese delle persone che soffrono di gravi patologie, ma che devono obbligatoriamente essere «non adeguatamente curabili» nel Paese d’origine.

Non sono ovviamente mancate le critiche da parte delle opposizioni. Per esempio, Pierfrancesco Majorino scrive su Twitter: «Il governo vuole togliere la “protezione speciale” per i migranti. L’unico risultato di una scelta che ricalca quelle di Salvini sarà quello di generare nuovi senzatetto, irregolari, nuove vittime di sfruttamento. Per poi, ovviamente, cavalcare la paura. Una vera vergogna».

Ebbene, ci sono circa 350 sub-emendamenti al decreto migranti che sono stati depositati al Senato in commissione Affari costituzionali. Si tratta di contro-proposte per modificare i maxi emendamenti presentati dal governo, attualmente sul tavolo della commissione.

Le modifiche introdotte

Il primo dei due maxi emendamenti in questione modifica l’articolo 5 del decreto, e riguarda la gestione dei centri di prima accoglienza e la riduzione/revoca delle condizioni per l’accoglienza. L’altro emendamento si riferisce all’articolo 7, e riguarda le procedure per l’esaminazione delle domande di protezione direttamente alla frontiera e all’immediato accompagnamento alle frontiere.

Uno di questi due emendamenti va a riesumare una misura presente nei decreti sicurezza di Matteo Salvini, escludendo la possibilità di ospitare le persone che richiedono asilo nel Sistema di accoglienza ed integrazione, gestito con i Comuni.

Tali persone dovranno andare direttamente nei centri di accoglienza governativi sino alla decisione ultima riguardo la domanda di protezione internazionale. Potranno accedervi soltanto coloro che entrano in Italia con i corridoi umanitari, con reinsediamenti e persone con vulnerabilità. Prima di ottenere la protezione, quindi, i richiedenti asilo non potranno godere dei servizi di integrazione.

Escludere i richiedenti asilo dal Sistema di accoglienza ed integrazione (Sai), vuol dire che queste persone dovranno essere inserite negli hotspot e nei centri di accoglienza governativi “per stranieri irregolari”. Questo comporterà l’aumento delle spese di circa 16,7 milioni di euro soltanto nel corso del 2023.

Nel complesso, il costo per l’accoglienza viene stimato intorno a 853 milioni di euro, così ripartiti:

  • 807 milioni di euro per le persone richiedenti asilo;
  • 16,7 milioni di euro per le persone non inserite nel Sai;
  • 29 milioni di euro per gli ucraini ospitati da gennaio a marzo.

Lampedusa

Un’ulteriore novità è che il ministero dell’Interno, sino al 31 dicembre 2025, potrà avvalersi della Croce Rossa Italiana per gestire l’hotspot di Lampedusa. Inoltre, sempre a Lampedusa si potrà derogare al codice dei contratti pubblici, bypassando, in tal modo, i bandi di gara.

Rispetto al traghetto di linea verrà istituito un collegamento marino ulteriore, garantendo quindi un trasferimento da Lampedusa alla Sicilia meridionale di circa 400 migranti al giorno, per un totale stimato di 2800 persone ogni settimana, con un onere totale di 8.820.000 euro per l’anno 2023.

Leggiamo nell’emendamento: «per assicurare adeguati livelli di accoglienza, il ministero dell’Interno è autorizzato a stipulare con aziende di trasporto marittimo, in deroga alle norme sui contratti pubblici».

Requisiti da rispettare

Nel secondo emendamento del governo vengono introdotti anche paletti per gli stranieri che ripresentano la domanda di protezione internazionale. Tale domanda sarà ammissibile soltanto se verranno trovato nuove prove o nuovi elementi riguardo la situazione nel Paese d’origine, oppure su condizioni personali che «rendono significativamente più probabile» ottenere la protezione.

L’emendamento, senza nuovi elementi, prevede che sia dovere del richiedente specificare e provare di non aver avuto possibilità di presentare nuove prove, oppure dimostrare che eventuali ritardi nella presentazione non sia colpa sua.

Ulteriori novità anche riguardo all’iter che riguarda la domanda di protezione internazionale, presentata alla frontiera oppure in zone di transito da una persona richiedente asilo che proviene in un paese di origine certa. La commissione territoriale dovrà decidere entro 7 giorni dal ricevimento dell’istanza.

Si lavora, inoltre, a misure che vanno a rafforzare la possibilità di trattenere le persone nei Cpr, i centri di permanenza per i rimpatri, per un massimo di sei settimane, prolungabili ad ulteriori sei settimane, nei casi in cui:

  • la persona non si lasci identificare durante la procedura;
  • per i richiedenti asilo in attesa di trasferimento sottoposti alla procedura Dublino, se esiste un «notevole rischio di fuga».

Nel frattempo, i tecnici del Viminale e quelli della Protezione Civile si sono incontrati per emettere l’ordinanza di stato di emergenza. Molto probabilmente, la nomina per il commissario straordinario riguarderà Valerio Valenti, capo dipartimento Libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno.

LEGGI ANCHE:


Truffa dello squillo: come i cybercriminali ci rubano il credito

Crescono i redditi degli avvocati, anche se il 40% guadagna meno di 20mila euro

Truffa dello squillo: come i cybercriminali ci rubano il credito

Venerdì 14 aprile 2023

La wangiri è la truffa dello squillo, della quale si cominciò a parlare in Italia ben 19 anni fa, nel 2004.

Nota anche come pingcall, ovvero “telefonata di rimbalzo”, la wangiri si chiama così perché deriva da un’espressione giapponese che indica l’azione di fare uno squillo al cellulare per poi riattaccare immediatamente. Un po’ quello che facevano i ragazzini negli anni ’90 e nei primi anni Duemila, con lo scopo di farsi richiamare dai genitori, per esempio (oppure alla persona di cui si era innamorati).

Quello che accade nella truffa è che una vittima potenziale riceve una telefonata sul proprio smartphone, di solito in orari d’ufficio, oppure durante la notte, che dura soltanto uno squillo. Di solito viene ripetuta più volte nel giro di una decina di minuti, spesso da numeri con prefisso internazionale, come Gran Bretagna (+44), Cuba (+53), Kosovo (+383), Tunisia (+216) o Moldavia (+373).

Fino a qui nulla di eccessivamente preoccupante: non si possono rubare soldi dal proprio credito telefonico con uno squillo! La trappola, in realtà, scatta nel momento in cui si decide di richiamare: è qui che si viene immediatamente reindirizzati verso un numero di telefono a pagamento, al quale non risponde nessuno; oppure si sente una voce preregistrata finalizzata semplicemente a far scorrere il tempo.

Più tempo passa, infatti, più i cybercriminali traggono guadagno, poiché la truffa wangiri arriva a costare sino ad 1,5 euro ogni secondo. Versioni maggiormente elaborate della truffa, invece, prevedono che venga attivato qualche abbonamento a pagamento attraverso la telefonata di richiamo, oppure l’invio ad una vittima potenziale di messaggi di richiesta d’aiuto per una persona conosciuta che si trova “in difficoltà”, indicando un numero telefonico da ricontattare.

Il primo modo per difendersi dalla truffa è utilizzare il buon senso, l’unica arma per tutelarsi ovunque, sia online che nella vita reale. Mai richiamare un numero sconosciuto che non è in rubrica, soprattutto se è una telefonata che arriva dall’estero.

Sia Android che iOS nel corso degli ultimi anni hanno sviluppato misure per combattere tali fenomeni. Sugli iPhone, per esempio, troviamo una lista di numeri spam e di call center da riempire. Si può, inoltre, utilizzare anche qualche app esterna che funziona come una barriera, riconoscendo automaticamente questi numeri. Truecaller, per esempio, è una delle app migliori nel campo, che si trova anche sullo store di Android.

Ma per i dispositivi Android Truecaller è praticamente inutile. Meglio utilizzare l’app Telefono di Google, integrata da un servizio antispam. Basterà andare su Impostazioni e controllare se il servizio è già attivo. In questo modo il cellulare non squillerà più in caso di chiamata spam/pericolosa.

Alcuni consigli per la sicurezza online

Prima di cliccare un link, rifletti

Sono sempre più diffusi gli attacchi di phishing, nei quali i criminali si fingono famose aziende per rubare dati personali. Dobbiamo quindi prestare tantissima attenzione a tutti i link che riceviamo tramite SMS, WhatsApp o mail, perché potrebbero risultare pericolosi.

Vedi anche: Esempi di mail di Phishing

Usare password diverse

Sì, certo: pensare ad una password diversa per ogni piattaforma utilizzata potrebbe essere veramente faticoso. Risulta difficile ricordarle tutte: usarne una uguale per ogni sito sarebbe perfetto, in questo senso.

Ma sarebbe perfetto anche per un cybercriminale, che potrebbe svolgere il suo lavoro in maniera più semplice e veloce! Affidarsi ad un’unica password significa possibilità di veder violati tutti gli account. Se un hacker trova la password su una piattaforma, tenterà di accedere a tutte le altre con la stessa.

Ecco perché è sempre bene creare un’unica password appositamente dedicata ad ogni servizio. Si possono, inoltre, utilizzare gestori di password che le memorizzano in maniera protetta.

Leggi anche: Avvocato, la tua password è veramente sicura?

Allegati da mittenti sconosciuti? No, grazie

Gli allegati di una mail proveniente da un mittente sconosciuto potrebbe essere una porta d’accesso per ogni tipo di attacco informatico, come phishing o malware, che infettano tutto il dispositivo, rubando dati e informazioni memorizzate.

Per esempio, se il dispositivo viene utilizzato anche per la DAD, oppure se è collegato ad una rete più grande, potrebbe causare dei danni estesi e gravi.

Mai connettersi alle reti pubbliche

Chiunque, anche un cybercriminale, può connettersi ad una rete wi-fi pubblica. Dal momento che ci si ritrova sulla stessa rete, i cybercriminali possono accedere a tutti i dispositivi collegati a tale rete.

Inoltre, recentemente l’FBI avrebbe invitato le persone a non collegarsi alle stazioni di ricarica gratis presenti nei centri commerciali, negli aeroporti, negli hotel e in tutti i luoghi pubblici in generale. Secondo i funzionari FBI di Denver, i criminali informatici sfruttano le vulnerabilità delle porte USB per infettare con malware i dispositivi degli utenti.

Consigliano di avere sempre a portata di mano l’alimentatore dello smartphone o una powerbank. Il New York Times denuncia anche come alcuni criminali lascerebbero intenzionalmente vicino alle stazioni di ricarica pubbliche cavi infetti, che veicolano programmi malevoli e virus.

Https

Quando navighiamo su un sito, cerchiamo di essere sicuri che abbia un certificato SSL, ovvero, un certificato che protegge le informazioni sensibili che vengono inviate tra due differenti sistemi.

È un’operazione veramente semplice: basta controllare che sulla barra di ricerca ci sia una s dopo http: clicchiamo solo siti https, quindi.

Gli SMS sono antichi, ma non innocui

Ormai, gli SMS sono visti come qualcosa di antico, fonte di scocciature e pubblicità. Tuttavia, molti SMS sono pericolosi, ma noi non ce lo aspettiamo. Infatti, si tratta di una tecnologia così vecchia che psicologicamente siamo convinti di non aver motivo di temerla.

Ci fidiamo, quindi. Il fenomeno dello smsishing è il phishing attraverso gli SMS, ed è pericoloso, perché inaspettato. Siamo abituati alle minacce che arrivano tramite mail e WhatsApp, perché abbiamo fiducia negli SMS, e i cybercriminali lo sanno fin troppo bene.

Sembra che fare phishing in “maniera tradizionale” cominci ad essere più difficile, visti i numerosi filtri spam e vari blocchi mirati. Dunque, i cybercriminali hanno cercato nuove strade da percorrere, come gli SMS. Utilizzano lo spoofing: ovvero, ottengono il codice univoco della SIM di un telefono, creando una copia di un certo numero per inviare e ricevere SMS, come se si fosse proprietari di tale numero.

Chi riceve questi SMS potrebbe ritenerli affidabili e sicuri, visto che di solito arrivano da banche, consulenti finanziari e avvocati. Ma i mittenti, in realtà, sono malintenzionati.

Hai dubbi sulla tua sicurezza informatica o sulla tutela dei dati personali? Scopri i servizi di Servicematica 🥰

LEGGI ANCHE:


Crescono i redditi degli avvocati, anche se il 40% guadagna meno di 20mila euro

Il PNRR ha qualche problemino informatico

Crescono i redditi degli avvocati, anche se il 40% guadagna meno di 20mila euro

Venerdì 14 aprile 2023

Il settimo rapporto sull’avvocatura di Cassa Forense fotografa tantissime situazioni, anche contrastanti tra loro. Sembra che gli avvocati comincino a lasciarsi alle spalle il 2020, registrando una crescita per il reddito medio Irpef del 12,2% nel 2021. Si sale, dunque, a 42.386 euro.

Un aumento dell’11% anche nel volume d’affari medio, che tocca quota 62.888 euro. Per Valter Militi, presidente di Cassa Forense, ci troviamo di fronte a «segnali timidi ma incoraggianti». Osserva anche come «le platee che recuperano sono quelle che più hanno sofferto la crisi: e cioè quella femminile e quella dei giovani avvocati, che possono rappresentare una base interessante di ripresa».

Tuttavia, più di 100mila avvocati hanno dichiarato un reddito inferiore a 20mila euro, mentre le donne, nonostante la crescita reddituale superiore di due punti rispetto ai colleghi, continuano a guadagnare la metà.

113mila le avvocate e 126mila gli avvocati. Gli avvocati in attività sono ancora 240.019, con una leggera diminuzione dello -0,7%. Secondo i ricercatori Censis, questa diminuzione è dovuta al calo demografico della popolazione generale.

Infatti, il rapporto tra abitanti e avvocati è lo stesso rispetto al 2021, ovvero, 4,1 ogni 1000 abitanti. Gli iscritti sono preoccupati proprio per il sovraffollamento, dato che la metà degli avvocati intervistati ritiene che l’eccessiva concorrenza sia il principale fattore di rischio per i futuri redditi.

Sono le donne a sentirsi maggiormente in pericolo, tanto che il 39% ha pensato di abbandonare la professione, contro il 36% degli uomini. Effettivamente, 5.873 donne hanno abbandonato, contro  2.825 uomini.

Alla fine, il saldo tra cancellazioni e nuovi iscritti ha provocato 441 avvocati di meno.

Come sarà il futuro dell’avvocatura?

Ma il futuro sembra un po’ meno cupo. Cresce, infatti, la quota di coloro che giudicano la propria condizione migliore rispetto all’ultimo anno, di ben cinque punti. Ciro Maschio, il presidente della commissione Giustizia della Camera, sostiene che si debba «mettere mano alla riforma dell’accesso alla professione per mettere gli avvocati in condizione di competere sul mercato».

Anche il neopresidente del CNF, Francesco Greco, parla di apertura a nuovi mercati, sottolineando come «il 67% del fatturato dei legali proviene ancora dal contenzioso, ma esistono grandi margini fuori da questo ambito. Dobbiamo recuperare il valore della consulenza».

Tuttavia, Greco si dice scettico riguardo l’attuale percorso di specializzazione: «Così com’è il regolamento non serve, non porta valore aggiunto».

Federico Freni, sottosegretario all’Economia, pone l’accento sull’importanza per le Casse dei professionisti, annunciando «un testo cornice in arrivo entro giugno, che lascia più liberi gli investimenti delle Casse, eliminando limiti e tetti percentuali di allocazione del patrimonio».

LEGGI ANCHE:


Il PNRR ha qualche problemino informatico

Professionisti, equo compenso: che cosa dice la nuova legge

Il PNRR ha qualche problemino informatico

Giovedì 13 aprile 2023

Il sindaco di Bari, Antonio Decaro, è anche il presidente dell’ANCI, l’associazione dei comuni italiani. Decaro, recentemente, ha scritto una lettera per segnalare le difficoltà riscontrate dai comuni italiani nella gestione e nell’invio dei progetti del PNRR.

Decaro, nello specifico, parla dei grandi problemi causati dal sistema informatico sviluppato dai ministeri, finalizzato alla ricezione della documentazione dei progetti dai comuni. Secondo i vari sindaci, il sistema, ReGis, è veramente lento, e si blocca continuamente.

Scrive Decaro: «Ritengo utile rilevare le inadeguatezze e le lacune del sistema complessivo di controllo, di monitoraggio e di erogazione dei fondi, poiché tale situazione incide fortemente sulla spedita attuazione del piano, anche in relazione alla attuale fase di apertura dei cantieri che si sta avviando».

ReGis è una piattaforma informatica, una specie di gestionale, aperta da novembre 2022 e attraverso il quale le amministrazioni inviano dati e informazioni sui progetti del PNRR. Si tratta di uno strumento gestito dalla ragioneria dello Stato, che permette di controllare l’avanzamento di spese ed opere.

I Comuni caricano all’interno di questo sistema informatico i giustificativi della spesa, che vengono controllati dai vari ministeri una volta ogni mese. Se ci sono delle spese non giustificate, i soldi non vengono concessi, anche se i Comuni potranno presentare osservazioni al fine di motivare la richiesta. In tal modo si limita il rischio di spese non collegate al PNRR o eccessive.

Sembra tutto molto semplice, no? Nella realtà, però, le procedure di caricamento dei dati sono un po’ più complicate. Tutte le procedure hanno un proprio manuale di funzionamento, e in certi casi le loro FAQ superano in lunghezza i manuali.

Per esempio, le FAQ relative al bando borghi sono lunghe 116 pagine, e contengono 15 circolari e ulteriori linee guida da seguire. La ragioneria dello Stato, negli ultimi mesi, ha organizzato corsi per i dipendenti pubblici che si sono ritrovati ad utilizzare all’improvviso tale strumento, in assenza di una formazione adeguata.

Inoltre, il sistema ReGis sembra presentare dei problemi a livello gestionale. Detto in parole povere, il sistema si blocca, e i dipendenti comunali in possesso delle credenziali per l’accesso non sono in grado di entrare nella piattaforma. Oltretutto, le schermate per la compilazione dei dati, vengono cambiate troppo frequentemente, andando a disorientare i dipendenti.

Altri ministeri, invece, non hanno ancora caricato i manuali contenenti le regole da seguire per i bandi del PNRR che sono già stati avviati. Mancano, inoltre, anche i “codici progetto”, che servono ai comuni per l’accesso al sistema.

Pagamenti in ritardo

I comuni dichiarano che ci sono anche problemi che non hanno nulla a che vedere con il gestionale, ma con i soldi messi a disposizione. Ciascun comune può richiedere ai ministeri un anticipo per l’avvio dei progetti del piano, che non vengono finanziati in una volta sola ma in diverse tranche.

Tuttavia, i pagamenti ai comuni dovrebbero arrivare entro 7 giorni dal caricamento dei dati nel sistema. Spesso, però, vengono fatti oltre la scadenza. Viene segnalato anche come, per il codice degli appalti, le imprese hanno la possibilità di richiedere ai comuni un anticipo sino al 30%. Per le opere del PNRR, invece, soltanto il 10%.

Tale differenza spiega, almeno in parte, i vari problemi di liquidità segnalati dalle amministrazioni locali, e non soltanto dai piccoli comuni. «L’operazione di presentazione dei progetti PNRR è complessa e i tempi di spesa sono molto ridotti», spiega Simone Gheri, il direttore ANCI Toscana.

«Se aggiungiamo che passano giorni per una semplice risposta allora tutto diventa complicato. Non si pretende un faccia a faccia in tempo reale, ma nemmeno che trascorra tutto questo tempo, in alcuni casi vengono inviate mail e non arrivano nemmeno risposte».

La Commissione Europea dice no

Nel frattempo, Repubblica segnala il caso del Comune di Martis, nella provincia di Sassari, nella quale i dipendenti provano a registrarsi al ReGis da 7 mesi senza mai riuscirci, forse a causa di uno dei problemi informatici segnalati.

Il ministro Fitto, a fine marzo aveva detto che è una cosa matematica che certi interventi del PNRR non possano essere portati a termine in tempo, ovvero, entro la fine di giugno 2026. Molti ritardi vengono infatti attribuiti alle inefficienze dei comuni, soprattutto di quelli più piccoli, che sembrano non avere abbastanza personale e quello che c’è non è sufficientemente qualificato per portare avanti i progetti.

Decaro, nella lettera, invece, dice che i comuni hanno fatto il loro dovere: «Il risultato 2022 della spesa per investimenti, pari a circa 12 miliardi di euro, risulta ampiamente soddisfacente». Nel corso degli ultimi mesi, il governo Meloni ha cercato di chiedere all’Ue un po’ di tempo in più; tuttavia, la Commissione Europea ha detto chiaramente che non potranno esserci ulteriori rinvii sulle scadenze.

LEGGI ANCHE:


Professionisti, equo compenso: che cosa dice la nuova legge

Giustizia: il Papa cambia le norme penali e l’ordinamento giudiziario del Vaticano

Professionisti, equo compenso: che cosa dice la nuova legge

Giovedì 13 aprile 2023

La Camera dei deputati ha approvato la legge sull’equo compenso per i liberi professionisti. Nel testo vengono introdotte regole e standard minimi per le aziende e le PA, al fine di garantire un’adeguata retribuzione a coloro che svolgono un lavoro intellettuale.

La legge sull’equo compenso è stata approvata sia dalla maggioranza di destra ma anche dalle opposizioni. Gli unici ad astenersi dal voto sono stati i deputati del PD, in quanto in disaccordo su parte delle misure previste dalla legge.

L’equo compenso riguarderà le professioni per le quali esiste un ordine professionale, ma anche quelle che non ce l’hanno, ovvero, le professioni “non ordinistiche”. Le regole dovranno essere rispettate dalle PA e dalle aziende private. Eccezion fatta per banche, assicurazioni, imprese con più di 50 dipendenti oppure aziende con ricavi annuali che superano i 10 milioni di euro.

Le PA, secondo una stima del Sole 24 Ore, ammontano ad oltre 27mila. Le aziende private coinvolte, invece, sono 51mila: il numero, in realtà, sembra ancora piuttosto piccolo, poiché nel 2021 le aziende italiane erano 1 milione e 647mila.

Ma la misura più importante è sicuramente quella del primo articolo, riguardo le indicazioni per stabilire l’equo compenso. Per tutti i liberi professionisti che sono iscritti ad un ordine professionale, i valori dell’equo compenso sono indicati nel decreto ministeriale 140/2012, eccezion fatta per gli avvocati, poiché nel 2022 sono stati introdotti i parametri aggiornati attraverso il decreto ministeriale 147.

Secondo i commercialisti, tuttavia, i parametri indicati nel decreto del 2012, oltre ad essere datati sono anche incompleti. È probabile che, nel corso dei prossimi mesi, vengano proposti degli aggiornamenti riguardanti i criteri economici che sono stati stabiliti, ormai, più di 10 anni fa.

Invece, per i liberi professionisti che non appartengono ad alcun ordine, verranno stabiliti dei nuovi parametri, mediante un decreto ministeriale del ministero delle Imprese e del Made in Italy, per il quale dovremmo aspettare altri 60 giorni.

Le aziende potranno anche non rispettare questi valori, ma soltanto se verranno concordati nuovi parametri con i rispettivi ordini professionali del loro settore. I liberi professionisti avranno la possibilità di richiedere all’azienda di applicare le nuove regole, sia autonomamente oppure attraverso l’ordine professionale.

La nuova legge, inoltre, prevede che nei contenziosi tra lavoratori e aziende debbano essere ritenute nulle le parti dei contratti che:

  • non rispettano l’equo compenso;
  • vietano ai liberi professionisti di richiedere l’acconto per la loro prestazione;
  • costringono i liberi professionisti all’anticipo delle spese;
  • prevedono termini di pagamento superiori a 60 giorni dal ricevimento della fattura.

Secondo la legge, comunque, potranno essere ritenute nulle tutte le parti dei contratti troppo vantaggiose per le imprese, nei confronti della qualità e della quantità del lavoro commissionato. Inoltre, sembra che verrà istituito un «osservatorio sull’equo compenso» dal ministero della Giustizia, con il compito di controllare che vengano rispettate le nuove regole.

A tutto questo si lega anche un altro aspetto della legge, che sembra essere stato particolarmente contestato: non ci saranno sanzioni, infatti, per le aziende che non rispettano le regole, ma gli ordini professionali potranno procedere a sanzionare i professionisti che accettano un compenso che non è equo.

Diversi esponenti del PD hanno criticato il passaggio, tra cui il capogruppo del partito in Commissione Giustizia, Federico Gianassi: «Avevamo chiesto di cancellare le sanzioni al professionista, che è parte debole del rapporto e non può essere pure sanzionato».

Un ulteriore problema indicato dal PD e da Gianassi e che la nuova legge non interviene sui rapporti di lavoro che esistono di già, e che, dunque, proseguiranno senza il rispetto dell’equo compenso. Il PD, a tal proposito, aveva richiesto una norma transitoria, presto rifiutata dalla maggioranza.

Gianassi ha dichiarato di apprezzare che la legge vada ad affermare l’equo compenso, estendendolo a tanti lavoratori. Tuttavia, è «un’occasione persa», in quanto esclude «centinaia di migliaia di professionisti».

LEGGI ANCHE:


Giustizia: il Papa cambia le norme penali e l’ordinamento giudiziario del Vaticano

Avvocato, sai come utilizzare TikTok per il tuo Studio Legale?

Giustizia: il Papa cambia le norme penali e l’ordinamento giudiziario del Vaticano

Giovedì 13 aprile 2023

Papa Francesco ha deciso di riscrivere le norme che riguardano il processo penale e l’ordinamento giudiziario dello Stato della Città del Vaticano.

Con un Moto Proprio pubblicato mercoledì 12 aprile 2023, il Pontefice ha introdotto delle modifiche riguardo la normativa penale, di fronte al moltiplicarsi di vicende che «richiedono una definizione sollecita e giusta in ambito processuale», che causa «un crescente carico di lavoro per gli organi giudiziari».

Con le modifiche introdotte da Papa Francesco si punta alla semplificazione dei meccanismi, mantenendo e migliorando «la funzionalità del sistema». Tra le varie novità troviamo:

  • un inquadramento preciso delle funzioni requirenti e inquirenti dell’Ufficio del Promotore di Giustizia;
  • possibilità di aggiungere un supplente nel collegio di 3 magistrati, se uno dei membri abbandoni il ruolo;
  • la possibilità che lo stesso Papa nomini un presidente del Tribunale vaticano aggiunto se quello in carica si trova nell’anno delle sue dimissioni;
  • l’abrogazione della presenza “full time” di almeno un giudice all’interno del collegio giudicante.

L’ultima novità è stata introdotta con la Legge CCCLI del 16/03/2020, con la quale il Papa andava a promulgare un ulteriore ordinamento giudiziario. Si sostituisce il primo comma così: «Il potere giudiziario nello Stato della Città del Vaticano è esercitato, a nome del Sommo Pontefice, per le funzioni giudicanti dal tribunale, dalla Corte di appello e dalla Corte di Cassazione; per le funzioni inquirenti e requirenti, dall’Ufficio del Promotore di Giustizia».

Un’ulteriore specifica introdotta dal Motu Proprio fa riferimento al fatto che «i magistrati sono nominati dal Sommo Pontefice e nell’esercizio delle loro funzioni sono soggetti soltanto alla legge». Essi «esercitano i loro poteri con imparzialità, sulla base e nei limiti delle competenze stabilite dalla legge».

Viene abrogato il comma 2 dell’art.6, che stabiliva la presenza full time di uno dei magistrati ordinari «senza avere rapporti di lavoro subordinato né svolgere attività libero-professionali con carattere continuativo». D’ora in poi, tutti potranno assumere ulteriori incarichi, e nessuno dovrà svolgere obbligatoriamente le proprie funzioni a tempo pieno.

Nel comma 3 dell’art.6, invece, era previsto che «il Tribunale giudica in collegio di tre magistrati, designati dal presidente del Tribunale tenendo conto delle loro competenze professionali e della natura del procedimento».

Invece, con il Motu Proprio, il presidente del Tribunale dovrà tenere in considerazione anche «la data di cessazione dei giudici in relazione alla prevedibile durata del processo. Nel rispetto del principio di immutabilità del giudice e per assicurare la ragionevole durata del processo, il presidente può nominare un componente supplente, il quale partecipa ai lavori del collegio e può giudicare nei casi di impedimento o di cessazione dalle funzioni di un magistrato».

Modifiche anche all’articolo 10. Viene aggiunto, infatti, che «il Papa, nel corso dell’Anno giudiziario in cui il presidente è tenuto a rassegnare le dimissioni, può nominare un presidente aggiunto, il quale coadiuva il presidente nell’esercizio delle funzioni», svolgendo «funzioni vicarie» e presiedendo «i collegi nei giudizi di prevedibile durata ultrannuale, subentrando nella carica al momento della cessazione del presidente».

Riguardo il Promotore di Giustizia, viene stabilito che potrà presentare al Tribunale una «richiesta di sentenza di non luogo a procedere» nel caso in cui ritenga che «ricorrano le condizioni per la concessione del perdono giudiziale», oppure se il fatto «possa essere ritenuto di lieve entità in ragione delle modalità della condotta, della personalità dell’imputato, del danno cagionato alla persona offesa o del pericolo causato».

LEGGI ANCHE:


Avvocato, sai come utilizzare TikTok per il tuo Studio Legale?

Anche le mail inquinano: l’impatto ecologico dei rifiuti digitali

Avvocato, sai come utilizzare TikTok per il tuo Studio Legale?

Mercoledì 12 aprile 2023

TikTok, dopo aver conquistato i giovani della Generazione Z, ora si sta diffondendo anche tra i più “anziani”, che cominciano a scoprire le potenzialità e le funzionalità del social. Ma anche aziende e professionisti si stanno buttando su TikTok, sfruttandolo come piattaforma di business.

Stare su un social del genere significa trovare un equilibrio tra contenuti e linguaggio utilizzato. Anche gli avvocati possono beneficiare del social: basterà gestirlo in maniera strategica inserendolo in un piano di comunicazione e marketing più ampio.

Non serve essere famosi su TikTok: bastano i giusti contenuti

TikTok sembra essere governato da algoritmi che premiano i contenuti che provocano maggior interesse. Tuttavia, a differenza di altre piattaforme, l’attenzione viene rivolta verso il creatore dei contenuti, che non dovrà necessariamente partire da un robusta fan base per diventare virale.

Tutto ciò è un gran vantaggio per le persone intenzionate ad esplorare a pieno le potenzialità del social, anche partendo da zero.

TikTok è nata come una piattaforma di content discovery, orientata quindi verso una fruizione decisamente rapida dei contenuti. L’obiettivo è la stimolazione del watch time, che determina il valore di un video: più un video verrà visualizzato, maggiore sarà il punteggio attribuitogli dall’algoritmo del social, che lo mostrerà con maggior frequenza agli utenti.

Di certo è un social che trova negli utenti della Generazione Z uno zoccolo duro. Tuttavia, non è affatto un social per ragazzini dove vengono fatti soltanto i balletti. Sempre più adulti sperimentano il social, mossi da una gran curiosità.

Il social, per molti, non è solo passatempo, divertimento e challenge, ma strumento per veicolare informazioni e how to. Gli avvocati possono (e devono) utilizzare TikTok per migliorare la loro reputazione digitale, affermando il proprio posizionamento.

È fondamentale, come in qualsiasi social, definire il target e il pubblico al quale ci si rivolge, scegliendo accuratamente i temi da trattare, evitando di investire tempo e risorse in un dialogo a senso unico. Un eventuale piano di contenuti per TikTok andrà inserito in una dimensione più ampia, che vada a coinvolgere anche altri canali.

Case history americani

Anche se è un social poco esplorato dagli avvocati, non mancano case history di particolare rilievo, che testimoniano come un’efficace content strategy possa affermare e valorizzare le competenze di un professionista.

Gli esempi fanno parte del mercato legale americano, e non possono essere paragonati al nostro panorama, è vero. Tuttavia, possiamo osservare come uno stile distintivo, unito ad un linguaggio efficace e alla capacità di trattare temi che interessano al pubblico di riferimento, possano migliorare il proprio personal branding.

Avvocati del calibro di Anthony Barbuto, Ali Awad, Brad Shear e Ryan Chevener hanno raggiunto centinaia di migliaia di follower. Si tratta di avvocati che hanno basato tutta la loro strategia comunicativa su un racconto tanto leggero quanto efficace, dialogando costantemente con il loro pubblico.

Ecco qualche suggerimento utile per il personal branding su TikTok:

  • Scegliere con cura i temi di cui si vuole parlare, concentrandosi su un’area specifica di competenza, evitando in tal modo di apparire come “tuttologi”;
  • Catturare dal primo secondo l’attenzione;
  • Pubblicare video brevi, di 30 secondi al massimo;
  • Cercare di essere costanti e regolari, alternando video informativi a retroscena professionali;
  • Registrare i video in maniera professionale, seguendo un canovaccio;
  • Eliminare il legalese e utilizzare un linguaggio poco tecnico;
  • Usare hashtag di tendenza;
  • Raccontare storie e casi pratici;
  • Utilizzare audio, musica, didascalie e testi di tendenza;
  • Interagire con chi ci segue;
  • Utilizzare call to action, per spingere gli utenti a cercarci fuori da TikTok.

LEGGI ANCHE:


#quittok: i giovani che danno le dimissioni in diretta su TikTok

TikTok è veramente un social così pericoloso per la nostra privacy?

Anche l’Europa ha paura di TikTok: i timori sulla gestione dei dati e sulla privacy degli utenti

TikTok sostituirà Google?

Anche le mail inquinano: l’impatto ecologico dei rifiuti digitali

Mercoledì 12 aprile 2023

Non ci facciamo molto caso, ma navigare online ha un costo altissimo. E chi ne paga le conseguenze è il nostro Pianeta. Se 70 milioni di abbonati a servizi streaming abbassassero la qualità dei video da HD a Standard, ci sarebbe una riduzione mensile di 3,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica, pari al 6% del consumo di carbone mensile negli USA.

Oltre a questo, non ci rendiamo nemmeno conto di essere sommersi da rifiuti digitali. Bisognerebbe accrescere la consapevolezza dalla propria impronta digitale con azioni di sensibilizzazione digitale, ripulendo la memoria dei nostri dispositivi, evitando di inviare messaggi e mail inutili e cercando di dare sempre una seconda chance alle apparecchiature digitali.

Streaming passivo e click superflui

In Italia esiste un’organizzazione, Let’s do it Italy, che ha l’obiettivo di ripulire la Terra dai rifiuti, provando a contrastare in tal modo i cambiamenti climatici. Spiega Vincenzo Capasso, presidente dell’organizzazione ed esperto informatico: «Proviamo a far capire alle persone che i rifiuti digitali creano inquinamento digitale che continua a consumare energia anche quando ce ne siamo dimenticati. La spazzatura digitale si trova nei backup sui server che ci forniscono il servizio cloud e continuano a consumare elettricità».

Continua: «Il nostro consumo illimitato di dati oggi richiede tre volte più energia di quanta ne possano produrre tutti i pannelli solari del mondo. E la nostra mania di Internet funziona principalmente con i combustibili fossili»,

Dunque, lo streaming passivo e i click superflui causano più di 870 milioni di tonnellate di anidride carbonica, «contribuendo in modo consistente al riscaldamento globale». L’organizzazione ha proposto alcune challenge, come eliminare le vecchie mail, cancellarsi da newsletter inutili e rimuovere gli allegati dai download delle mail di cui non abbiamo bisogno.

Aggiunge Capasso: «Il 60% delle email non viene aperto, ogni anno vengono inviate 62 trilioni di email di spam. Restano solo lì a occupare spazio ed energia nella nostra casella di posta».

Per Enrico Parolisi, direttore di F-Mag, «il mondo ha sempre fatto tardi e oggi ne paghiamo le conseguenze. Abbiamo sempre sottovalutato il suo tremendo impatto sull’ambiente e l’ecosistema, e oggi sappiamo quanto sia complesso correre ai ripari».

Oggi, il mondo digitale è interconnesso: non si torna più indietro. La nostra vita online comporta impatti ambientali non trascurabili, a partire dalle nostre mail. Per esempio, soltanto nel Regno Unito ogni giorno vengono inviate 64 milioni di mail inutili: una singola mail ha un’impronta carbonica compresa tra i 5 e i 50 grammi di CO2.

Spegnere la videocamera su zoom

Se un dipendente partecipa a 15 ore di call online con la videocamera accesa contribuisce alla creazione di 9,4 kg di CO2. Spiega Capasso: «Spegnendo il video risparmierebbe la stessa quantità di emissioni che si creano caricando uno smartphone ogni notte per oltre tre anni».

Aggiunge, inoltre, che «ci vuole più energia per estrarre i Bitcoin di quanta ne consuma l’intera Nuova Zelanda in un anno. Il mining (l’estrazione di dati) di Bitcoin non produce altro che pochi byte di dati crittografati, consuma enormi quantità di energia con l’informatica senza creare effettivamente un prodotto o un servizio d’uso».

E ancora: «Google consuma 15.616 MWh di energia al giorno, più di quanto produce la diga di Hoover e alimenterebbe un intero paese con un milioni di abitanti per un giorno».

Meno inquinamento, più equilibrio

Certamente, il discorso della sostenibilità ambientale risulta molto importante. Eliminare dati non necessari permette anche di allungare la vita dei dispositivi tecnologici; ma fare pulizia ci permette di «sentirci più equilibrati e prendere il controllo delle nostre vite, forgiando nuove abitudini digitali».

«Organizzare le nostre email, inviarne meno e utilizzare modalità di comunicazione alternative, come gli spazi di co-working, libererebbe quel tempo, ma limiterebbe anche la pratica inefficace di organizzare il lavoro tramite email», conclude Capasso.

LEGGI ANCHE:


Mail e pubblicità online: come ritrovare un po’ di privacy

A chi dobbiamo chiedere il consenso per condividere le foto dei figli sui social?

Mail e pubblicità online: come ritrovare un po’ di privacy

Mercoledì 12 aprile 2023

Se ci pensiamo bene, trattiamo proprio male la nostra mail!

 

La condividiamo un po’ ovunque, utilizzandola per ogni piattaforma o servizio, che sia lo streaming o qualche servizio di delivery. Fino a poco tempo fa era comune utilizzarne diverse a seconda dello scopo, ma ora questa usanza si sta affievolendo.

È sicuramente un grave errore: la posta elettronica, servizio pensato per le comunicazioni interpersonali dovrebbe avere un po’ di privacy in più. Ma soprattutto, maggior discretezza nella sua diffusione, in quanto prezioso strumento personale.

Mail e pubblicità online

A quanto pare, l’indirizzo mail non serve soltanto per le comunicazioni personali. Per coloro che si occupano di pubblicità online, per sviluppatori, editori e produttori di applicazioni, la mail è una sorta di indizio ricorrente per seguire le nostre attività online, proponendoci specifiche pubblicità, in base a tutto quello che ricerchiamo online.

Ciò avviene a causa della progressiva riduzione delle funzionalità collegate ai cookies, ovvero pezzi di codice che per lungo tempo hanno svolto il lavoro della profilazione digitale, ma che ora hanno vita difficile.

Leggi anche: Fingerprinting: come i siti tracciano tutto quello che facciamo

Oggi, quindi, i cookies non hanno più la stessa utilità nell’offrirci pubblicità mirate. La mail, che ci viene richiesta sempre più frequentemente e insistentemente, risulta non soltanto più utile rispetto ai cookies, ma anche rispetto ad altre informazioni personali.

Come sostiene Michael Priem, CEO di Modern Impact, società pubblicitaria di Minneapolis: «Posso prendere il tuo indirizzo mail e trovare dati che potresti non aver nemmeno realizzato di aver dato ad un certo brand. La quantità di dati disponibili su di noi come consumatori è letteralmente scioccante».

UID 2.0

A quanto pare, la nostra mail risulta essenziale al fine dell’implementazione dei sistemi di tracking che stanno sostituendo i cookies, come il sistema Unified ID 2.0, conosciuto anche come UID 2.0.

Sostanzialmente, quello che fa il sistema è trasformare la mail (magari in cambio di un piccolissimo sconto su un sito oppure con l’iscrizione ad una newsletter) in una stringa alfanumerica, che viene successivamente associata ad ogni servizio che utilizzi UID 2.0.

Questo non avviene soltanto con la mail, ma anche con i nostri numeri di telefono. In tal modo si segue l’utente nelle varie piattaforme, andando a selezionare gli annunci più pertinenti ed efficaci per lui.

Se Mozilla ritiene che con UID 2.0 si sia fatto «un forte passo indietro» con la privacy, troviamo anche alcuni sistemi un po’ più semplici per poter trasformare la nostra mail in un’informazione pubblicitaria.

Infatti, il nostro indirizzo mail potrebbe essere venduto e inserito in un database di un broker pubblicitario, tentando di accoppiarlo con dei profili che contengono un gran numero di dati, andando a generare delle pubblicità più mirate.

Se ci chiediamo come mai, nonostante tutti i negati consensi ai cookies e alla massima attenzione dedicata al blocco dei tracciamenti delle app, la pubblicità risulta ancora profilata e invasiva, è perché il nostro indirizzo mail sta circolando ancora eccessivamente.

Ritrovare un po’ di privacy

Quello che si può fare è ritornare alle vecchie abitudini, creando una mail specifica per ogni servizio, utilizzandola soltanto per una specifica piattaforma.

Sì, è un lavoro noioso e snervante. Si potrebbe pensare, quindi, di utilizzare servizi offerti da Apple o da Mozilla, per esempio, che mascherano l’indirizzo mail con degli indirizzi alias, che inoltrano i messaggi a quello reale.

Ehi, hai per caso bisogno di un indirizzo mail professionale?

 

La posta elettronica è un mezzo di comunicazione imprescindibile al giorno d’oggi. È facile, veloce e ha costi ridotti. 

Con Servicematica puoi avere un servizio email professionale. Puoi ottenere più indirizzi email da fornire ai tuoi dipendenti o collaboratori. Puoi personalizzarli scegliendo come dominio il tuo nome o quello della tua azienda.

Ma soprattutto puoi godere della nostra assistenza da remoto per risolvere qualsiasi difficoltà.

Dai un’occhiata alla nostra mail professionale. Clicca sopra questo link 🙂

LEGGI ANCHE:


A chi dobbiamo chiedere il consenso per condividere le foto dei figli sui social?

Riforma Cartabia: il governo cambia la Legge Severino

A chi dobbiamo chiedere il consenso per condividere le foto dei figli sui social?

Mercoledì 12 aprile 2023

Ancora prima di nascere, nei social vengono pubblicate migliaia di ecografie. I bambini, ormai, sono i protagonisti dei post e delle stories dei genitori, che li paparazzano mentre vanno a scuola, mentre giocano, durante il bagnetto o mentre fanno colazione.

Si tratta di sharenting, termine che nasce come neologismo, in parallelo alla diffusione capillare dei social media. In effetti, si tratta dell’unione dei termini “sharing”, condivisione, e “parenting”, genitorialità.

Insomma, con sharenting s’intende la condivisione sui social media di immagini dei propri figli. Ciò, a prescindere dal fatto che si tratti di foto su Facebook o di stories su Instagram.

Sharenting e genitori separati

Al giorno d’oggi, pubblicare le foto dei figli sui social è diventata una prassi ordinaria. Ma che cosa succede nel caso di genitori separati, ove uno dei due non è d’accordo con la condivisione? E se fosse il figlio stesso a non essere affatto d’accordo?

«Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa», recita la legge sul diritto d’autore, senza fare distinzioni tra maggiorenni e minorenni. Ma anche l’articolo 2 della Costituzione difende il diritto al ritratto: una foto realizzata con lo smartphone ha lo stesso identico valore di un ritratto, in quanto si rende riconoscibile l’identità e l’immagine della persona ritratta.

Ciascun genitore può impedire all’altro di pubblicare foto online dei propri figli, in base all’art. 709 del Codice penale e all’art. 614 del Codice civile. Se un genitore viola tale richiesta, si potrà richiedere l’intervento del giudice, affinché vengano rimosse le immagini – oltre alla richiesta del risarcimento del danno.

La situazione cambia nel caso in cui i genitori siano divorziati o separati: negli accordi di separazione o divorzio verranno infatti inserite anche le clausole che regolano la pubblicazione delle foto online. Il problema, comunque, può riguardare anche la mancata volontà da parte del figlio stesso per la pubblicazione delle sue foto online.

All’estero esistono già casi di figli che hanno deciso di portare in tribunale i genitori, in quanto contrari all’aver visto gran parte della loro vita condivisa online. I genitori, prima di tutto, hanno il compito di preservare l’incolumità dei figli.

Succede, in particolar modo nelle coppie separate, che ci sia un genitore che pubblica online le foto del figlio, all’insaputa dell’altro. Ma abbiamo detto che pubblicare online le immagini dei figli richiede un accordo comune, che nelle coppie separate potrebbe mancare.

Se c’è disaccordo, l’autorità giudiziaria procederà a decidere in base agli interessi del minore. L’unica eccezione riguarda l’affido esclusivo del minore, nel quale il genitore affidatario agisce senza dover interpellare l’altro.

Pubblicare video dei figli su TikTok

Al Tribunale di Trani (ord. 3445/2021) si è proceduto a giudicare una madre separata che aveva pubblicato su TikTok dei video della figlia di 9 anni. Il giudice aveva disposto la rimozione urgente, condannando la madre al pagamento di 50 euro per ogni giornata di avvenuta violazione ma anche di ritardo nell’esecuzione di tale provvedimento.

Il denaro avrebbe dovuto essere versato su un conto corrente appositamente intestato alla figlia. Per il collegio, «l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi, in quanto determina la diffusione delle immagini tra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo aver visto le loro foto online».

Consenso del minore o dei genitori?

In Italia, il limite della legge per la manifestazione del consenso in maniera autonoma (art. 2 quinquies D.Lgs. n. 101/2018) viene fissato ai 14 anni d’età. La persona, dopo il compimento del quattordicesimo compleanno, potrà pubblicare le proprie immagini sui social, dopo aver acconsentito al trattamento delle sue informazioni personali.

Dunque, chiunque vorrà procedere alla pubblicazione della foto di un minore che abbia compiuto 14 anni, dovrà ottenere il consenso dal minore, e non dai genitori – eccezion fatta nei casi in cui, come stabilito dall’art. 97 L. n. 633/194, «la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico».

LEGGI ANCHE:


Riforma Cartabia: il governo cambia la Legge Severino

Carcere per gli «eco-vandali»: in arrivo un nuovo ddl

Iso 27017
Iso 27018
Iso 9001
Iso 27001
Iso 27003
Acn
RDP DPO
CSA STAR Registry
PPPAS
Microsoft
Apple
vmvare
Linux
veeam
0
    Prodotti nel carrello
    Il tuo carrello è vuoto