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Sport, diritti umani e arbitrato: la sentenza Semenya e il caso di Imane Khelif

L’11 luglio 2023, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha emesso una sentenza storica nel caso Semenya contro Svizzera, condannando quest’ultima per violazione degli articoli 8, 13 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). La decisione ha fatto eco nel mondo sportivo e giuridico, mettendo in discussione il rigido controllo esercitato dal Tribunale Federale svizzero su un lodo arbitrale emesso dal Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) riguardante l’atleta sudafricana Caster Semenya.

Questo verdetto ha un rilevante collegamento con la controversia della pugile algerina Imane Khelif, esclusa dai Campionati Mondiali di Boxe Femminile 2023 per non conformità ai requisiti di genere stabiliti dalla International Boxing Association (IBA). Entrambi i casi sottolineano le complessità emergenti quando le regolamentazioni sportive internazionali entrano in conflitto con i diritti fondamentali degli atleti.

La sentenza

Con una sentenza storica, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) ha condannato la Svizzera per violazione degli articoli 8, 13 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nel caso Semenya c. Svizzera (ricorso n. 10934/21). La Corte ha rilevato che il Tribunale Federale svizzero non ha adeguatamente esaminato le accuse di discriminazione avanzate dall’atleta sudafricana Caster Semenya contro il regolamento della World Athletics, che limita il livello di testosterone nelle atlete femminili.

La vicenda

Caster Semenya, una delle atlete più talentuose nel mezzofondo, è intersessuale, producendo naturalmente alti livelli di testosterone. Nel 2018, la World Athletics (ex IAAF) ha introdotto il “Regolamento DSD”, imponendo alle atlete con livelli elevati di testosterone di sottoporsi a trattamenti ormonali per poter competere nelle categorie femminili. Semenya ha contestato questa normativa al Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS), sostenendo che i trattamenti ormonali hanno effetti collaterali dannosi e non adeguatamente studiati.

Il giudizio del TAS e del Tribunale Federale svizzero

Il TAS ha riconosciuto che il regolamento, pur discriminatorio, era giustificato dalla necessità di garantire una competizione equa. Di conseguenza, Semenya ha impugnato la decisione presso il Tribunale Federale svizzero, unico organo competente per i ricorsi contro i lodi arbitrali del TAS. Tuttavia, il Tribunale Federale ha confermato la decisione del TAS, ritenendo legittima la normativa in questione.

Il ricorso alla Corte EDU

Dopo il rigetto del Tribunale Federale, Semenya ha portato il caso alla Corte EDU, sostenendo che la Svizzera aveva violato i suoi diritti garantiti dalla CEDU, tra cui il diritto al rispetto della vita privata e familiare, il diritto a un ricorso effettivo e il divieto di discriminazione.

La Corte EDU ha accolto le doglianze di Semenya, dichiarando che il Tribunale Federale svizzero non ha fornito sufficienti garanzie istituzionali e procedurali. In particolare, la Corte ha criticato l’approccio “molto ristretto” adottato dal Tribunale Federale nell’esaminare il lodo arbitrale, che non ha permesso una valutazione approfondita degli effetti collaterali dei trattamenti ormonali richiesti dal regolamento.


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Secondo la Corte, questa impossibilità deve essere dovuta a circostanze gravi come il decesso della madre, una grave malattia, il ricovero ospedaliero, o l’impossibilità di rientrare in Italia per motivi non dipendenti dalla sua volontà. Situazioni di mera difficoltà non sono sufficienti per giustificare la sostituzione della misura carceraria. La disposizione ha natura eccezionale, derogando ai principi di adeguatezza e proporzionalità delle misure cautelari, e viene applicata solo quando l’altro genitore non può in alcun modo prendersi cura dei figli, garantendo così l’interesse generale della tutela della collettività.


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In particolare, per una servitù di passaggio, non è sufficiente la mera esistenza di una strada o di un percorso; è necessario che questi mostrino di essere stati creati specificamente per fornire accesso al fondo dominante attraverso quello servente. Quindi, deve esserci un elemento aggiuntivo che dimostri la loro precisa destinazione all’esercizio della servitù.


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Di conseguenza, il CNF ha confermato la sanzione del CDD, ritenendola congrua. La sentenza n. 129 dell’8 aprile 2024, presieduta da Napoli e con relatore Berti Arnoaldi Veli, ha stabilito che la riduzione della pena non può essere considerata se non espressamente richiesta dall’incolpato.

Sentenza integrale al link del sito del CNF: https://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2024-129.pdf


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Serviranno ulteriori soluzioni per migliorare le condizioni del sistema penitenziario del Paese: i 62 suicidi dall’inizio dell’anno e il sovraffollamento che vede alcuni grandi istituti penitenziari arrivare ad ospitare persino il 130% della loro capienza regolamentare ci indicano che la strada per la normalizzazione è ancora lunga.

Bene l’incremento del Corpo della polizia penitenziaria del personale operativo in ambito penitenziario e minorile, ma il vero miglioramento delle condizioni carcerarie passa attraverso l’introduzione di procedure per la concessione e l’ottenimento del beneficio della liberazione anticipata, o di misure alternative per i condannati.

Sotto questo aspetto, e anche in merito a nuovi percorsi di formazione e lavoro per i detenuti, sarebbe opportuno dare seguito alle istanze che l’Avvocatura da tempo richiede”.

 

Così in una nota Mario Scialla, Coordinatore dell’OCF, e Elisabetta Brusa, Componente del Dipartimento Detenzione e Carceri di OCF.


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Un passo avanti significativo nella digitalizzazione della giustizia si è concretizzato con l’arrivo delle infrastrutture digitali anche nello storico Palazzo della Corte di Cassazione di piazza Cavour a Roma. Grazie al progetto realizzato da Inwit, la connessione di rete mobile, inclusa quella 5G, è ora operativa in uno degli edifici più emblematici della capitale.

Il sistema installato, noto come Distributed Antenna System (DAS), offre una copertura dedicata multi-operatore per location indoor, supportando la connettività 5G per tutti i principali operatori di telecomunicazioni, attualmente attiva con TIM e Vodafone. Questo sistema consente di garantire un segnale mobile stabile ed efficiente all’interno del palazzo, risolvendo così i cronici problemi di connettività causati dalla struttura delle mura dell’edificio.

Le micro-antenne 5G ready del sistema DAS, dal minimo impatto visivo, si integrano perfettamente nell’architettura storica del Palazzo della Corte di Cassazione. Questa nuova infrastruttura digitale non solo migliora la connettività, ma apre la strada a servizi innovativi che ottimizzano le procedure, la gestione documentale e gli archivi. Inoltre, velocizza le comunicazioni, rendendo più efficienti e fruibili i servizi della giustizia.


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Magistrati “in prova” tra i detenuti: arriva la proposta di legge bipartisan

Una rivoluzione nel percorso formativo dei magistrati italiani? È quanto propone una nuova proposta di legge bipartisan, presentata da un ampio arco costituzionale e primo firmatario Riccardo Della Vedova di +Europa.

Il provvedimento prevede l’introduzione di un periodo di 15 giorni di tirocinio obbligatorio nei penitenziari per tutti i futuri magistrati. L’obiettivo è quello di farli entrare in contatto diretto con la realtà carceraria, permettendo loro di comprendere le dinamiche interne, le condizioni di vita dei detenuti e le sfide del sistema penitenziario italiano.

Ma non solo. La proposta di legge prevede anche l’approfondimento, durante il percorso formativo, di testi specifici dedicati al ruolo fondamentale della giustizia come strumento di garanzia dei diritti e delle libertà. Un modo per rafforzare la consapevolezza nei giovani magistrati dell’importanza del loro ruolo nella tutela dei principi fondamentali dello Stato di diritto.


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Bologna, una ferita aperta: 44 anni dalla strage

Sono passati 44 anni da quel tragico 2 agosto 1980, quando un’esplosione sconvolse la stazione ferroviaria di Bologna, portando via la vita di 85 persone e ferendone oltre 200. La strage, uno dei più gravi attentati terroristici mai avvenuti in Italia, continua a lasciare un profondo segno nel cuore del Paese.

Una ferita che non cicatrizza

L’attentato, di matrice neofascista, è stato a lungo avvolto nel mistero, con una serie di depistaggi che hanno rallentato le indagini e alimentato teorie complottistiche. Solo dopo un lungo percorso giudiziario sono emersi i nomi degli esecutori materiali, militanti dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), tra cui Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, condannati in via definitiva.

I mandanti: un enigma quasi risolto

Ma chi erano i mandanti? Un interrogativo che ha tormentato per anni inquirenti e familiari delle vittime. Le ultime indagini hanno portato a individuare un’organizzazione ben più vasta, che coinvolgeva non solo i NAR, ma anche esponenti della criminalità organizzata e dei servizi segreti deviati. Nomi come Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi sono stati indicati come i veri responsabili, ma la loro morte ha reso impossibile un processo definitivo.

Un’eredità di odio e violenza

La strage di Bologna è stata uno degli ultimi atti della cosiddetta “strategia della tensione”, un periodo buio della storia italiana caratterizzato da una serie di attentati e violenze politiche. Un capitolo doloroso che ha segnato profondamente la società italiana e che ancora oggi richiede un impegno costante per mantenere viva la memoria e impedire che simili tragedie si ripetano.

La ricerca della verità continua

Nonostante le condanne e le rivelazioni degli ultimi anni, la storia della strage di Bologna non è ancora completamente scritta. Molti aspetti rimangono da chiarire e le famiglie delle vittime continuano a lottare per ottenere giustizia e verità.


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La battaglia contro la burocrazia italiana per il suicidio medicalmente assistito, l’appello dell’associazione Luca Coscioni

“Finalmente potrò smettere di soffrire”. Queste sono state le ultime parole di Ines, una donna lombarda di 51 anni affetta da sclerosi multipla, che nelle scorse ore ha messo fine alle sue sofferenze attraverso il suicidio medicalmente assistito in Svizzera. Ines aveva chiesto di poter accedere a questa procedura in Italia, ma l’Azienda Sanitaria Locale (ASL) non ha ancora trasmesso la relazione finale e il parere del Comitato Etico.

Ines, nome di fantasia, racconta il suo calvario: “Sono malata di sclerosi multipla, ormai diventata secondariamente progressiva. Il mio corpo non risponde più a nessuna delle mie richieste. Non passerà mai. Ho dolori insopportabili. Ho deciso di andare in Svizzera perché purtroppo l’Italia tarda a rispondermi. Ho chiesto anche di poter morire in Italia, ma la risposta si allunga e la Svizzera mi ha accolto prima. Finalmente potrò realizzare il mio sogno di smettere di soffrire”.

L’appello dell’associazione Luca Coscioni

Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e responsabile legale di “Soccorso Civile”, ha dichiarato: “Non devono più ripetersi vicende come questa, dove una persona che aveva diritto a essere aiutata a terminare la propria vita in Italia, nel pieno rispetto della legge, si vede costretta ad andare a morire in un altro Paese. Come Associazione Luca Coscioni chiediamo a tutte le Regioni italiane di approvare la nostra legge regionale ‘Liberi Subito’, che definisce tempi e procedure certe per dare risposta a chi chiede di morire, per impedire che a sofferenze insopportabili si aggiungano i danni dell’accanimento burocratico”.

Il quadro legale in Italia

Nonostante il suicidio medicalmente assistito sia legale in Italia a determinate condizioni, previste dalla sentenza 242 del 2019 della Consulta, il Servizio Sanitario Nazionale non garantisce tempi certi per le verifiche necessarie. Molti pazienti rimangono in attesa delle decisioni delle ASL e dei comitati etici territoriali, che possono impiegare mesi per verificare le condizioni e le modalità di accesso. Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni e coordinatrice del team legale, ha sottolineato: “Per questo, nel rispetto delle competenze territoriali, l’Associazione Luca Coscioni ha promosso a livello nazionale la campagna ‘Liberi Subito’ con una raccolta firme per una proposta di legge regionale che garantisca il percorso di richiesta di suicidio medicalmente assistito e i controlli necessari in tempi certi, adeguati e definiti”.

Il dramma di Ines

Ines, affetta da sclerosi multipla da quasi vent’anni, è morta in Svizzera accompagnata da Claudio Stellari e Matteo D’Angelo di “Soccorso Civile”. L’ASL a cui si era rivolta lo scorso maggio non ha ancora trasmesso la relazione finale e il parere del comitato etico, nonostante le sollecitazioni legali. Dopo una prima diffida, la commissione medica della ASL ha visitato Ines due volte senza fornire una valutazione definitiva. Recentemente, Ines ha presentato una seconda diffida, citando la sentenza della Corte costituzionale n. 135/2024, che impone al Servizio sanitario di intervenire prontamente per assicurare lo svolgimento dell’iter di accesso al suicidio assistito. La ASL ha comunicato che la relazione medica è stata inviata al comitato etico, ma non ha dato tempi certi per una risposta.

Una decisione sofferta

Nonostante fosse in possesso di tutti i requisiti previsti dalla sentenza della Corte costituzionale, Ines ha deciso di andare in Svizzera perché le sue sofferenze erano divenute insopportabili. Aveva il diritto di morire in Italia, come stabilito dalla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale, ma la lentezza della burocrazia sanitaria lombarda le ha impedito di esercitare questo diritto nel suo Paese.

Un diritto non garantito

Il caso di Ines evidenzia come il diritto a morire dignitosamente in Italia sia ancora teorico. Manca una legge stringente che disciplini il principio costituzionale stabilito dalla Corte e garantisca concretamente l’esercizio di questo diritto, lasciando così i malati senza una via d’uscita dignitosa nel proprio Paese.


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Genova e i nuovi interrogativi sul rapporto tra politica e magistratura

I recenti fatti di Genova hanno riacceso il dibattito sul delicato rapporto tra politica e magistratura, sollevando interrogativi urgenti riguardo agli incarichi che i magistrati, sia laici che togati, possono assumere dopo aver cessato le loro funzioni. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane (UCPI) ha diffuso una nota che mette in evidenza l’importanza di un intervento riformatore complessivo e organico.

Il Caso Genovese: Un Conflitto di Interessi?

A Genova, la nomina di una figura di garanzia, ancora implicata in un procedimento penale in corso, che ha recentemente ricoperto il ruolo di vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), ha suscitato preoccupazioni. Questo episodio solleva il problema degli incarichi che ex componenti del CSM possono assumere dopo il termine delle loro funzioni. La questione non si limita solo alla legalità, ma investe anche l’etica del potere e il rispetto per le alte funzioni una volta cessate.

Non un Caso Isolato

Questa situazione non è un’anomalia isolata. Già a giugno, nell’ambito della stessa indagine, un ex componente del CSM è stato nominato Commissario straordinario aggiunto all’Autorità Portuale. Questi episodi reiterati richiedono una riflessione più ampia sul ruolo e i limiti dei poteri giudiziario e politico.

L’Equilibrio dei Poteri in Discussione

Il tema centrale riguarda l’equilibrio tra potere giudiziario e potere politico. In una democrazia costituzionale, il potere giudiziario funge da limite al potere politico, ma non deve mai trasformarsi esso stesso in un esercizio del potere politico. La progressiva invasione di campo tra questi due poteri, con il consenso implicito di tutti i soggetti coinvolti, sia dentro che fuori dal processo penale, è fonte di preoccupazione.

La Necessità di una Riforma Costituzionale

La Giunta UCPI sottolinea l’urgenza di recuperare il senso e i limiti dei rispettivi poteri. È imperativo che il dibattito parlamentare sulla riforma costituzionale della magistratura inizi senza ulteriori rinvii. Solo attraverso una riforma strutturale si potrà garantire un equilibrio sano e funzionale tra politica e magistratura, preservando l’integrità e l’indipendenza di entrambe le istituzioni.


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