Musk scommette su Tesla: maxi acquisto di azioni per 1 miliardo di dollari

New York. Un gesto simbolico e al tempo stesso concreto: Elon Musk ha investito circa 1 miliardo di dollari per acquistare 2,57 milioni di azioni Tesla sul mercato aperto, la più grande operazione personale mai compiuta dal patron della casa automobilistica americana. La notizia ha immediatamente spinto il titolo a Wall Street, dove ieri ha chiuso in rialzo del 6%.

Si tratta del primo acquisto diretto di Musk dal febbraio 2020 e di un’operazione rarissima: l’ultima volta si era limitato a poco più di 200 mila azioni, per un valore intorno ai 10 milioni di dollari. Stavolta la cifra è di ben altra portata e il mercato l’ha interpretata come un forte segnale di fiducia nelle prospettive del gruppo.

Una mossa inattesa dopo le vendite del 2022

Il gesto appare ancora più significativo se si considera che nel 2022 Musk aveva ceduto oltre 20 miliardi di dollari di azioni Tesla per finanziare l’acquisizione di Twitter (oggi X). Ora invece inverte la rotta, puntando nuovamente sull’azienda che resta il fulcro del suo impero industriale, in cui detiene circa il 13% delle quote.

Tra difficoltà e nuove scommesse

L’acquisto arriva dopo una prima parte dell’anno complicata: le vendite globali di veicoli Tesla sono calate del 13%, con segnali di debolezza nei principali mercati. In Cina, le spedizioni dalla fabbrica di Shanghai sono scese nei mesi estivi; in Europa, le immatricolazioni hanno registrato un andamento in flessione; negli Stati Uniti, secondo Cox Automotive, la quota di mercato dei veicoli elettrici del marchio è scesa sotto il 40% ad agosto.

A pesare è anche la decisione di Washington di eliminare gli incentivi federali all’acquisto di auto elettriche entro fine mese, scelta che rischia di incidere sulle vendite nei prossimi trimestri.

I nuovi orizzonti

Musk, tuttavia, guarda oltre. Nelle ultime dichiarazioni ha ribadito l’impegno verso i robotaxi e i robot umanoidi, progetti che definisce cruciali per il futuro di Tesla. Ha però avvertito che l’azienda dovrà affrontare “alcuni trimestri difficili” prima di vedere i frutti di queste innovazioni.

Un messaggio agli azionisti

Il maxi acquisto di titoli avviene a poche settimane dalla proposta di un nuovo piano di compensi miliardario per Musk, legato a obiettivi di crescita estremamente ambiziosi. In questo quadro, la mossa del fondatore assume il valore di un messaggio: nonostante i venti contrari, Tesla resta al centro della sua scommessa sul futuro della mobilità e della tecnologia.


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Nvidia sotto accusa in Cina: indagine antitrust e crollo in Borsa

Pechino avvia un’indagine sulle presunte violazioni di monopolio legate all’acquisizione di Mellanox. Le azioni Nvidia perdono oltre il 3%

I nuovi signori del potere: quando i miliardi delle Big Tech plasmano la politica

La politica, in America come in Europa, si scopre spesso incapace di resistere all’avanzata dei mega miliardari della tecnologia. Quelli che un tempo erano imprenditori di frontiera, oggi sono diventati i protagonisti di un nuovo potere globale, capace di mettere d’accordo persino ideologie lontanissime: dalla sinistra radicale di Yanis Varoufakis, che li definisce “tecnofeudatari”, alla destra estrema di Steve Bannon, che usa lo stesso termine.

Oligarchi digitali senza confini

Elon Musk, Tim Cook, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg: agli occhi dei critici non esistono differenze, ma un unico blocco di oligarchi digitali che vivono di rendite monopolistiche, costruite su piattaforme ormai essenziali per la vita sociale. Accusati di sottrarre lavoro tramite l’automazione, di imporre ecosistemi chiusi e di progettare un futuro modellato sulle proprie ambizioni, vengono percepiti come un’élite in grado di sostituirsi agli Stati.

I governi provano a reagire. L’Europa discute di regole antitrust, Washington minaccia restrizioni e maxi multe. Ma la realtà è che le lobby delle Big Tech restano più veloci, più influenti e quasi sempre vincenti. Così, in fin dei conti, gli Stati Uniti finiscono per difendere i loro giganti e l’Europa per subirne la forza.

Il salto dalla ricchezza al potere

Ciò che rende unica questa generazione di imprenditori è la capacità di trasformare la ricchezza in potere politico e culturale. Le Big Tech non sono più semplici aziende: sono infrastrutture indispensabili per comunicare, lavorare, commerciare. Non sorprende allora che i loro leader aspirino a gestire funzioni che un tempo appartenevano esclusivamente allo Stato: dal controllo delle valute digitali alle politiche spaziali, fino alla regolamentazione del commercio online.

Figura emblematica è Peter Thiel, meno appariscente di Musk ma ideologicamente più consapevole. Autore di un pensiero che mescola filosofia, religione e suggestioni letterarie, Thiel teorizza senza imbarazzi la legittimità di perseguire il monopolio e il ruolo dell’imprenditore come capro espiatorio e insieme salvatore della società, seguendo suggestioni di Ayn Rand e René Girard.

Strumenti e strategie

I tecnocapitalisti non si collocano lungo l’asse tradizionale dei partiti: li utilizzano. Musk oscilla tra provocazioni e sostegno diretto a leader politici; Zuckerberg cerca di adattarsi agli equilibri; Reid Hoffman si schiera all’opposizione; Thiel alimenta consapevolmente una visione radicale. Ciò che li unisce è la volontà di accumulare sempre più risorse, usarle per consolidare il potere e modellare il futuro secondo la propria immagine.

Un potere senza veri contrappesi

Il risultato è un panorama in cui la politica appare spiazzata. Le istituzioni cercano di imporre limiti, ma l’asimmetria di risorse e di influenza resta enorme. Nel frattempo, i tecnocapitalisti consolidano il loro ruolo di architetti del domani, imponendo agende e priorità che spesso prescindono dal bene comune.

La domanda che resta aperta è: il potere delle Big Tech sarà mai riportato entro confini democratici, o stiamo assistendo alla nascita di un nuovo feudalesimo digitale?


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Pechino mette nel mirino Nvidia: indagine antitrust sull’acquisizione Mellanox

Pechino. La tensione tecnologica tra Stati Uniti e Cina si arricchisce di un nuovo capitolo: la State Administration for Market Regulation (SAMR) ha accusato Nvidia di aver violato la normativa antitrust nell’acquisizione della israeliana Mellanox Technologies, operazione conclusa nel 2020.

Secondo l’autorità cinese, il gruppo guidato da Jensen Huang non avrebbe rispettato pienamente le condizioni stabilite al momento dell’approvazione del deal. Non sono stati resi noti i dettagli dell’inadempimento, né le eventuali sanzioni. Tuttavia, la sola apertura del procedimento rappresenta un segnale forte che alza ulteriormente il livello dello scontro economico e regolatorio tra le due superpotenze.

Impatto finanziario contenuto, ma rischio elevato

Nonostante la rilevanza della notizia, le reazioni dei mercati sono state relativamente moderate: il titolo Nvidia ha segnato un lieve ribasso a Wall Street. Gli analisti sottolineano che le multe antitrust in Cina possono variare dall’1% al 10% del fatturato annuo, e nel caso di Nvidia la posta in gioco potrebbe essere miliardaria. Il mercato cinese pesa infatti tra il 10 e il 17% dei ricavi complessivi della società.

Una mossa politica oltre che economica

Molti osservatori ritengono che la scelta di Pechino abbia una valenza politica. L’intervento contro Nvidia si colloca in un contesto di crescente pressione da parte di Washington, che negli ultimi anni ha imposto restrizioni sempre più severe sull’export di semiconduttori avanzati verso la Cina. Con questa decisione, Pechino sembra voler mostrare di essere pronta a rispondere con strumenti analoghi.

Secondo fonti citate dal Financial Times, la mossa della SAMR rientrerebbe in una più ampia strategia volta a ridurre la dipendenza tecnologica dalle aziende statunitensi e a favorire lo sviluppo di player locali come Huawei e Cambricon, già impegnati nella produzione di chip per l’intelligenza artificiale.

Il precedente che ribalta i ruoli

Per anni gli Stati Uniti hanno utilizzato il diritto antitrust come leva contro le società cinesi – emblematico il caso Huawei. Ora il copione sembra rovesciarsi: è la Cina a contestare i comportamenti di un gigante Usa, in un settore – quello dei chip AI – che rappresenta uno dei fronti più caldi della “guerra tecnologica”.

Le prossime mosse

Resta da capire se le accuse sfoceranno in sanzioni concrete. Un’eventuale multa, anche se onerosa, potrebbe non essere il vero problema per Nvidia: la posta più alta riguarda la possibilità di operare senza ostacoli in Cina, un mercato fondamentale per il futuro dell’AI.

Per mantenere un accesso parziale, l’azienda ha già sviluppato chip “adattati” alle regole locali, come l’H20, progettato con prestazioni ridotte per rispettare i limiti imposti dalle autorità. Una strategia che finora ha funzionato, ma che rischia di non bastare più in un contesto sempre più politicizzato.

Con i negoziati tra Pechino e Washington riaperti a Madrid, la tempistica dell’annuncio sembra tutt’altro che casuale: il caso Nvidia potrebbe trasformarsi in una pedina importante sul tavolo delle trattative.


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Washington e Pechino trovano un’intesa su TikTok

New York. Una svolta che sembrava impensabile fino a poche settimane fa: Stati Uniti e Cina hanno raggiunto un accordo preliminare sulla sorte di TikTok, il social di condivisione video con 170 milioni di utenti americani. L’intesa prevede la cessione della proprietà dal gruppo cinese ByteDance a una società americana, condizione indispensabile per evitare il bando imposto dal Congresso con motivazioni di sicurezza nazionale.

Ad annunciare la novità è stato il segretario al Tesoro Scott Bessent, a margine di un round negoziale a Madrid con il vicepremier cinese He Lifeng. «I termini commerciali sono stati definiti – ha dichiarato – l’operazione metterà TikTok sotto una proprietà statunitense». Il presidente Donald Trump completerà il dossier venerdì in un atteso colloquio con Xi Jinping, definito dallo stesso leader americano «un incontro che sarà molto positivo».

Una trattativa al fotofinish

L’accordo è arrivato a poche ore dalla scadenza dell’ultima proroga concessa da Washington: senza un’intesa, TikTok sarebbe stato bloccato dagli store digitali già da domani. La legge bipartisan firmata nel 2024 dall’allora presidente Joe Biden prevedeva infatti l’uscita della piattaforma dal mercato Usa se non fosse stata acquisita da un soggetto americano.

Trump, che ha più volte rinviato l’applicazione della misura, ha commentato su Truth Social: «Abbiamo trovato una soluzione per un’azienda molto amata dai giovani. Saranno felici».

I nodi ancora aperti

Rimane da chiarire il destino dell’algoritmo, cuore tecnologico di TikTok e fino a oggi considerato da Pechino una tecnologia strategica soggetta a restrizioni all’export. Alcuni osservatori leggono il compromesso come una concessione di Xi per spianare la strada a una sua visita di Stato negli Usa, mentre in parallelo l’antitrust cinese ha lanciato segnali distensivi nei confronti di gruppi americani come Nvidia.

Sul fronte degli acquirenti restano invece top secret i dettagli: indiscrezioni citano nomi di primo piano come Oracle, Elon Musk e cordate miste tra Big Tech e fondi di investimento.

Una partita politica e commerciale

La vicenda TikTok è diventata uno dei dossier più delicati nei rapporti tra le due superpotenze. Da un lato Washington rivendica la necessità di tutelare i dati sensibili dei cittadini americani, dall’altro Pechino denuncia restrizioni arbitrarie e chiede maggiore stabilità nelle relazioni economiche.

Al di là della tecnologia, l’accordo rappresenta il segnale di una più ampia ripresa del dialogo commerciale tra Stati Uniti e Cina, rilanciato proprio nei colloqui madrileni. «Un confronto rispettoso e di ampio respiro», lo ha definito Bessent. Resta ora da vedere se la diplomazia riuscirà a trasformare questo fragile compromesso in un’intesa duratura.


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Telecamere “intelligenti” o occhi indiscreti? Servicematica rilancia l’allarme sulla sorveglianza digitale

Già dieci anni fa Servicematica denunciava per prima i pericoli insiti nella diffusione massiva delle telecamere di videosorveglianza. Oggi, purtroppo, i fatti di cronaca parlano da soli. La promessa di maggiore sicurezza rischia di trasformarsi in un boomerang per la privacy e la tutela dei cittadini, con sistemi che – anziché garantire protezione – espongono utenti e imprese a un controllo occulto senza precedenti.

Test inquietanti: dati in Asia anche a telecamere spente

Le verifiche condotte da Servicematica e da altri osservatori indipendenti su un ampio campione di dispositivi hanno evidenziato due criticità principali:

  • facilità di hackeraggio, con possibilità per terzi non autorizzati di accedere alle immagini in diretta;

  • trasmissione continua di dati verso server collocati in Asia, anche quando le telecamere risultano apparentemente spente.

Un fenomeno che non si limita a compromettere la sicurezza informatica, ma che alimenta una vera e propria rete globale di controllo: i produttori asiatici, che dominano il mercato grazie a prezzi estremamente competitivi, finiscono così per estendere la loro influenza ben oltre i confini nazionali.

L’illusione del “buon affare”

Il consumatore medio, attratto da offerte vantaggiose, pensa di risparmiare acquistando questi dispositivi. In realtà, installa inconsapevolmente in casa o in ufficio un “cavallo di Troia digitale”, che rende i propri dati accessibili a infrastrutture estere con finalità poco trasparenti.

«La sete di controllo massivo trova forza proprio nell’ingenuità degli acquirenti» – commentano i tecnici di Servicematica. – «Chi crede di aumentare la propria sicurezza con queste telecamere spesso ottiene l’effetto opposto: esporsi a intrusioni e sorveglianza invisibile».

Non solo telecamere: Alexa e social nella stessa partita

Il problema non riguarda solo la videosorveglianza. Assistenti vocali, social network e dispositivi domestici “intelligenti” raccolgono quotidianamente parametri fisici, abitudini di consumo e dati personali. Il risultato è una mappa dettagliata delle nostre vite che viene gestita da soggetti privati e, spesso, archiviata su server extraeuropei, fuori da ogni reale controllo democratico.

L’assenza del Garante

In questo scenario, appare evidente il ruolo evanescente delle istituzioni di vigilanza. Il Garante per la protezione dei dati personali, a fronte di fenomeni così invasivi, sembra inadeguato e impreparato. La stessa inefficacia si osserva nel settore dei call center, dove da anni i cittadini subiscono telefonate indesiderate nonostante l’esistenza del Registro delle Opposizioni.

Un sistema che, nei fatti, si è rivelato poco più che simbolico: davvero qualcuno pensa che i call center “selvaggi” vadano a controllare se l’utente è iscritto al registro prima di chiamare? L’esperienza quotidiana dei cittadini dice l’esatto contrario.

Il risultato è paradossale: strumenti pensati per tutelare finiscono per essere percepiti come una beffa, alimentando sfiducia e rassegnazione.

Servicematica, un impegno di lungo periodo

Servicematica non si limita a denunciare: da oltre dieci anni studia soluzioni tecnologiche affidabili, sviluppa sistemi sicuri e sensibilizza utenti e imprese sui rischi della sorveglianza digitale. L’obiettivo è duplice: garantire la protezione reale delle persone e spingere il legislatore a dotarsi di strumenti concreti per contrastare un fenomeno che non è più futuro, ma presente.

«La sfida – ribadisce l’azienda – non è solo tecnologica, ma culturale: bisogna capire che la sicurezza non si compra al ribasso, e che la libertà oggi passa soprattutto  dalla difesa dei dati personali, dalla difesa della sfera personale violentata ogni giorno dal cyber mondo».


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Trappola delle recensioni false: hotel e ristoranti sotto la lente dell’Europa

Un sogno di vacanza trasformato in incubo: cinque stelle su TripAdvisor, commenti entusiastici, foto da cartolina. Ma dietro quei giudizi brillanti, pagati a pacchetto come fossero caramelle, si nascondeva una realtà ben diversa: aria condizionata rotta, colazione al distributore automatico e personale tutt’altro che accogliente. È l’altra faccia del turismo digitale, quella delle recensioni false, un fenomeno che solo nel 2022 ha costretto TripAdvisor a cancellare 1,3 milioni di commenti fraudolenti, pari al 4,3% del totale.

Un business globale che pesa sulle scelte

Il mercato delle recensioni truccate prospera soprattutto in Italia, India, Russia, Stati Uniti, Turchia e Vietnam. E le conseguenze sono enormi: l’82% delle prenotazioni alberghiere e il 70% delle scelte nei ristoranti dipendono da quelle “stelline”. In pratica, otto consumatori su dieci scelgono dove dormire o cenare basandosi su giudizi che potrebbero essere completamente inventati. Un meccanismo che altera non solo le classifiche online, ma anche i prezzi e le mode.

La stretta normativa

L’Unione Europea ha deciso di intervenire con un codice di condotta vincolante. L’Italia, entro fine anno, approverà un decreto che estenderà il giro di vite non solo agli hotel, ma anche ai ristoranti. Stop dunque ai commenti lasciati da chi non ha mai usufruito del servizio: d’ora in avanti, solo chi ha soggiornato o consumato potrà recensire, e le opinioni dovranno essere pubblicate entro 15 giorni dall’esperienza. Dopo due anni, quelle “vecchie” potranno essere rimosse.

«Garantire recensioni autentiche è fondamentale per rafforzare la fiducia dei consumatori e promuovere un turismo di qualità», ha dichiarato il ministro del Turismo Daniela Santanchè.

Il precedente Amazon

Il problema riguarda anche l’e-commerce. Nel marzo scorso, Amazon ha vinto la prima causa civile in Italia contro le recensioni fake, ottenendo la chiusura del sito Realreviews.it che offriva rimborsi ai clienti in cambio di valutazioni positive. Il tribunale di Milano ha riconosciuto la pratica come concorrenza sleale, fissando un precedente importante a tutela di aziende e consumatori.

Quando la recensione diventa diffamazione

Non mancano i casi giudiziari legati all’uso improprio dei commenti. A Recanati, una donna di 53 anni è stata condannata a 7mila euro tra multa e risarcimento per aver definito su Facebook e TripAdvisor un ristorante «una bettola». Il tribunale ha stabilito la differenza tra una critica negativa legittima e una recensione diffamatoria, quindi sanzionabile.

Come difendersi dalle recensioni fasulle

Esistono strumenti online, come ReviewMeta, che aiutano ad analizzare l’autenticità dei commenti. Ma anche l’occhio del consumatore può fare la differenza: diffidare di frasi troppo generiche («Prodotto eccellente!»), di recensioni eccessivamente entusiaste con emoticon o punti esclamativi multipli, così come di giudizi estremamente negativi. Le opinioni autentiche sono quasi sempre più dettagliate, spontanee e coerenti.


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Giustizia civile e Pnrr, Venezia al centro della sfida: se 66 magistrati non bastano

Con la delibera del 3 settembre, il Consiglio superiore della magistratura ha dato attuazione al decreto legge 117/2025, che introduce misure emergenziali per centrare gli obiettivi del Pnrr in materia di giustizia civile. Il traguardo fissato dall’Europa è ambizioso: ridurre del 40% i tempi medi dei procedimenti entro giugno 2026, portando il disposition time nazionale da 2.512 a 1.507 giorni, considerando i tre gradi di giudizio.

Le applicazioni straordinarie

Il Csm ha individuato sedi e numeri dei magistrati applicabili in via straordinaria nei tribunali e nelle corti d’appello. L’Ufficio statistico di Palazzo dei Marescialli ha lavorato in tempi strettissimi: i dati ministeriali erano arrivati solo il 27 agosto. Ora spetta ai capi degli uffici elaborare piani straordinari di smaltimento, benché resti da chiarire quale parametro utilizzare: l’obiettivo generale del -40% o quelli differenziati fissati da una circolare ministeriale del 2021 (-56% per tribunali e corti d’appello, -25% per la Cassazione).

Venezia, il nodo più critico

Il caso emblematico è quello di Venezia, che registra un boom di sopravvenienze, soprattutto in materia di cittadinanza: 44.983 procedimenti pendenti al 30 giugno 2025. Al tribunale lagunare sono stati assegnati 66 magistrati, ma il calcolo delle potenzialità lascia pochi margini di ottimismo.

Anche considerando che ciascun applicato possa definire fino a 100 procedimenti, l’apporto aggiuntivo non supererebbe le 6.600 cause, cui si sommano le circa 12.226 definizioni attese con l’organico ordinario. Una stima semplice ma significativa: il disposition time del tribunale veneziano, a giugno 2026, si attesterebbe a 854 giorni, ancora lontanissimo dai 334 previsti come obiettivo Pnrr per i tribunali di primo grado.

Le disparità e i dubbi

Le scelte del Csm sollevano più di una perplessità. Alcuni uffici con alti carichi e performance ancora critiche, come Santa Maria Capua Vetere o Messina, non hanno ricevuto rinforzi, mentre altre sedi più contenute – come Urbino o Forlì – sono state incluse. Discrepanze emergono anche nel confronto tra Catania e Napoli: tempi medi simili, ma solo la città partenopea ha ottenuto ben 67 applicazioni straordinarie.

Il ruolo della Cassazione

Resta infine il peso della Corte di Cassazione, che a marzo 2025 presentava un disposition time di 942 giorni, il più alto in assoluto, contro i 492 delle corti d’appello e i 467 dei tribunali. Senza un intervento incisivo sul giudizio di legittimità, anche gli sforzi di redistribuzione straordinaria dei magistrati rischiano di non bastare.


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Notifiche fiscali, la prova arriva dal tracciato informatico delle raccomandate

Milano – Una pagina di tracciamento online non basta, ma il tracciato informatico ufficiale di Poste Italiane sì. Con la sentenza n. 1305/25/2025, depositata il 19 maggio, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia ha chiarito che la notifica di un avviso di liquidazione può dirsi validamente perfezionata per compiuta giacenza quando l’ufficio produce il documento estratto dal sistema informatico postale, che descrive l’attività del portalettere e l’avvenuto deposito dell’avviso nella cassetta del destinatario.

Il caso

Un contribuente aveva impugnato una cartella di pagamento, sostenendo che l’atto presupposto – l’avviso di liquidazione – non fosse mai stato notificato. In primo grado il giudice gli aveva dato ragione, osservando che l’amministrazione si era limitata a produrre la stampa della tracciatura online della raccomandata, priva di valore probatorio perché non attestava l’inserimento dell’avviso di giacenza.

L’ufficio ha fatto appello, spiegando di avere effettuato la notifica con raccomandata ordinaria, con due tentativi di consegna andati a vuoto e con l’inserimento in cassetta degli avvisi di giacenza. A sostegno ha depositato il tracciato informatico dettagliato della spedizione, generato da Poste Italiane.

La decisione

I giudici di secondo grado hanno accolto l’appello. Hanno ricordato che, secondo giurisprudenza costante della Cassazione (tra cui ordinanza n. 37148/2021), la cartella di pagamento deve essere preceduta dall’avviso di liquidazione. La validità di quest’ultimo dipende quindi dall’esito della notifica.

Il collegio ha ritenuto sufficiente e idonea la prova prodotta in appello: il tracciato informatico non solo riporta il percorso della raccomandata, ma attesta in modo puntuale l’attività svolta dal portalettere, compreso il deposito dell’avviso nella cassetta postale. Tale documento è stato ritenuto ammissibile anche in fase di appello, ai sensi dell’articolo 58 del Dlgs 546/1992.


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Vigneti e uliveti, il nuovo bene rifugio dei grandi patrimoni

La finanza vacilla, la terra resiste. Nel 2025 cresce l’appeal dei vigneti e degli uliveti come nuovo bene rifugio per gli High Net Worth Individuals (Hnwi), i grandi investitori internazionali. Un trend che non riguarda solo l’Italia ma si estende a Francia, Spagna, Portogallo e Grecia, dove il mercato immobiliare agricolo di lusso è trainato da un mix di fattori: redditività stabile, incentivi fiscali, domanda globale di vino e olio premium e, soprattutto, uno stile di vita legato alla natura e alle tradizioni.

Toscana e Piemonte sul podio

Secondo l’ultima indagine di Knight Frank, in Italia il Barolo e il Brunello di Montalcino segnano un +5% sul 2024, mentre Bolgheri e Chianti Classico crescono del 3%. A livello europeo spiccano la Loira (+5%) e la Champagne (+2%), mentre Bordeaux (-4%) e Côtes du Rhône (-10%) mostrano segni di rallentamento.

La Toscana si conferma tra le mete più richieste, terza nella top 5 delle destinazioni extra urbane più ambite, seguita dal Piemonte. Accanto alla vocazione produttiva, queste regioni offrono anche un valore esperienziale fatto di agriturismo, ospitalità di lusso e produzioni biologiche, elementi che attraggono soprattutto investitori anglosassoni e nordamericani.

Prezzi da record e nuove strategie

I numeri parlano chiaro: un ettaro di vigna in Toscana o in Provenza può superare i 100mila euro, mentre in aree emergenti come l’Andalusia restano accessibili intorno ai 5mila euro. Le bottiglie dei marchi più prestigiosi oscillano tra i 30 e i 150 euro, mentre l’olio extra vergine premium tocca i 30 euro al litro, spinto dalla crescita della domanda internazionale.

Il fenomeno si lega anche al trend del “try before you buy”, sempre più diffuso: gli acquirenti testano una destinazione con l’affitto di una tenuta prima di investire nell’acquisto definitivo.

Tra incentivi e identità

Gli incentivi europei per l’agricoltura biologica e regimi fiscali agevolati sul capital gain agricolo rendono l’investimento ancora più interessante. Ma, oltre alla redditività, ciò che spinge i grandi patrimoni a puntare sul settore è la dimensione identitaria: una tenuta agricola come progetto di vita e di famiglia, capace di unire ritorni economici, sostenibilità e qualità della vita.


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Formazione obbligatoria: tre dimensioni da conoscere

Il regolamento europeo stabilisce di fatto un obbligo formativo per fornitori e utilizzatori di sistemi di AI. La formazione dovrà coprire tre aree fondamentali:

  • Tecnica: capire come funzionano gli algoritmi, riconoscere bias e limiti del machine learning.
  • Giuridica: conoscere le regole di AI Act, GDPR e normative nazionali, comprese le responsabilità per eventuali violazioni.
  • Etica: prevenire discriminazioni, garantire equità e tutelare la dignità delle persone.

Per i professionisti significa non accettare passivamente le soluzioni tecnologiche, ma valutarne criticamente l’impatto, documentando scelte e conseguenze.

Trasparenza verso clienti e utenti

Altro principio cardine dell’AI Act è la trasparenza. Chi sviluppa o fornisce sistemi di intelligenza artificiale deve spiegare in modo chiaro obiettivi, logiche di addestramento e rischi connessi. Gli studi professionali che adottano queste tecnologie devono a loro volta informare i clienti, rendendoli consapevoli del modo in cui i loro dati vengono trattati.

Il Parlamento italiano, con il disegno di legge sull’intelligenza artificiale in discussione, introduce un ulteriore passo: l’obbligo di informativa preventiva al cliente sull’uso di strumenti di AI. Un vincolo che si affianca alla necessità di mantenere un rapporto fiduciario basato sulla massima chiarezza.

La responsabilità non si delega al fornitore

L’utilizzo di piattaforme sviluppate da terzi non solleva gli studi dalle proprie responsabilità. Al contrario, la fase pre-contrattuale diventa cruciale: bisogna analizzare documentazione tecnica e contrattuale, verificare il livello di rischio del sistema (minimo, limitato, alto o inaccettabile), controllare le misure di cybersecurity adottate e chiedere al fornitore test documentati su bias e discriminazioni.

La conformità al GDPR è un altro tassello obbligato: serve valutare se il trattamento dei dati è lecito, effettuare una DPIA (valutazione d’impatto sulla protezione dei dati) quando necessario e verificare che l’anonimizzazione sia reale e dimostrabile.


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