Un cratere da oltre 6 milioni di euro nei conti della Società di servizi CGIL Sicilia srl, l’ente che gestiva i CAF del sindacato nell’isola, oggi dichiarato fallito dal Tribunale di Catania.
È questa la notizia che scuote il mondo sindacale e imbarazza il segretario generale Maurizio Landini.
La società, partecipata dalla CGIL siciliana e dalle Camere del lavoro territoriali, avrebbe accumulato negli anni debiti milionari, tra cui 3,3 milioni di contributi previdenziali non versati, imposte e tributi lasciati in sospeso, oltre a crediti di dipendenti rimasti senza retribuzioni regolari – in alcuni casi costretti a lavorare in nero per mesi.
La vicenda, ricostruita nella trasmissione Lo Stato delle Cose di Massimo Giletti, mette in luce una gestione perlomeno disinvolta di risorse che, per definizione, dovrebbero essere destinate ai lavoratori e ai servizi di tutela fiscale e previdenziale.
Un caso emblematico di come, nel tempo, una parte del sindacato sia diventata una macchina complessa e pesante, capace di muovere milioni, ma non sempre in modo trasparente.
Dal crollo della srl siciliana a una domanda più ampia: che cosa è diventato il sindacato?
L’episodio di Catania non è solo una notizia contabile: è il simbolo di un cambiamento profondo.
Perché se un tempo il sindacato viveva della fiducia diretta dei lavoratori, oggi si trova spesso in mezzo a ingranaggi burocratici, poteri interni e strutture gigantesche che difficilmente ricordano l’immediatezza e la purezza delle lotte del Novecento.
Un tempo si andava casa per casa a riscuotere la quota associativa. Chi non aveva soldi, offriva ciò che poteva: un paniere di uova, un sacchetto di verdure. Il sindacalista guadagnava poco più di un operaio e viveva la stessa vita di chi rappresentava.
Era un ruolo onorato, quasi un servizio civile spontaneo. Era la stagione in cui l’Italia sembrava una scena in bianco e nero di Guareschi, con Don Camillo e Peppone che si affrontavano sulle idee, non sui budget.
Il racconto di un declino: “Fottitutto” di Salvatore Livorno
Proprio da questo contrasto tra passato e presente nasce Fottitutto, il libro-denuncia di Salvatore Livorno (libro del 2020 edito da Spazio Cultura), che analizza il lato oscuro del sindacato contemporaneo. Livorno racconta cene faraoniche, rimborsi gonfiati, telefoni di lusso, auto di rappresentanza. E dall’altro lato, migliaia di sindacalisti autentici – quelli veri – che ogni giorno corrono tra fabbriche, cantieri, ospedali, senza riflettori. Sono loro, scrive l’autore, a pagare il prezzo dei vertici distanti, dei carrozzoni interni, delle strutture che hanno progressivamente sostituito la militanza con la gestione di potere. Il messaggio di Livorno è semplice: il sindacato serve ancora, forse più di ieri. Ma non così.
Chi paga chi? Una macchina economica che i lavoratori conoscono poco
La vicenda della CGIL siciliana riporta al centro un tema che raramente viene affrontato apertamente: da dove arrivano davvero i soldi che tengono in piedi il sindacato?
Nel tempo si è formato un sistema articolato, spesso poco comprensibile per gli stessi lavoratori che lo finanziano. Una parte dei sindacalisti continua a percepire lo stipendio dal proprio datore di lavoro tramite il meccanismo dei distacchi retribuiti: lavorano per il sindacato, ma vengono pagati dall’azienda o dall’amministrazione pubblica, un paradosso che solleva più di un interrogativo sull’autonomia reale delle organizzazioni.
Accanto a loro ci sono coloro che operano in aspettativa sindacale ex Legge 300, retribuiti direttamente dal sindacato grazie alle quote associative che confluiscono attraverso la cosiddetta canalizzazione.
Infine, esiste un’ampia rete di persone assunte direttamente dalle strutture sindacali, impiegate nei patronati, nei CAF, negli sportelli e nei numerosi servizi che fanno da ossatura economica all’organizzazione. Una macchina complessa, fatta di molte professionalità e di flussi finanziari imponenti, che non sempre vengono comunicati o rendicontati con la trasparenza che ci si aspetterebbe da chi, per missione, tutela i diritti dei lavoratori.
Serve un ritorno alle origini: fare giustizia insieme
Il caso siciliano, il libro di Livorno, la distanza crescente tra vertici e base pongono una domanda fondamentale: il sindacato di oggi rappresenta davvero i lavoratori?
Per molti, la risposta è: non abbastanza. Eppure proprio ora, in una stagione di inflazione, precarietà e salari fermi da trent’anni, servirebbe più che mai un sindacato forte, autorevole, capace di difendere chi non ha voce.
Un sindacato che torni al significato etimologico della parola: syn-dikein: fare giustizia insieme. Non un carrozzone di potere, ma una casa dei lavoratori.
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