Piccole? Solo di nome: le Pmi italiane battono l’Europa (e superano anche i tedeschi)

Confrontate con le attività economiche appartenenti alla medesima classe dimensionale per numero di addetti, le Pmi[1] italiane si distinguono positivamente e si affermano come leader all’interno del contesto europeo. Analizzando parametri quali il numero di imprese, l’occupazione generata, il fatturato e il valore aggiunto prodotto, le aziende italiane con meno di 250 dipendenti risultano prevalere in tutte le categorie. Particolarmente significativo è il dato relativo al livello di produttività[2], che supera quello delle imprese tedesche, riconosciute da sempre come le migliori nel settore manifatturiero europeo. A segnalarlo è l’Ufficio studi della CGIA.

In Italia tante Pmi

Gli ultimi dati disponibili[3] ci dicono che le Pmi italiane sono poco più di 4,7 milioni, pari al 99,9 per cento del totale e danno lavoro a 14,2 milioni di addetti, vale a dire il 76,4 per cento del totale nazionale. Il confronto con le grandi imprese[4] mette in evidenza l’ ”inconsistenza” numerica di queste ultime. Sempre nello stesso anno, le aziende di grandi dimensioni ammontano a 4.619 (lo 0,1 per cento del totale), ma occupano oltre 4,4 milioni di addetti (il 23,6 per cento del totale). In termini di fatturato, invece, le Pmi generano il 64 per cento del totale nazionale e circa la stessa quota di valore aggiunto (65 per cento). Per contro, le grandi imprese fatturano “solo” il 36 per cento del dato nazionale e il 35 per cento del valore aggiunto.

Leader in UE

Quando il confronto si sposta su scala europea, le performance delle nostre Pmi sono le migliori. Se a livello numerico la quota è in linea con quella dei principali Paesi competitor, il contributo in termini occupazionali e di valore aggiunto (Pil) delle nostre realtà è nettamente superiore. Se focalizziamo la comparazione solo con la Germania, le nostre Pmi danno lavoro al 74,6 per cento degli addetti totali, contro il 55,2 delle pari categoria tedesche. In termini di fatturato le Pmi italiane ne producono il 62,9 per cento del totale, contro il 35,8 dei tedeschi. Infine, in termini di valore aggiunto, il contributo delle nostre Pmi è del 61,7 per cento del totale, quello delle concorrenti tedesche è del 46 per cento. Insomma, a grandi linee abbiamo la stessa quota di Pmi dei nostri principali competitor europei, ma loro possono contare su grandi imprese di dimensioni e con risultati economici che noi non abbiamo.

Siamo più produttivi dei tedeschi

Le Pmi italiane in senso stretto (10-249 addetti) sono addirittura più produttive[5] di quelle tedesche di 4.229 euro per occupato (+6,6 per cento). Purtroppo, scontiamo un forte gap di produttività nei confronti di Berlino nelle micro attività (0-9 addetti) del 33 per cento. Come noto, la produttività dipende direttamente dalla dimensione aziendale e quindi, al crescere del numero degli occupati si verificano importi di valore aggiunto per addetto crescenti. Pertanto, se fossimo in grado di investire di più in innovazione, in ricerca e in sviluppo anche nelle realtà produttive con meno di 10 addetti, il sorpasso nei confronti dei tedeschi sarebbe completo su tutta la classe dimensionale tra 0 e 250 addetti. Va altresì ricordato che, in linea generale, il nostro sistema economico presenta un ottimo livello di produttività nel settore manifatturiero, ma sconta ancora dei grossi ritardi nei servizi e nel terziario.

Non abbiamo più le grandi imprese

Nonostante le nostre PMI rappresentino un punto di riferimento in Europa, il sistema produttivo italiano registra ancora numerose criticità. Spesso queste imprese risultano sottocapitalizzate e con limitata liquidità, incontrando difficoltà nell’accesso al mercato dei capitali e mostrando scarsa propensione a instaurare collaborazioni con il mondo della ricerca e dell’università. Tuttavia, riteniamo che la problematica più rilevante che affligge l’intero sistema produttivo nazionale sia la carenza di grandi aziende, una situazione sconosciuta fino a circa quarant’anni fa. Sino alla prima metà degli anni ’80 del secolo scorso, infatti, l’Italia si posizionava tra i leader europei e talvolta mondiali nei settori della chimica, della plastica, della gomma, della siderurgia, dell’alluminio, dell’informatica, dell’auto e della farmaceutica[6], grazie al ruolo e al peso giocato da molte grandi imprese sia pubbliche che private (Montedison, Montefibre, Moplen, Pirelli, Fiat, Italsider, Alumix, Olivetti, Stet, Angelini, etc.). Oggi, a distanza di quattro decenni, abbiamo perso terreno e leadership in quasi tutti questi comparti; un declino non imputabile al caso o a eventi fortuiti, ma riconducibile a una selezione naturale operata dal mercato. È indiscutibile che lo scandalo di Tangentopoli abbia rappresentato un significativo punto di svolta; inoltre, gli effetti geo-politici derivanti dalla caduta del Muro di Berlino, dalle privatizzazioni avvenute nel nostro Paese nei primi anni ’90 e dalla globalizzazione “scoppiata” all’inizio di questo secolo, hanno contribuito a escludere dal mercato o a determinare profonde ristrutturazioni tutte le grandi aziende menzionate precedentemente, molte delle quali erano controllate dallo Stato.

E’ grazie alle Pmi che siamo nel G20

Ogni qual volta si critica il nostro Paese per i bassi livelli retributivi, la scarsa produttività, la poca propensione alla ricerca e all’innovazione, la responsabilità ricade sul fatto che in Italia abbiamo troppe Pmi. In realtà, le cose stanno diversamente. A nostro avviso, i punti di debolezza appena richiamati sono in larga parte ascrivibili a una specificità che i nostri competitor non presentano. In Italia non abbiamo le grandi imprese. O meglio, non le abbiamo più, visto che fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso potevamo contare su dei player che nei rispettivi settori produttivi in cui operavano, giocavano alla pari con i migliori concorrenti di tutto il mondo. Ora, se siamo ancora nel G20, ovvero nel forum dei paesi più industrializzati del mondo, lo dobbiamo all’efficienza della nostra Pubblica Amministrazione, alle pochissime grandi imprese rimaste o allo straordinario lavoro svolto dalle nostre Pmi? Crediamo che nessuno possa contraddirci: lo dobbiamo ai tantissimi piccoli e piccolissimi imprenditori e alle loro maestranze che grazie alla capacità di combinare qualità, buon gusto, artigianalità e design, realizzano dei prodotti che sono caratterizzati da una forte identità che evoca emozioni e fiducia nei consumatori di tutto il mondo.

Nel Sud le Pmi sono uno straordinario serbatoio occupazionale

Come abbiamo avuto modo di segnalare all’inizio di questa analisi, le nostre Pmi sono uno straordinario serbatoio occupazionale, in particolar modo nel Mezzogiorno che è la ripartizione geografica del Paese che, a differenza delle altre, dispone di poche grandi imprese, quasi nessuna multinazionale e un numero contenutissimo di grandi banche e di assicurazioni. Ebbene, sul totale occupati di ciascuna provincia[7], a Vibo Valentia l’incidenza di coloro che lavorano nelle micro e Pmi è al 100 per cento. Seguono Isernia con il 98,5, Trapani e Agrigento entrambe con il 98,3, Campobasso con il 98,2, Cosenza e Verbanio-Cusio-Ossola con il 98. Le realtà dove l’incidenza sul totale occupati per provincia sono più contenute riguardano Torino, dove le MPmi danno lavoro “solo” al 63,9 per cento dei dipendenti, Roma con il 63,5 e, infine, Milano con il 51.

[1] La raccomandazione 2003/361 della Commissione definisce come Piccole e medie imprese (Pmi) le aziende che hanno fino a 250 dipendenti, un fatturato fino a 50 milioni di euro e un totale di bilancio fino a 43 milioni di euro.

[2] Delle Pmi in senso stretto (10-249 addetti). 

[3] Anno 2023. 

[4] Impresa con 250 o più effettivi oppure ogni impresa, anche con meno di 250 effettivi, con un fatturato superiore a 50 milioni di euro e un bilancio superiore ai 43 milioni di euro.

[5] Valore aggiunto per occupato, in euro.

[6] Oggi, in parte, in questo settore manteniamo ancora una leadership importante

[7] Questi dati non includono il settore dell’agricoltura e della Pubblica Amministrazione


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Da sorvegliato speciale a promossa: la rivincita del debito italiano

Un annuncio arrivato in tarda serata ha scosso il panorama finanziario internazionale: Moody’s ha rivisto al rialzo il giudizio sul debito pubblico italiano, portandolo a Baa2 e mantenendo outlook stabile. Una decisione che va oltre la routine degli aggiornamenti tecnici: l’Italia non riceveva un upgrade dall’agenzia statunitense dal lontano 2002.

Proprio questa lunga attesa dà alla promozione un valore quasi simbolico. Per Moody’s, storicamente cauta nell’applicare miglioramenti ravvicinati, si tratta di una scelta controcorrente: l’agenzia aveva già rivisto al rialzo l’outlook pochi mesi fa, a maggio, e raramente interviene due volte nello stesso arco temporale.


Segnale di fiducia verso i conti pubblici

Alla base della decisione c’è soprattutto la traiettoria dei bilanci italiani. Il rientro del deficit sotto il 3% e il recupero dell’avanzo primario hanno convinto l’agenzia che il Paese stia consolidando una linea di disciplina fiscale.

Secondo Moody’s, il percorso intrapreso dal Governo — pur tra margini limitati e trattative politiche serrate sulla manovra — ha rafforzato l’affidabilità dell’Italia verso gli investitori.

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha commentato a caldo:
«È un risultato che mancava da 23 anni. Una conferma della fiducia ritrovata verso il Paese».


BTp: un anno di rialzi senza precedenti

Con la promozione, i titoli italiani abbandonano l’ultima posizione borderline nella scala di Moody’s, che li collocava appena sopra il livello “non investment grade”.

Il 2025 diventa così un anno da ricordare: sette aggiornamenti positivi da parte delle principali agenzie internazionali, un record assoluto per il nostro Paese.


Mercati in chiaroscuro: vola il rating, crollano le Borse

La buona notizia sul fronte dei conti pubblici arriva però al termine di una settimana pesante per i mercati globali.
▪️ Wall Street ha registrato la peggior performance dell’anno dopo quella legata alla crisi dei dazi di aprile.
▪️ Il Nasdaq ha perso il 3%, l’S&P 500 il 2%.
▪️ In Europa il Ftse Mib ha ceduto il 3% e l’Eurostoxx 50 il 2,5%.
▪️ Le criptovalute hanno accentuato il ribasso: Bitcoin -10%, peggior settimana dal 2022.

Una parziale inversione di rotta è arrivata solo nelle ultime ore, grazie alle parole del governatore della Federal Reserve di New York, John Williams, che ha riaperto la porta a un nuovo taglio dei tassi già a dicembre.


Italia promossa, mercati in tempesta

La promozione di Moody’s non risolve le fragilità strutturali dei mercati, ma restituisce all’Italia un margine di credibilità internazionale che mancava da tempo.

Un risultato che, nelle intenzioni del Governo, dovrebbe essere il primo mattoncino per ricostruire una posizione più solida sui mercati globali — proprio mentre la finanza mondiale attraversa uno dei momenti più turbolenti dell’anno.


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La prima mappa UE dei rischi sistemici online: minori, IA e contenuti illegali al centro dell’allerta

Le autorità di regolamentazione europee che applicano il regolamento sui servizi digitali hanno pubblicato la prima relazione globale sul panorama dei rischi rilevanti e ricorrenti che si corrono sulle piattaforme online e sui motori di ricerca di dimensioni molto grandi nell’Unione europea.

La relazione individua rischi sistemici, quali, fra gli altri, la diffusione di contenuti illegali o minacce ai diritti fondamentali, in cui si può incorrere sulle piattaforme online di dimensioni molto grandi, e presenta una prima panoramica delle misure di mitigazione adottate dalle piattaforme stesse sulla base degli obblighi di trasparenza loro imposti dal regolamento UE sui servizi digitali.

Le principali risultanze della relazione riguardano i rischi per la salute mentale e la protezione dei minori online; l’impatto delle tecnologie emergenti, come l’IA generativa, sulle piattaforme online; e le problematiche attinenti alla protezione della proprietà intellettuale sui mercati online. Tra più significative misure di mitigazione messe in rilievo figura ad esempio il ricorso a sistemi automatizzati per rilevare le emoji utilizzate come codice per attività illegali online, quali la vendita di droghe illegali.

La relazione congiunta del comitato europeo per i servizi digitali e della Commissione si basa sulle relazioni in materia di valutazione dei rischiaudit e trasparenza redatte dalle piattaforme stesse, nonché su ricerche indipendenti riguardo a determinati rischi e su diversi contributi provenienti dalla società civile.

Si tratta della prima relazione pubblicata nel quadro di un ciclo annuale di relazioni sul panorama dei rischi. Le edizioni future approfondiranno anche le migliori pratiche delle piattaforme, man mano che saranno disponibili più dati sull’efficacia delle strategie di attenuazione dei rischi, anche attraverso la ricerca resa possibile dall’atto delegato sull’accesso ai dati. Nel corso degli anni, ciò permetterà di ottenere una prospettiva a lungo termine sui rischi sistemici più importanti e ricorrenti in Europa.

La relazione rappresenta un punto di riferimento per comprendere i rischi sistemici causati nell’UE da piattaforme online di dimensioni molto grandi e motori di ricerca online di dimensioni molto grandi e costituirà, d’ora in avanti, uno strumento fondamentale per la trasparenza e la responsabilità, contribuendo in ultima analisi a un ambiente online più sicuro e affidabile.


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Giustizia digitale 2030: la Commissione UE lancia la strategia per modernizzare tribunali e professioni legali

Oggi la Commissione europea ha presentato il pacchetto sulla giustizia digitale 2030, un’iniziativa volta a modernizzare i sistemi giudiziari in tutta l’UE e a garantire che i professionisti della giustizia siano dotati di strumenti adatti all’era digitale: una vera e propria tabella di marcia strategica, mirata ad accelerare la digitalizzazione dei sistemi giudiziari in tutta l’UE, responsabilizzando i cittadini, le imprese e i professionisti della giustizia attraverso l’innovazione e la collaborazione transfrontaliera.

Il pacchetto sulla giustizia digitale comprende la strategia “DigitalJustice@2030 Strategy” e la strategia per la formazione giudiziaria europea 2025-2030. Insieme, queste due strategie orienteranno la trasformazione digitale dei sistemi giudiziari, sfruttando tecnologie all’avanguardia come l’intelligenza artificiale per migliorare l’efficienza, ridurre i costi e migliorare l’accesso alla giustizia per tutti.

Henna Virkkunen, Vicepresidente esecutiva per la Sovranità tecnologica, la sicurezza e la democrazia, ha dichiarato: “La digitalizzazione e l’intelligenza artificiale stanno trasformando le nostre società, e il sistema giudiziario non fa eccezione. Grazie al pacchetto sulla giustizia digitale 2030 stiamo modernizzando i sistemi giudiziari europei, contribuendo alla competitività della nostra economia e garantendo allo stesso tempo che la tecnologia sia sempre al servizio delle persone, preservando una giustizia aperta, accessibile e incentrata sui nostri valori.”

Michael McGrath, Commissario per la Democrazia, la giustizia, lo Stato di diritto e la protezione dei consumatori, ha dichiarato: “Con questo pacchetto aiutiamo gli Stati membri a compiere un passo sicuro verso l’era digitale, garantendo che i nostri sistemi giudiziari diventino più rapidi, accessibili ed efficienti. Non si tratta solo di un investimento nella giustizia, ma anche nella competitività dell’Europa. La nuova strategia di formazione giudiziaria fornirà a giudici, pubblici ministeri e professionisti legali le competenze digitali e in materia di IA necessarie per utilizzare efficacemente la tecnologia. Abbracciando l’innovazione, stiamo costruendo un sistema giudiziario preparato alle sfide di domani, equo, moderno e saldamente ancorato ai nostri valori democratici.


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Luigi Bartolomeo Terzo è il nuovo presidente AIGA: al via il biennio delle sfide digitali e dell’internazionalizzazione

Luigi Bartolomeo Terzo è il nuovo presidente dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati per il biennio 2025-2027. L’elezione è avvenuta a Bergamo, in occasione del 28° Congresso nazionale AIGA, dove l’assemblea ha scelto il giovane penalista campano come guida per i prossimi due anni.

Nato nel 1983, Terzo ha una lunga esperienza all’interno dell’associazione: già presidente della sezione di Santa Maria Capua Vetere, coordinatore regionale della Campania, componente di giunta e coordinatore dell’Area Sud. Succede a Carlo Foglieni e si occupa principalmente di diritto penale e diritto penitenziario.

“Sarà un biennio di grandi sfide per la giovane avvocatura – ha dichiarato Terzo subito dopo l’elezione –. AIGA dovrà essere capofila di un percorso condiviso, dinamico e coraggioso, fondato sull’ascolto costante del territorio e sul sostegno reciproco tra tutte le sezioni”.

Al centro del suo programma, una visione ampia e moderna della professione: “La giovane avvocatura ha bisogno di uno sguardo che sappia affrontare le nuove sfide tecnologiche, valorizzare la categoria e rilanciare la professione attraverso strumenti di welfare e innovazione digitale” ha aggiunto.

Una particolare attenzione sarà rivolta anche al contesto internazionale: “Guarderemo oltre i confini nazionali – ha spiegato Terzo – per aprirci maggiormente all’internazionalizzazione, allo sviluppo di nuovi mercati e a una collaborazione stabile con le altre associazioni forensi europee”.

Il nuovo presidente ha concluso ringraziando la sua squadra e gli amici che lo hanno accompagnato nel suo percorso associativo: “Questo risultato è frutto di un cammino condiviso che intendo portare avanti con responsabilità e apertura”.

Con la sua elezione, AIGA si prepara dunque ad affrontare un biennio decisivo, tra digitalizzazione, nuove competenze professionali e rafforzamento del ruolo della giovane avvocatura nel panorama forense italiano ed europeo.


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Bruxelles indaga Google: possibile penalizzazione degli editori nei risultati di ricerca

La Commissione europea ha formalmente avviato procedimenti per valutare se Google applichi condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie di accesso ai siti web degli editori su Google Search, un obbligo previsto dal regolamento sui mercati digitali.

Il lavoro di monitoraggio della Commissione ha mostrato segnali che Google, sulla base della sua “politica di abuso della reputazione dei siti”, sta declassando i siti web dei mezzi di informazione e di altri editori e i contenuti dei risultati di ricerca di Google quando tali siti includono contenuti provenienti da partner commerciali. Secondo Google, tale politica mira a contrastare le pratiche presumibilmente intese a manipolare la classificazione nei risultati di ricerca.

L’indagine della Commissione si concentra specificamente sulla politica di Google in materia di “abuso della reputazione dei siti” e sul modo in cui tale politica si applica agli editori. Questa politica sembra avere un impatto diretto su una pratica comune e legittima che permette agli editori di monetizzare i loro siti web e i loro contenuti.


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Patrimoniali: esistono già e in 20 anni sono cresciute del 74%

Mentre la politica continua a dividersi tra patrimoniale sì e patrimoniale no, l’Ufficio studi della CGIA ricorda che in Italia le imposte che gravano sulla ricchezza esistono già. Nel 2024, ad esempio, hanno garantito all’erario 51,2 miliardi di euro e negli ultimi 20 anni, periodo in cui nel nostro Paese hanno governato a più riprese tutti gli schieramenti politici e la quasi totalità dei partiti, il gettito è addirittura cresciuto del 74 per cento.

L’IMU è la più pesante

Come dicevamo, nel 2024 il gettito delle patrimoniali applicate in Italia ha garantito all’erario 51,2 miliardi di euro. La voce che pesa di più sulle nostre tasche è l’Imposta Municipale Unica (IMU) che viene applicata sulle prime case di lusso, sulle seconde/terze case, sui capannoni, sugli uffici, i negozi e i terreni fabbricabili. L’anno scorso il prelievo è stato pari a 23 miliardi di euro[1]. Un importo che costituisce il 45 per cento del gettito totale delle patrimoniali applicate nel nostro Paese. Seguono l’imposta di bollo che grava obbligatoriamente sui conti correnti, sui conti di deposito, sulle fatture, sulle ricevute, etc., che ha consentito allo Stato di incassare 8,9 miliardi. Il bollo auto, tassa di possesso applicata dalle regioni, è costato agli italiani 7,5 miliardi, mentre l’imposta di registro che paghiamo quando effettuiamo una compravendita immobiliare o quando stipuliamo un contratto di affitto ci è costata 6,1 miliardi di euro.

Con il governo Meloni pressione fiscale in aumento? Per le famiglie no

Nel Documento programmatico di finanza pubblica 2025[2], quest’anno la pressione fiscale[3] è prevista al 42,8 per cento; 0,3 punti in più del dato registrato nel 2024 e di 1,1 punti sopra il dato 2022, anno che “precede” l’arrivo a Palazzo Chigi della Presidente Meloni[4]. Questo vuol dire che con l’esecutivo di centro-destra il carico fiscale sulle famiglie è aumentato? In realtà no. Se la pressione fiscale è in crescita, in parte è attribuibile al fatto che il taglio del cuneo fiscale sul reddito da lavoro dipendente non è solo costituito dalla riduzione dell’Irpef (tramite l’accorpamento dei primi due scaglioni Irpef e dall’introduzione di un’ulteriore detrazione per i redditi da 20mila a 40mila euro), ma anche da un “bonus” a favore dei lavoratori dipendenti con un reddito sino a 20mila euro. Pertanto, a fronte di un taglio complessivo di 18 miliardi di euro, quasi 4,5 miliardi sono imputati contabilmente come un incremento della spesa pubblica (“bonus”). Di conseguenza, se per i lavoratori dipendenti con retribuzioni basse la busta paga è diventata più pesante, per il bilancio dello Stato una parte di questa contrazione delle tasse viene contabilizzata come un aumento delle uscite. A seguito di questa “decisione”, almeno 0,2 punti percentuali non hanno abbassato la pressione fiscale totale. E gli altri 0,9 punti in più che sono aumentati tra il 2022 e il 2025 ? Ricordiamo che in questi ultimi anni il gettito fiscale del nostro Paese è salito anche a seguito dell’aumento degli occupati[5] e dai molti rinnovi contrattuali firmati negli ultimi due anni che hanno incrementato le retribuzioni di molte categorie[6] e, conseguentemente, anche il gettito tributario e contributivo. Infine, non dobbiamo dimenticare che ad aver dato una spinta all’inasprimento statistico del carico fiscale complessivo hanno concorso sia la sospensione della possibilità di dedurre alcuni particolari categorie di costi (quote di svalutazione crediti e quote di avviamento), sia l’abrogazione dell’ACE (Aiuto alla Crescita Economica). Provvedimenti, questi ultimi, che hanno interessato solo le società di capitali (Srl e Spa). Ricordiamo che in termini assoluti queste ultime sono 1,5 milioni e costituiscono il 35 per cento del totale delle imprese presenti in Italia.

Propensione all’evasione al top in Calabria, Puglia e Campania

Secondo gli ultimi dati resi noti nei giorni scorsi dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel 2022 l’evasione fiscale in Italia ammontava a 102,5 miliardi di euro. Grazie alla disponibilità dei dati relativi all’economia non osservata presente in ciascuna regione che sono rapportabili al valore aggiunto prodotto nella stessa, la CGIA è riuscita a “distribuire” territorialmente il mancato gettito potenziale. Ebbene, se calcoliamo la propensione all’evasione (vale a dire quanto evade la popolazione/imprese presenti in una determinata area geografica in rapporto alla ricchezza prodotta), in Calabria è al 20,9 per cento (3,1 miliardi di evasione), in Puglia al 18,9 per cento (6,8 miliardi di mancato gettito) e in Campania del 18,5 per cento (9,4 miliardi evasi). Le regioni meno coinvolte, invece, sono la Provincia Autonoma di Trento che presenta un tasso del 9,7, la Lombardia dell’ 8,8 e la Provincia Autonoma di Bolzano che registra l’incidenza più contenuta d’Italia, pari all’8,4. Se, invece, osserviamo la graduatoria dell’evasione in termini assoluti, sono ovviamente le regioni più ricche e popolate a occupare le prime posizioni. Infatti, al primo posto troviamo la Lombardia con un mancato gettito pari a 16,7 miliardi di euro. Seguono il Lazio con 11,4 miliardi, la Campania con 9,4, Veneto ed Emilia Romagna entrambe con 7,8 miliardi.

Mentre c’è ancora qualcuno che chiede di introdurre una patrimoniale sui ricchi, dimenticandosi del clamoroso flop conseguito in passato con l’applicazione della supertassa sugli yacht, forse sarebbe il caso di recuperare le risorse necessarie per finanziare la scuola, la sanità e il sociale contrastando seriamente l’evasione fiscale, in particolare nelle aree del Paese dove la propensione è più diffusa e razionalizzando la spesa pubblica, attraverso il taglio degli sprechi, degli sperperi e delle inefficienze.

[1] La quasi totalità del gettito finisce nelle casse dei Comuni

[2] Deliberato dal Consiglio dei Ministri il 2 ottobre 2025.

[3] Data dal rapporto tra le entrate fiscali (tributarie più contributive) e il Pil.

[4] In realtà il governo Meloni è entrato in carica il 22 ottobre 2022. E’ ovvio che le misure che sono state approvate negli ultimi due mesi di quell’anno hanno prodotto gli effetti nell’anno successivo.

[5] Tra la fine del 2022 e l’agosto 2025 la platea dei lavoratori italiani è aumentata di un milione di unità.

[6] Tra i principali Ccnl rinnovati ricordiamo quello del commercio, del terziario di mercato, del credito, delle calzature, degli studi professionali, dell’energia/petrolio, etc. 


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Giustizia, si riapre il cantiere Cartabia: verso il ritorno dell’oralità nelle aule

Rimettere la parola al centro del processo. È questo il cuore della richiesta avanzata dal presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, al ministro della Giustizia Carlo Nordio durante il Congresso nazionale forense dello scorso ottobre. Una sollecitazione che il Guardasigilli ha accolto con prudente disponibilità: «Dopo il referendum interverremo, l’obiettivo è farlo entro la fine della legislatura», ha assicurato alla platea degli avvocati. Una direzione confermata anche nell’intervista rilasciata al Sole 24 Ore il 14 novembre.

L’oggetto del dibattito è l’impianto introdotto con le riforme Cartabia (decreti legislativi 149 e 150 del 2022), che hanno reso strutturali molte procedure nate in piena emergenza pandemica, privilegiando il modello cartolare rispetto alla discussione in udienza. Un passaggio epocale che ora, a distanza di due anni, viene rimesso in discussione.

Greco stesso ha invitato a muoversi con cautela, ricordando che ogni intervento dovrà attendere il completamento del periodo di monitoraggio previsto dal PNRR, la cui scadenza è fissata per il 30 giugno 2026. Ma il Parlamento non è rimasto fermo: al Senato sono già depositate due proposte di legge che puntano a ripristinare il principio di oralità, una per il processo civile (atto 1502, prima firmataria Erika Stefani – Lega) e una per l’appello penale (atto 1217, primo firmatario Pierantonio Zanettin – Forza Italia).

L’appello penale: invertire la logica del cartolare

La proposta n. 1217, presentata nell’agosto 2024 e già avviata in Commissione Giustizia, interviene sull’articolo 598-bis del Codice di procedura penale. Oggi la regola vuole che la Corte d’appello decida in camera di consiglio senza le parti, salvo richiesta dell’imputato o del difensore o salvo decisione autonoma della Corte stessa. Il testo proposto rovescia l’impostazione: la discussione orale tornerebbe la modalità ordinaria, mentre la rinuncia dovrebbe provenire dall’imputato, personalmente o tramite procuratore speciale. La scelta consapevole, dunque, diventerebbe il presupposto per escludere il contraddittorio in aula.

L’esame della proposta è stato sospeso a maggio, su richiesta del Governo, per evitare possibili interferenze con gli obiettivi del PNRR.

Il processo civile: limitare la “trattazione scritta”

Sul fronte civile, il disegno di legge 1502 mira a rimettere mano all’articolo 127-ter del Codice di procedura civile, introdotto dalla riforma Cartabia per consentire la sostituzione delle udienze con lo scambio di note scritte. Attualmente, se presenti determinate condizioni, l’udienza può essere evitata anche quando è già stata fissata. La proposta restringe l’utilizzo della modalità cartolare: potrà essere scelta solo se richiesta congiuntamente da tutte le parti costituite. Una modifica che, secondo la relazione, non snatura la flessibilità del modello, ma restituisce centralità al confronto diretto nelle controversie che lo richiedono.

Tra PNRR e intelligenza artificiale: un passaggio culturale

Per Pierantonio Zanettin, firmatario delle due proposte, il ritorno all’oralità non è solo una correzione tecnica, ma una risposta necessaria anche all’evoluzione tecnologica: «Con l’intelligenza artificiale che avanza – osserva – il dialogo critico davanti al giudice è essenziale per preservare il ruolo dell’avvocato e valorizzare il contributo umano». Il rischio, sostiene, è che un processo eccessivamente cartolare appiattisca la dialettica, trasformando il giudizio in una sequenza di atti scritti standardizzabili.


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Quando la voce inganna: riconoscere le frodi telefoniche e difendere i propri dati

Negli ultimi anni la truffa telefonica ha smesso di essere un fenomeno marginale: è diventata un’industria della frode che lavora combinando telefono, sms, email e app di messaggistica. Secondo rilevazioni recenti, quasi 3,9 milioni di italiani hanno subìto una truffa o un tentativo di frode legato alla telefonia, per un danno medio stimato tra 124 e 157 euro a vittima e un impatto complessivo di circa 628 milioni di euro.

Ma come operano i truffatori oggi, e soprattutto: come ci si difende?

Le tecniche più usate (e perché ingannano)

I raggiri si rinnovano costantemente ma seguono alcuni schemi collaudati:

  • Finti operatori e call center contraffatti. L’interlocutore si presenta come consulente dell’operatore telefonico, della banca o del fornitore di energia e chiede dati (iban, codice di migrazione, codici di sicurezza) fingendo urgenza tecnica o amministrativa. Lo spoofing rende il numero sul display identico a quello di un ente reale, aumentando l’affidabilità apparente della chiamata.
  • Smishing e link malevoli. Messaggi con link che portano a pagine false per carpire credenziali o inducere installazioni dannose. Negli ultimi tempi gli SMS e le chat (WhatsApp, Telegram) sono diventati vettori privilegiati.
  • Chiamate “mancate” per indurre a richiamare. Un numero sconosciuto chiama e abbandona la linea: chi richiama spesso finisce su servizi a sovrapprezzo.
  • Clonazione di account e truffe “da famiglia”. Account compromessi inviano messaggi ai contatti fingendosi la vittima, chiedendo denaro o favori urgenti con argomentazioni persuasive.
  • Incontri in casa dopo contatti telefonici. Finti consulenti che propongono visite domiciliari per risolvere (finti) problemi: in alcuni casi il raggiro sfocia in furti in abitazione.

Un elemento che spiega l’efficacia di questi raggiri è la combinazione di tecniche: voce convincente, riferimenti tecnici (bollette, normative), pressione sul tempo e l’uso di canali che ispirano fiducia (numero “ufficiale”, chat con foto e loghi).

Chi rischia di più

La truffa non fa distinzioni, ma alcuni gruppi sono più vulnerabili:

  • Anziani, per motivi di fiducia nella comunicazione orale e minor dimestichezza con verifiche online.
  • Persone poco informate sui meccanismi digitali, che possono non riconoscere segnali di allarme.
  • Utenti dei social e delle app di messaggistica, dove la familiarità e la rapidità d’uso abbassano la guardia.

Rilevante anche il dato sul sommerso: oltre la metà delle persone colpite (circa il 52%) non denuncia l’accaduto, spesso per vergogna o per timore di non essere credute.

Dieci regole pratiche per non farsi fregare

  1. Non fornire mai codici, conti o password a chi chiama: le aziende non li richiedono tramite telefonata.
  2. Non cliccare link sospetti: se un messaggio parla di una bolletta o di un pacco, apri direttamente il sito ufficiale tramite browser o l’app ufficiale.
  3. Verifica sempre il numero: usa i canali ufficiali dell’azienda per cercare il numero e chiamare tu; non fidarti del display.
  4. Diffida della fretta: urgenze e pressioni sono il trucco più usato per far sbagliare le persone.
  5. Controlla le impostazioni di sicurezza: proteggi account e numeri con l’autenticazione a due fattori (2FA).
  6. Segnala e denuncia: anche se imbarazzante, denunciare aiuta a bloccare i truffatori e a proteggere altri utenti.
  7. Non aprire allegati sconosciuti: possono contenere malware che compromette lo smartphone.
  8. Educa i più fragili: spiega a genitori e nonni come distinguere una comunicazione attendibile.
  9. Usa filtri e app anti-frode: molte app segnalano numeri segnalati da altri utenti.
  10. In caso di dubbio, interrompi la comunicazione e ricontatta l’ente usando i canali ufficiali.

L’efficacia delle frodi dimostra che la lotta non può essere lasciata solo al singolo cittadino. Servono campagne di informazione mirate, strumenti di blocco e blacklist aggiornate da parte degli operatori, e canali semplici per la segnalazione. Anche le imprese (in particolare gli operatori telefonici) hanno la responsabilità di migliorare la trasparenza dei processi di contatto con i clienti.


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Ransomware, hacktivism e furti di dati: il 2025 è l’anno nero della cybersicurezza

Un’azienda operativa oggi può trovarsi bloccata domani. In certi casi, bastano pochi secondi. Un messaggio sullo schermo, i file cifrati, le attività ferme e una richiesta di riscatto: «paga e riavrai i tuoi dati». È lo schema ormai classico del ransomware, la minaccia informatica che nel 2025 ha registrato un aumento vertiginoso in tutto il mondo.

I dati raccontano un fenomeno che non accenna a rallentare. Nel solo primo semestre del 2025 si sono verificati oltre 2.700 attacchi di rilievo globale, con una crescita del 36% rispetto all’anno precedente. In Italia, dove gli incidenti noti sono stati 280, l’aumento è del 13%: un valore che colloca il nostro Paese tra i più colpiti d’Europa, con oltre un decimo degli attacchi mondiali concentrati sul territorio nazionale.

Attacchi più gravi e più mirati

Non si tratta solo di quantità. Gli attacchi stanno diventando più complessi, più mirati e con effetti più duraturi. A livello globale, nel 2025 l’82% degli incidenti ha avuto un impatto “critico” o “elevato”.
In Italia il danno medio resta più contenuto, ma il numero di eventi cresce, e con esso il rischio di paralisi di interi sistemi aziendali e pubblici.

Le forme di minaccia si moltiplicano: oltre ai ransomware, emergono campagne di phishing evoluto, falsi CAPTCHA che nascondono malware e vishing, le telefonate fraudolente che imitano enti o colleghi per carpire informazioni.

Cybercrime e hacktivism: due facce della stessa minaccia

Gli attacchi a scopo di lucro – il cosiddetto cybercrime – restano la categoria più frequente. Ma il 2025 ha visto esplodere anche l’hacktivism, cioè le incursioni a sfondo politico o ideologico.
Nel nostro Paese oltre la metà degli attacchi ha avuto una motivazione “dimostrativa”, con azioni rivolte a istituzioni, enti pubblici e infrastrutture strategiche, spesso per generare attenzione mediatica o diffondere messaggi geopolitici.

I settori più colpiti

Nel panorama internazionale, i bersagli preferiti restano il settore pubblico e militare, seguito da sanità, manifattura, trasporti e servizi professionali.
In Italia, il 38% degli incidenti ha interessato enti governativi e forze dell’ordine, il 17% il comparto trasporti e logistica, e il 13% la manifattura, con un trend in forte crescita rispetto al 2024.

Il punto debole: le PMI

Le piccole e medie imprese continuano a essere l’anello più fragile. In molti casi non dispongono di sistemi di monitoraggio 24 ore su 24 e non hanno competenze interne in materia di sicurezza informatica.
Gli attacchi, spesso lanciati nei fine settimana o durante i ponti, riescono così a colpire con massima efficacia. Per questo gli esperti suggeriscono di esternalizzare i servizi di cybersecurity, affidandosi a operatori specializzati in grado di garantire protezione continua.

La consapevolezza come prima difesa

Dietro i numeri si nasconde una certezza: la sicurezza informatica non è più una scelta, ma una condizione di sopravvivenza aziendale.
Ogni impresa, grande o piccola, è ormai un potenziale bersaglio. Investire in formazione, aggiornamento e protezione non significa solo difendere i propri dati, ma proteggere il lavoro, le persone e la reputazione.


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