Pene concorrenti: la richiesta di pena sostitutiva non blocca l’esecuzione

Non basta presentare una richiesta di pena sostitutiva per fermare l’esecuzione di condanne concorrenti. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18938, depositata il 21 maggio 2025, respingendo il ricorso di un imputato che aveva contestato l’esecuzione di pene detentive per complessivi due anni, quattro mesi e ventotto giorni, disposta dalla Procura della Repubblica.

Il caso era approdato davanti alla Corte di Appello di Palermo in veste di giudice dell’esecuzione, che aveva già rigettato la richiesta di sospendere l’ordine di esecuzione in attesa della decisione sulla concessione di una pena sostitutiva ai sensi dell’articolo 20-bis del Codice penale, norma introdotta dalla riforma Cartabia.

La Corte: norme distinte e non sovrapponibili
Secondo la Prima sezione penale, la disciplina prevista dall’articolo 656, comma 5, del Codice di procedura penale — che consente la sospensione dell’esecuzione per pene detentive non superiori a tre anni, in presenza di determinate condizioni — non può essere automaticamente estesa alle pene sostitutive introdotte dal nuovo articolo 20-bis c.p.

La normativa, sottolineano i giudici, regola infatti due situazioni diverse: da un lato le misure alternative alla detenzione previste per pene brevi già definitive, dall’altro le pene sostitutive, che richiedono una specifica richiesta del condannato e una successiva valutazione del giudice competente, senza che ciò comporti l’automatica sospensione dell’esecuzione in pendenza di decisione.

I limiti della sospensione automatica
Il Collegio ha inoltre ribadito che il termine di trenta giorni previsto per la richiesta di misure alternative decorre dalla notifica dell’ordine di esecuzione, mentre nessuna sospensione è prevista dalla legge per l’istanza di applicazione di pene sostitutive, che resta dunque priva di effetti sospensivi fino alla decisione sul merito.

Cumulo di pene e misure in corso
Rigettata anche la seconda doglianza del ricorrente, relativa al cumulo delle pene, la Cassazione ha ricordato che al momento della domanda di pena sostitutiva era già in corso l’esecuzione di una misura alternativa (detenzione domiciliare) per alcune delle condanne indicate nel titolo esecutivo. In casi del genere, spiega la Suprema Corte, è il magistrato di sorveglianza a valutare la compatibilità tra cumulo e prosecuzione della misura alternativa in corso, come previsto dall’articolo 51-bis dell’Ordinamento penitenziario.


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Diritti di copia nel processo penale: il Ministero fa chiarezza sulle nuove regole

Nuove indicazioni operative in tema di diritti di copia nel processo penale. Con una circolare datata 13 maggio 2025, il Dipartimento per gli Affari di Giustizia è intervenuto per fare chiarezza sull’applicazione delle modifiche introdotte dalla Legge di Bilancio 2025, precisando criteri, importi e modalità di calcolo dei diritti dovuti per il rilascio delle copie processuali.

La questione riguarda in particolare l’art. 269-bis del Testo Unico sulle Spese di Giustizia (D.P.R. 115/2002), recentemente aggiornato, che distingue tra copie informatiche e cartacee, introducendo diritti forfettari per le prime e confermando un incremento per le seconde.

Copia digitale, costi fissi — copia cartacea, aumenti
Il Ministero ha specificato che per le copie informatiche — trasmesse via PEC, download o riversate su supporti come chiavette USB o CD — sono dovuti solo i nuovi diritti forfettari indicati nell’Allegato 8 del TUSG: 8 euro per invio telematico e 25 euro per ogni supporto fisico utilizzato. La tariffazione è fissa e non più calcolata in base al numero di pagine, come avveniva in passato.

Diverso il discorso per le copie cartacee, che continuano a essere regolate dagli Allegati 6 e 7 e subiscono un incremento del 50% rispetto ai diritti ordinari, come stabilito dall’art. 4, comma 5, del D.L. 193/2009. Se la copia viene rilasciata con urgenza, il diritto viene addirittura triplicato, in base all’art. 270 TUSG.

Niente esonero per il penale
La circolare precisa inoltre che la possibilità, prevista in ambito civile, di estrarre direttamente copie dal fascicolo informatico senza pagamento di diritti se prive di attestazione di conformità, non si applica al processo penale. In ambito penale, infatti, è sempre necessaria l’intermediazione della cancelleria o segreteria per il rilascio di qualsiasi copia, anche se in formato digitale.

Specifiche per il Giudice di Pace
Per i procedimenti davanti al Giudice di Pace, le tariffe vengono ridotte della metà: 12,50 euro per supporti fisici e 4 euro per invio telematico. Tuttavia, anche in questo caso, le copie cartacee restano soggette all’aumento del 50%, assorbendo così la riduzione prevista per il Giudice di Pace.

Divieto di copie “fai da te”
Infine, il Ministero ha ribadito che la semplice richiesta di accesso agli atti non comporta costi, ma è vietato acquisire copie utilizzando dispositivi personali come smartphone o scanner, per evitare aggiramenti delle disposizioni sulle spese di giustizia.


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Conflitto di interessi e ruolo istituzionale: i limiti fissati dal Consiglio Nazionale Forense

Difendere la professione forense significa, prima di tutto, tutelare l’interesse collettivo e il corretto funzionamento delle istituzioni che la rappresentano. Ma quando chi è chiamato a farlo antepone interessi personali o di parte, rischia di compromettere la credibilità dell’intero sistema. È quanto ha ribadito il Consiglio Nazionale Forense nella recente sentenza n. 390/2024, intervenendo su un caso emblematico di conflitto di interessi istituzionale.

Protagonista della vicenda un avvocato, Consigliere di un Ordine territoriale, accusato di aver ostacolato le decisioni del proprio Consiglio e di essersi attivamente schierato a favore di soggetti muniti di abilitazioni professionali ottenute in Romania dalla contestata “Struttura Bota”. Non solo: il professionista aveva consentito che presso il proprio studio fosse stabilita la sede di un’associazione creata proprio per difendere i titolari di quei titoli, apertamente in contrasto con le direttive dell’Ordine.

A rendere ancora più delicata la situazione, il fatto che l’avvocato in questione avesse assunto la difesa di ben 116 colleghi colpiti da provvedimenti di cancellazione, arrivando persino a impugnare deliberazioni del suo stesso Consiglio e a chiederne il risarcimento danni.

Il Consiglio Distrettuale di Disciplina aveva già sanzionato la condotta, rilevando come l’atteggiamento del Consigliere, fatto di assenze strategiche dalle riunioni e di sistematica opposizione ai procedimenti di verifica dei titoli, fosse incompatibile con il ruolo istituzionale ricoperto.

Il CNF ha confermato in pieno questa lettura, sottolineando che l’esercizio di una funzione rappresentativa dell’Avvocatura richiede rigore e indipendenza assoluti, a maggior ragione quando si tratta di tutelare l’interesse pubblico affidato ai Consigli degli Ordini. In questo senso, il conflitto di interessi non deve essere solo evitato, ma anche apparire inesistente.


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Ceto medio in affanno: il sogno di un futuro migliore si cerca altrove

Il ceto medio italiano, da sempre considerato il punto di equilibrio economico e sociale del Paese, oggi vive una fase di incertezza e disillusione. A raccontarlo è il recente report Censis-Cida che, attraverso dati e analisi, restituisce il ritratto di una fascia sociale che si sente stretta tra troppe tasse, un welfare che arretra e poche opportunità di crescita reale.

Secondo l’indagine, due terzi degli italiani continuano a considerarsi parte del ceto medio, una definizione che, più che sul reddito o sul lavoro, poggia oggi su elementi culturali, interessi personali e competenze. Tuttavia, questa autopercezione convive con una crescente insoddisfazione: il 45% degli intervistati dichiara di avere un reddito compreso tra 16.000 e 35.000 euro annui e il 26% tra 36.000 e 50.000, mentre poco meno della metà ha ridotto consumi e risparmi, vivendo in uno stato di ansia economica.

A pesare su questo scenario è soprattutto la mancanza di prospettive per i più giovani. Il 49% dei genitori investe in attività extrascolastiche per i figli, ma l’ambizione non sembra più essere solo il successo in patria: il 53% manderebbe i propri figli a studiare all’università all’estero e il 24% preferirebbe per loro scuole superiori oltreconfine. Il sogno di una vita migliore, per molti, sembra infatti realizzabile più fuori che dentro i confini nazionali.

Non è solo una questione economica, ma di sistema. Il 71% degli italiani chiede una riduzione delle tasse sul lavoro dipendente, mentre la maggioranza ritiene che il welfare pubblico riesca a garantire solo le prestazioni di base, e spesso nemmeno quelle. Cresce così il ricorso a polizze sanitarie e fondi pensione integrativi privati, mentre chi non può permetterselo resta escluso.

«Il ceto medio è troppo ricco per ricevere aiuti e troppo povero per costruire il proprio futuro», commenta Stefano Cuzzilla, presidente della Cida. «È colpito dal fisco, escluso dal welfare e ignorato nei riconoscimenti. Eppure resiste, investe nei figli e tiene in piedi famiglie e territori con una generosità silenziosa. Ma per quanto ancora potrà farlo senza essere ascoltato?»

Secondo il Censis, la vera sfida sarà riconoscere il valore sociale e produttivo di questo segmento, ripensando il welfare, premiando chi crea valore e alleggerendo la pressione fiscale su lavoro e famiglie.


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Segnalazioni aziendali e diritto di critica: la Cassazione tutela il lavoratore

Un lavoratore licenziato per aver denunciato irregolarità aziendali durante il periodo pandemico è stato reintegrato grazie a una decisione della Corte di Cassazione, che con l’ordinanza n. 10864/2025 ha ribadito il principio per cui chi segnala comportamenti contrari al codice etico e alle normative vigenti non può essere oggetto di provvedimenti disciplinari, nemmeno se la segnalazione assume toni critici verso il vertice aziendale.

La vicenda è iniziata quando un dipendente di un’azienda lombarda si è opposto alle modalità organizzative adottate dall’impresa durante l’emergenza sanitaria, ritenendole non conformi ai protocolli anti-Covid previsti per la tutela della salute dei lavoratori. Non limitandosi a una semplice protesta, il lavoratore ha formalizzato la sua segnalazione, richiamando espressamente il codice etico aziendale e le tutele previste dal decreto legislativo 24/2023 in materia di whistleblowing.

La reazione dell’azienda, però, è stata immediata: contestazione disciplinare e successivo licenziamento, motivato dal carattere polemico e critico della segnalazione, considerata un’insubordinazione nei confronti dell’amministratore delegato.

La Corte d’Appello di Milano, in una prima fase, aveva dato ragione all’azienda. Tuttavia, il lavoratore ha deciso di rivolgersi alla Cassazione che ha ribaltato il verdetto. I giudici di legittimità hanno sottolineato come la segnalazione del dipendente fosse finalizzata esclusivamente a richiedere il rispetto delle procedure di sicurezza e quindi ispirata da un legittimo interesse alla tutela della propria salute e di quella dei colleghi.

Secondo la Suprema Corte, si è trattato di un corretto esercizio del diritto di critica e non di un attacco gratuito all’operato dei vertici aziendali. Di conseguenza, il licenziamento è stato considerato ritorsivo e illegittimo, e al lavoratore dovranno essere riconosciute le tutele previste per i whistleblower, compresa la reintegrazione nel posto di lavoro.


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Medici sanzionati: dati dei pazienti usati per propaganda elettorale

L’era digitale impone una tutela rigorosa dei dati personali, soprattutto in ambito sanitario, dove le informazioni sono particolarmente sensibili. È proprio su questo fronte che il Garante per la Protezione dei Dati Personali è intervenuto con due provvedimenti (n. 81 e n. 82/2025), sanzionando due medici liguri che avevano utilizzato i dati dei propri pazienti, inclusi indirizzi e dettagli sui percorsi terapeutici, per promuovere le loro candidature alle recenti elezioni comunali.

La violazione è emersa a seguito di segnalazioni giunte al Garante e notizie riportate dalla stampa. Entrambi i casi evidenziano un principio fondamentale: i dati raccolti durante l’attività medica non possono essere usati per finalità diverse da quelle originali, in assenza di un consenso esplicito degli interessati, e in particolare non per propaganda elettorale.


I casi contestati: dalla lettera personalizzata all’email di massa

Nel primo caso, un oncologo di Imperia aveva inviato lettere ad alcune sue pazienti affette da una specifica patologia oncologica (carcinoma della mammella). Le comunicazioni facevano riferimento al percorso diagnostico e terapeutico intrapreso, esaltavano le competenze professionali del medico e invitavano le pazienti a sostenerlo in vista delle elezioni. L’istruttoria ha rivelato che il medico aveva inviato meno di cento lettere, selezionando i destinatari da un archivio personale.

Il medico si è difeso sostenendo di aver contattato un numero limitato di pazienti (circa cinquanta), con cui aveva un rapporto “privato e personale”, ritenendo che ciò giustificasse l’invio senza gli adempimenti privacy. Ha inoltre affermato di aver utilizzato le liste elettorali del Comune di Sanremo per verificare gli indirizzi, considerandole fonti pubbliche che lo esoneravano dall’obbligo di consenso. Tuttavia, il Garante ha precisato che l’acquisizione di dati da pubblici elenchi non giustifica l’uso di informazioni sanitarie per fini elettorali. La menzione della patologia e del rapporto terapeutico nelle lettere, finalizzata a sollecitare sostegno elettorale, ha costituito una chiara violazione del segreto professionale e un potenziale conflitto di interessi.

Nel secondo caso, un medico di medicina generale, sempre di Imperia, aveva inviato un messaggio elettorale via email a circa cinquecento pazienti, inserendo tutti gli indirizzi nel campo “copia conoscenza” (cc), rendendoli visibili a tutti i destinatari. Il messaggio informava della sua candidatura e invitava a votare per la sua lista. Il medico ha dichiarato che gli indirizzi email erano stati raccolti per scopi legati all’attività ordinaria dello studio (appuntamenti, consulti, prescrizioni), con consenso esplicito dei pazienti. Tuttavia, il Garante ha ribadito l’incompatibilità dell’uso di questi dati per propaganda elettorale senza un consenso specifico.

Inoltre, l’invio massivo di email in cc ha configurato una violazione dell’obbligo di adottare misure tecniche e organizzative adeguate per la tutela della riservatezza, come previsto dall’art. 32 del Regolamento GDPR. Questa condotta ha comportato una comunicazione non autorizzata dei dati personali tra terzi e una indebita divulgazione della qualità di pazienti, costituendo un “data breach”. L’argomentazione del medico sulla presunta ignoranza della normativa o la mancanza di formazione non è stata ritenuta sufficiente a giustificare la condotta.


Le sanzioni e i principi violati

Il Garante ha rilevato che in entrambi i casi il trattamento dei dati è avvenuto in violazione dei principi di liceità, correttezza e trasparenza, nonché di limitazione della finalità, come stabilito dall’art. 5 del Regolamento GDPR, e in assenza di un idoneo presupposto normativo (art. 9). Il Regolamento, infatti, stabilisce un divieto generale di trattamento delle categorie particolari di dati, inclusi quelli sulla salute, salvo specifiche eccezioni che non ricorrono per fini elettorali senza consenso esplicito.

L’Autorità ha ricordato il suo orientamento consolidato, che esclude categoricamente la possibilità di riutilizzare dati raccolti in ambito sanitario per finalità di comunicazione e propaganda elettorale, a meno di un consenso specifico e informato dell’interessato.

Per le violazioni riscontrate, il Garante ha inflitto una sanzione pecuniaria di 10.000 euro per ciascun medico. I provvedimenti saranno pubblicati sul sito del Garante e trasmessi agli Ordini dei Medici competenti per ulteriori valutazioni disciplinari.


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Comprare casa all’asta: un risparmio medio fino alla metà del prezzo di mercato

Nel 2025, il mercato delle aste immobiliari si presenta come una via privilegiata per chi cerca di acquistare casa a prezzi vantaggiosi. L’acquisto tramite asta offre infatti la possibilità di ottenere un immobile a un costo nettamente inferiore rispetto a quello di mercato, con un risparmio che, in media, può arrivare a superare la metà del valore ordinario.

Si stima che i prezzi di vendita all’asta siano ridotti tra il 20% e il 50% rispetto ai valori di mercato. Questo significa che una casa che sul mercato tradizionale costerebbe 200.000 euro, in un’asta potrebbe essere aggiudicata per circa 100.000-120.000 euro. In termini concreti, parliamo di decine di migliaia di euro di risparmio: 30.000, 40.000 o persino 70.000 euro, a seconda del prezzo base d’asta e dell’aggiudicazione finale.


Non solo il prezzo: i costi accessori e il mutuo per l’asta

Acquistare un immobile all’asta comporta, oltre al prezzo di aggiudicazione, gli stessi costi che si affronterebbero per un acquisto sul mercato tradizionale. Se si tratta di prima casa, si dovrà versare l’imposta di registro del 3% sul prezzo, più l’imposta ipotecaria e quella catastale, entrambe di 168 euro.

È importante sapere che anche per le case all’asta è possibile richiedere un mutuo. Esistono specifiche convenzioni tra i tribunali e le banche per facilitare questa operazione. Tuttavia, un aspetto cruciale da tenere a mente è che, una volta aggiudicata l’asta, il pagamento deve avvenire prima del decreto di trasferimento dell’immobile al nuovo proprietario. Questo implica che la banca dovrà deliberare sulla richiesta di mutuo e disporre l’ipoteca sull’immobile prima che l’aggiudicazione diventi definitiva.


Come funziona l’acquisto all’asta: i passaggi chiave

Il processo di acquisto di una casa all’asta segue passaggi e tempistiche precise, il cui rispetto è fondamentale per non rischiare di perdere l’aggiudicazione.

  1. Ricerca dell’immobile: Le case all’asta sono pubblicizzate sul Portale delle Vendite Pubbliche del Ministero della Giustizia, sui siti dei tribunali, degli istituti di vendite giudiziarie e delle agenzie immobiliari specializzate.

  2. Analisi della documentazione: Una volta individuato l’immobile di interesse, è indispensabile leggere attentamente tutti gli allegati all’annuncio. Questi includono l’Ordinanza di vendita, che contiene informazioni cruciali come il prezzo base, il rialzo minimo, le modalità di pagamento della cauzione e del saldo, il termine di presentazione delle offerte e la modalità di vendita. Fondamentale è anche la perizia, che offre una descrizione dettagliata dello stato di fatto, la planimetria, i dati catastali, eventuali iscrizioni pregiudizievoli, la presenza di abusi edilizi e la loro sanabilità, e l’esistenza di eventuali morosità condominiali.

  3. Presentazione dell’offerta: Solo dopo aver visionato tutta la documentazione, si può inviare la propria offerta. Questa deve essere accompagnata da una cauzione pari al 10% del prezzo proposto, utilizzando l’apposito modulo disponibile sul Portale delle Vendite Pubbliche. Per legge, l’offerta non può essere inferiore al 75% della base d’asta.

  4. Aggiudicazione e saldo: Scaduto il termine per la presentazione delle offerte, se l’immobile non viene aggiudicato, la cauzione viene restituita entro 10 giorni. Se invece l’asta viene aggiudicata, si procede alla firma del verbale di aggiudicazione. Il saldo finale per l’acquisto della casa deve essere versato entro 60 giorni dalla data dell’asta.


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L’assemblea di condominio è il cuore pulsante della gestione condominiale, l’organo supremo che disciplina l’uso delle parti e dei servizi comuni. Le sue decisioni, espresse in delibere, sono il frutto di una volontà collegiale, distinta da quella dei singoli. Tutto questo processo, per legge, deve essere fedelmente riportato in un processo verbale, da trascrivere nell’apposito registro tenuto dall’amministratore.

La delibera, quindi, è un atto collettivo che mira all’efficiente funzionamento dello stabile. Un processo che inizia con la convocazione di tutti gli aventi diritto – la cui prova deve essere fornita al presidente dell’assemblea e annotata a verbale – e si conclude con la comunicazione del verbale ai condomini, specialmente a quelli assenti. Ma cosa succede se qualcosa non va per il verso giusto?


Vizi di forma e procedura: le basi per l’impugnazione

Il Codice Civile è chiaro: tutti gli aventi diritto devono essere convocati alla riunione con un preavviso di almeno cinque giorni dalla data fissata, pena l’annullabilità delle delibere. La convocazione può avvenire tramite raccomandata, PEC, fax o consegna a mano, e deve contenere l’ordine del giorno, il luogo e l’ora della riunione. In caso di omissione, ritardo o incompletezza della convocazione, la delibera è annullabile su istanza dei dissenzienti o degli assenti non ritualmente convocati.

L’assemblea, oltre alla convocazione annuale ordinaria per le deliberazioni di routine, può essere convocata in via straordinaria dall’amministratore (se lo ritiene necessario o su richiesta di almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio). In assenza dell’amministratore, o se la sua risposta tarda oltre dieci giorni, la convocazione può essere effettuata direttamente dai condomini richiedenti, o da ciascun condomino in mancanza totale di un amministratore.

È inoltre importante sapere che, anche senza una specifica previsione nel regolamento, è possibile partecipare all’assemblea in videoconferenza, previo consenso della maggioranza dei condomini. In questi casi, il verbale deve essere redatto dal segretario, sottoscritto dal presidente e trasmesso all’amministratore e a tutti i condomini con le stesse formalità previste per la convocazione.


Contenuto del verbale e validità: cosa controllare

Perché una delibera condominiale sia considerata valida, il verbale deve contenere alcuni elementi essenziali:

  • Nominativi di presidente e segretario: la loro assenza è una mera irregolarità, ma la loro indicazione è prassi.
  • Verifica della regolare convocazione: è un passaggio obbligatorio.
  • Elenco dei presenti (o rappresentati per delega): con i relativi millesimi o indicazioni che ne permettano la ricostruzione.
  • Verbalizzazione delle votazioni: devono risultare chiaramente i favorevoli, i contrari, gli astenuti e i millesimi rappresentati da ciascun gruppo. È valida anche la verbalizzazione “per differenza”, indicando cioè solo i contrari e gli astenuti e deducendo i favorevoli.

È cruciale ricordare che il verbale dell’assemblea condominiale è una scrittura privata. Questo significa che il suo valore legale si limita alla provenienza delle dichiarazioni di chi lo ha sottoscritto (presidente e segretario), e non attesta la veridicità del suo contenuto. Di conseguenza, il verbale può essere contestato con qualsiasi mezzo di prova, senza la necessità di ricorrere alla “querela di falso”.

Infine, la sottoscrizione del verbale da parte di un condomino non implica in alcun modo l’accettazione della delibera. La firma serve solo a provare che la riunione si è svolta in un determinato luogo e data, e che in essa sono state prese le decisioni riportate. Ai fini dell’impugnazione, l’unico elemento rilevante è che il condomino presente si sia astenuto o sia stato dissenziente. Questi ultimi avranno 30 giorni dalla data dell’adunanza per proporre l’impugnazione.


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L’ombra delle “Scam Cities” si estende: le città della truffa conquistano nuovi continenti

Un fenomeno criminale inquietante, emerso con forza durante la pandemia, sta ridisegnando la mappa delle truffe globali: le “scam cities”. Si tratta di vere e proprie enclavi urbane, o pseudo-urbane, da cui partono la maggior parte delle frodi online che affliggono il mondo. Un recente rapporto delle Nazioni Unite ha lanciato l’allarme, evidenziando come queste città criminali, inizialmente concentrate nel Sud-Est asiatico, stiano ora proliferando anche in Africa, Sudamerica e Medio Oriente, approfittando della fragilità delle istituzioni locali.


Il contagio delle “città della truffa”: dal Sud-Est asiatico al mondo

Le “scam cities” sono centri in cui centinaia di migliaia di persone, spesso migranti attratti da false promesse di lavoro, vengono ridotte in condizioni di sfruttamento e semi-schiavitù. La loro “attività” principale è perpetrare ogni sorta di truffe online: dalle frodi affettive ai falsi investimenti, dai furti di criptovalute alle scommesse illegali. Il rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) sottolinea come la loro crescita sia stata esponenziale a partire dall’emergenza sanitaria, con un epicentro iniziale in paesi come Thailandia, Myanmar, Filippine, Laos, Cambogia e Cina. Qui, i lavoratori venivano privati dei documenti e costretti a operare, spesso sotto minaccia e violenza, utilizzando sofisticate tecniche di social engineering. Nonostante alcuni collaborino volontariamente, la stragrande maggioranza è trattenuta contro la propria volontà, trasformando queste città in luoghi dove la schiavitù moderna incontra la criminalità informatica.


Nuovi orizzonti del crimine: Africa e Sudamerica nel mirino

Gli sforzi dei governi asiatici per smantellare queste “città della truffa” hanno avuto un effetto collaterale preoccupante: le organizzazioni criminali si sono spostate, cercando nuovi terreni fertili. L’UNODC ha rilevato una rapida espansione in regioni caratterizzate da forti fragilità istituzionali, come l’Africa (con la Nigeria in testa, seguita da Zambia e Angola), il Sudamerica (Brasile e Perù) e alcune isole remote dell’Oceano Pacifico.

In Nigeria, ad esempio, si sono registrati numerosi arresti tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, coinvolgendo anche individui provenienti dal Sud-Est asiatico. Simili operazioni in Zambia e Angola hanno mostrato la capacità di queste reti criminali di adattarsi e sfruttare i vuoti governativi. In Sudamerica, il Brasile è il paese con il maggior numero di queste realtà, seguito dal Perù, dove già a fine 2023 la polizia aveva liberato quaranta cittadini malesi, vittime di un’organizzazione criminale taiwanese specializzata in frodi informatiche, reclutati con la triste consuetudine di falsi annunci di lavoro.


La persistenza del modello: mafie asiatiche e gruppi locali

Nonostante i cambiamenti geografici, la gestione e il controllo delle “scam cities” rimangono saldamente nelle mani di organizzazioni criminali asiatiche. Tuttavia, si sta assistendo a un crescente coinvolgimento di gruppi criminali locali, che fungono da intermediari o garanti nei nuovi territori. Questa dinamica, già osservata in Asia, si sta replicando nei nuovi insediamenti, mantenendo invariato il modus operandi: sfruttamento, coercizione e frode su scala industriale. Le aree remote del mondo, dove le istituzioni statali sono deboli o assenti, offrono un habitat ideale per queste attività illecite.


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Indipendenza e apparenza: i giudici sotto la lente dell’imparzialità

La giustizia italiana torna al centro del dibattito sull’imparzialità dei giudici. L’Unione Nazionale Camere Penali ha criticato fermamente l’idea che la qualità di una decisione giudiziaria possa prescindere dalle condotte del magistrato, sottolineando l’importanza che l’indipendenza e l’imparzialità siano evidenti in ogni aspetto della vita di chi amministra la giustizia.

Secondo la Giunta delle Camere Penali, pretendere di ignorare l’importanza dell’apparenza di imparzialità, delegando l’intera responsabilità alla sola “qualità della decisione”, è un atteggiamento irrazionale. Questa postura, si legge nella nota, sembra motivata solo dalla volontà di mantenere un privilegio ingiustificabile in un sistema democratico basato su un equilibrio di valori costituzionali.

La critica si rivolge anche a chi, pur non condividendo le posizioni del Ministro Nordio, sembra trascurare un insegnamento consolidato della Corte Costituzionale. Quest’ultima, in una sentenza fondamentale, aveva già chiarito che, sebbene i magistrati godano delle stesse libertà di ogni cittadino, le loro funzioni e la loro qualifica non sono indifferenti per l’ordinamento costituzionale. Di conseguenza, tutti i magistrati “devono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità”. Un principio, evidentemente, ancora troppo spesso disatteso.

Oltre la sentenza: l’importanza della percezione pubblica

L’Unione ribadisce con forza che l’imparzialità non può essere una qualità limitata al verdetto, ma deve essere intrinseca alla figura del giudice, manifestandosi nella sua “pubblica postura”. Viene contestata l’affermazione contenuta nella mozione finale dell’ultimo Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati, secondo cui una critica non basata sulle motivazioni, ma su “dichiarazioni o meri comportamenti” del magistrato, sarebbe “dannosa per le istituzioni”.

Le Camere Penali sottolineano come una simile prospettiva non tenga conto della complessità della giurisdizione e del processo in una società democratica, dove ogni attore istituzionale deve rispondere responsabilmente del potere conferitogli. Non è accettabile, si argomenta, che non abbia importanza se un giudice abbia espresso posizioni in controversie politiche attinenti al suo giudizio, o se abbia manifestato avversione o apprezzamento su questioni che investono la materia del proprio processo.

Questa visione, secondo la nota, si basa sull’errato presupposto che la qualità del giudice non debba essere oggetto di una percezione positiva anticipata, cruciale per la legittimazione stessa del giudizio. L’imparzialità del giudice, così come la sua terzietà, deve essere radicata nella sua immagine e percepita all’esterno e a prescindere dall’esito del processo. La giurisdizione è un meccanismo sociale delicato e il giudice deve apparire imparziale anche prima dell’inizio del processo. Se tale apparenza viene meno, la correttezza e la legittimità della sua decisione potranno essere facilmente messe in discussione, minando la fiducia dei cittadini nella giustizia.


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