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Come ottenere il rimborso del contributo unificato

Le modalità per il rimborso del contributo unificato sono contenute nella Circolare n. 33 del 26 ottobre 2007 del Ministero dell’Economia e della Finanza.

QUANDO CHIEDERE IL RIMBORSO DEL CONTRIBUTO UNIFICATO

Il diritto al rimborso del contributo unificato può essere esercitato in caso di versamento :

– di una somma superiore a quella dello scaglione di riferimento;
– avvenuto due volte per errore;
– per un procedimento giurisdizionale esente;
– al quale non è seguito il deposito e l’iscrizione a ruolo dell’atto introduttivo.

Il suddetto elenco non è da ritenersi esaustivo.

L’ISTANZA DI RIMBORSO

Per ottenere il rimborso del contributo unificato è necessario presentare apposita istanza all’ufficio giudiziario. L’istanza va presentata entro il termine di decadenza di due anni, a partire dal giorno in cui è stato effettuato il versamento (articolo 21, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546).

Le richieste di rimborso presentate oltre questo termine non saranno accolte.

Nell’istanza vanno indicati:

  • – nome e cognome, data e  luogo di nascita, il codice fiscale,
  • – residenza, cap ed eventuale domicilio, se diverso dalla residenza,
  • – recapiti (numero di telefono e email),
  • elementi utili all’identificazione del giudizio per il quale è stato versato il contributo unificato (parti, numero di ruolo, ecc.),
  • estremi del versamento e importo,
  • importo richiesto a rimborso,
  • modalità di pagamento prescelta per il rimborso,
  • dichiarazione dell’inesistenza di altre richieste di rimborso relative alla stessa somma.

È possibile richiedere con un’unica istanza il rimborso di più versamenti a patto che siano relativi al medesimo contribuente e allo stesso ufficio giudiziario.

Nel caso l’istanza venga presentata personalmente, l’ufficio giudiziario rilascia un’apposita ricevuta.

ULTERIORI INFORMAZIONI

Nella richiesta devono essere chiaramente identificabili il contribuente, il giudizio di riferimento (ove possibile) e l’ufficio giudiziario competente. A tal proposito vanno fatte alcune precisazioni.

Per i versamenti tramite F23, l’erronea indicazione del codice ufficio o del codice tributo non rappresentano una valida motivazione per ottenere il rimborso del contributo unificato. In tali casi si può provvedere a una rettifica con apposita comunicazione sia all’ufficio giudiziario interessato, sia all’ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate (come indicato nelle risoluzioni 26 maggio 2000, n.73, e 9 agosto 2000, n. 131, del Ministero delle Finanze).

Nel caso dei versamenti semplificati, eseguito presso le ricevitorie abilitate, poiché non è possibile risalire in modo chiaro all’effettivo contribuente, in caso di errore risulta impossibile ottenere il rimborso.

Per maggiori informazioni potete leggere il testo completo della Circolare n. 33 del 26 ottobre 2007 del Ministero dell’Economia e della Finanza. Qui il link al modello di istanza per il rimborso del contributo unificato.

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Stalking giudiziario, un peso per tutti

Ricorrere alla giustizia come mezzo vessatorio e vendicativo non è poi un evento così raro, tant’è chi subisce tali azioni può tranquillamente essere definito vittima di stalking giudiziario.

COS’È LO STALKING GIUDIZIARIO

Lo stalking giudiziario può essere definito come una forma di “atti persecutori, le cui azioni moleste si sostanziano appunto nella reiterazione di pretese risarcitorie in sede civile, ricorsi amministrativi e persino in denunce-querela prive di fondamento ma strumentali esclusivamente a porre il destinatario in uno stato di angoscia o di prostrazione e a vessarlo, determinando nello stesso uno degli eventi alternativi previsti dalla fattispecie incriminatrice di atti persecutori (stalking), ex art. 612 bis c.p..” (Cit.: Avv. Luca Monaco del Foro di Salerno).

Questi atti sono portati avanti da ex coniugi, parenti, vicini di casa, soggetti con i quali si intrattengono relazioni lavorative e quant’altro. Ciò che non cambia è il disagio emotivo di chi li riceve che, oltretutto, deve pure sobbarcarsi oneri economici spesso notevoli nel tentativo di difendersi.

COME RICONOSCERLO

Al momento non esiste il reato di stalking giudiziario separato dal reato di stalking indicato dall’art. 612 bis c.p.

Ancora diversi anni fa la Cassazione, con la sentenza n. 3831/2017, ha timidamente riconosciuto la configurabilità dI un reato a sé. Nella sentenza si legge: “la valutazione di gravità indiziaria non è affermata soltanto sulla proposizione reiterata di denunce ed esposti – la cui concreta valutazione va rimessa all’apprezzamento del giudice di merito concernente i profili fattuali della vicenda – bensì su condotte ben più pregnanti”.

Poi, nel 2020 il Tribunale di Monza ha condannato per stalking giudiziario un avvocato reo di aver mosso più di 200 cause civili e penali verso un suo ex assistito, il quale aveva deciso di interrompere il rapporto professionale.
La vicenda, durata oltre 9 anni, ha portato l’avvocato a a 4 anni di reclusione e 5 anni di interdizione della professione.

Si può dire che gli elementi che caratterizzano lo stalking giudiziario siano due:
– le domande risarcitorie o le denunce presentate sono ripetute;
– le pretese mosse sono chiaramente infondate e strumentali agli interessi dell’attore.

GLI EFFETTI DELLO STALKING GIUDIZIARIO

Lo stalking giudiziario non ha ripercussioni solo sugli individui che lo subiscono, ma anche sulla giustizia nella sua totalità. Le numerosa cause prive di reale fondamento mosse dagli stalker non fanno altro che appesantire e rallentare ulteriormente il sistema, nonché gravare lo Stato di spese inutili.

Diventa dunque importante scoraggiare tali azioni. Ciò comporterebbe “un alleggerimento del carico processuale che grava nei vari Tribunali, a causa di motivi inesistenti e strumentali ad altri fini del tutto illegittimi e sarebbero anche evitati tanti presumibili errori giudiziari che poi a distanza di tempo, magari di dieci anni o più, si scoprono essere tali” [Cit: Prof. Dott. Giovanni Moscagiuro, esperto anche in stalking e cyberstalking].

 

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L’UE approva il regolamento ePrivacy

Dopo un percorso di 4 anni, il Consiglio Europeo ha trovato un accordo sulla versione finale del Regolamento ePrivacy. Si dà dunque il via alla revisione delle norme in materia di tutela della riservatezza connessa all’uso dei servizi di comunicazione elettronica.

Le nuove norme sostituiranno la precedente Direttiva e-Privacy del 2002.

CONTENUTI DEL NUOVO REGOLAMENTO ePRIVACY

I seguenti contenuti sono tratti dall’articolo “Regolamento ePrivacy approvato dal Consiglio UE: gli scenari che si aprono” pubblicato su Agenda Digitale.

Innanzi tutto,  il nuovo Regolamento ePrivacy indica quando i fornitori di servizi hanno l’autorizzazione a trattare i dati delle comunicazioni elettroniche degli utenti o ad accedere ai dati conservati nei loro dispositivi. In questo senso, il regolamento va ad affiancarsi a quanto previsto dal GDPR in materia di protezione dei dati.

Più nello specifico, ecco cosa cambia.

IMPOSTAZIONI PRIVACY

Ai fornitori di software si chiede, ma non si impone, di stabilire di default le impostazioni per la gestione dei cookie. Questa misura vuole combattere il disagio che molti utenti provano davanti ai banner di consenso, senza intaccare il principio del consenso libero.

ANCORA COOKIES

Viene mantenuta la possibilità di limitare l’accesso ai siti in base al consenso all’installazione dei cookies, a patto che all’utente venga sempre concessa una libera scelta fra opzioni reali (a volte la scelta è obbligata).

Al consenso dell’utente vi sono alcune eccezioni: “misurazione dell’audience, prevenzione frodi, installazione aggiornamenti software, in caso di emergenza e per finalità compatibili”.

TRATTAMENTO DEI DATI

Agli utenti che acconsentono al trattamento trattamento dei dati delle proprie comunicazioni elettroniche va ricordato, tramite reminder, che il consenso può essere ritirato. Il remainder va presentato a intervalli di non più di 12 mesi, a meno che l’utente non voglia più riceverli.

SOFT SPAM

È possibile inviare agli utenti comunicazioni di marketing soft spam, sempre rispettando le regole sulla corretta informazione e sulle scelte libere.

Tali comunicazioni non sono più limitate alle sole email, ma si estendono anche “qualsiasi messaggio contenente informazioni quali testo, voce, video, suono o immagine inviato su una rete di comunicazione elettronica che può essere memorizzato nella rete o in strutture informatiche correlate, o nell’apparecchiatura terminale del suo destinatario, compresi SMS, MMS e applicazioni e tecniche funzionalmente equivalenti”.

TRATTAMENTO DEI METADATI

I metadati potranno essere trattati anche se ciò è necessario “ai fini della gestione della rete o dell’ottimizzazione della rete, o per soddisfare i requisiti tecnici di qualità del servizio, o per l’esecuzione di un contratto di servizio di comunicazione elettronica di cui l’utente finale è parte, o se necessario per la fatturazione, il calcolo dei pagamenti di interconnessione, l’individuazione o la cessazione dell’uso fraudolento o abusivo dei servizi di comunicazione elettronica o dell’abbonamento a tali servizi”.

CONCLUSIONI

Si attendono le negoziazioni con il Parlamento EU per avere il testo definitivo del nuovo Regolamento ePrivacy.

Una volta pubblicato in Gazzetta ufficiale dell’UE, entrerà in vigore 20 giorni dopo e inizierà a essere applicato due anni dopo (vedi nota ufficiale).

I cambiamenti introdotti impatteranno molto sul settore digitale, tecnologico e sul marketing online. Social network, agenzie di comunicazione, società di telecomunicazioni, sviluppatori di software e app dovranno adeguarsi.

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Copie esecutive digitali: si pagano i diritti di copia?

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Le copie esecutive digitali sono esenti dal versamento dei diritti di copia. Lo ha chiarito il Ministero della Giustizia.

Ciò significa che gli uffici giudiziari non chiederanno a difensori e altri soggetti abilitati i diritti di copia per il rilascio telematico delle copie esecutive. Questo almeno fino alla conclusione dello stato di emergenza dovuto a Covid-19, il cui termine è fissato al 30 aprile 2021.

La decisione, contenuta nella circolare del 4 febbraio, risponde alle molteplici domande di chiarimento giunte al Direttore generale del Ministero.

DIRITTI DI COPIA, I DUBBI

I dubbi sul versamento dei diritti di copia per le copie esecutive nascono dall’art.23, comma 9-bis, del Decreto Ristori n.137 del 28 ottobre 2020.

L’articolo indica che durante il periodo di pandemia è possibile chiedere e ottenere le copie di sentenze e altri provvedimenti giudiziari depositando un’apposita istanza in modalità telematica.

Il cancelliere ha il compito di creare un documento informatico contenente la copia del provvedimento richiesto. Il documento viene poi firmato digitalmente, corredato dalla formula prevista dall’articolo 475, comma 3, c.p.c. e dall’indicazione della parte destinataria.

L’articolo del decreto non offre però alcuna informazione sull’applicazione dei diritti di copia in relazione al formato digitale.

IL TESTO DELL’ORDINANZA

L’ufficio Legislativo ha riscontrato la richiesta della Direzione generale affermando che:

“Sulla base delle disposizioni vigenti i diritti di copia non sono certamente dovuti per  l’estrazione della copia esecutiva da parte del difensore (o di altro soggetto abilitato), mentre d’altro lato in difetto di una specifica norma impositiva appare complesso sostenere che l’attività di formazione della copia esecutiva telematica da parte del cancelliere (che logicamente e cronologicamente precede l’estrazione) sia soggetta a tributo.”

COPIE ESECUTIVE ANALOGICHE

Il chiarimento del Ministero della Giustizia riguarda dunque solo il formato digitale.

Nella stessa ordinanza si legge che, per il formato analogico delle copie esecutive, i diritti di copia non vengono sospesi. Il loro pagamento può avvenire tramite PagoPA.

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Identità digitale, manca poco allo switch off

L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha certamente dato impulso alla digitalizzazione. Questo è vero per le aziende, per la pubblica amministrazione e anche per i comuni cittadini, molti dei quali hanno attivato un’identità digitale.

I dati Agid raccontano che gli SPID rilasciati a fine 2020 sono quasi 15.500.000. Un anno prima erano quasi 5.500.000.
A questi si aggiungono più di 18.000.000 di CIE, le nuove carte di identità elettroniche.

E l’identità digitale è uno dei temi al centro dei programmi delle istituzioni.

Il Decreto Semplificazioni ha infatti ha modificato il Codice dell’Amministrazione Digitale e introdotto lo “switch off”, il termine entro il quale la PA dovrà permettere l’accesso ai suoi servizi solo attraverso SPID e CIE. La data da segnare sul calendario è il 28 febbraio 2021.

Da marzo, dunque, la PA non rilascerà né rinnoverà le credenziali secondo le vecchie modalità. Quelle attualmente attive rimarranno valore fino alla loro scadenza e non oltre il 30 settembre 2021.

COS’È L’IDENTITÀ DIGITALE

Infocert definisce l’identità digitale come

“l’insieme dei dati e delle informazioni, o attributi, che definiscono il Titolare e costituiscono la rappresentazione virtuale dell’identità reale utilizzabile durante interazioni elettroniche con persone o sistemi informatici.

Nella pratica, l’Identità Digitale è una chiave unica di accesso (autenticazione) a tutti i servizi pubblici e a quelli delle aziende private che intendono usufruire di questo sistema diffuso di riconoscimento”.

I riferimenti normativi sono molteplici.

Per SPID vale l’Art. 64 del Codice dell’Amministrazione Digitale“Sistema pubblico per la gestione delle identità digitali e modalità di accesso ai servizi erogati in rete dalle pubbliche amministrazioni“. Per la CIE, l’elenco completo è reperibile alla pagina dedicata nel sito del Ministero dell’Interno.

LA SITUAZIONE DELLA PA

Le PA devono dunque attivare l’autenticazione tramite i due sistemi. Per SPID, il referente è Agid; per la CIE, l’Istituto Poligrafico e la Zecca dello Stato.

Secondo i dati di ForumPA del 2015, le amministrazioni pubbliche italiane sono circa 55.000. Al momento quelle che hanno attivato SPID sono solo 5700.

La PA ha dei benefici nell’utilizzare i due sistemi. Infatti, non dovrà più occuparsi della gestione delle autenticazioni che, invece, passerà al Ministero degli Interni e agli IDP (Identity Provider), liberandosi anche dei rischi connessi a eventuali data breach.

VANTAGGI PER IL CITTADINO

Perché utilizzare SPID e CIE?

Le difficoltà che stiamo incontrando a causa della pandemia COVID ci stanno insegnando il valore delle tecnologie e delle procedure da remoto.

La digitalizzazione di molti servizi pubblici è un dato di fatto, ormai. Ma se per ogni servizio dovessimo continuare ad avere credenziali specifiche (nome utente, password, totem) e dovessimo scaricare le rispettive app di accesso, ci troveremmo in difficoltà. Inoltre, il rischio di smarrire le credenziali o condividerle involontariamente ci esporrebbe a rischi legati alla nostra privacy.
Con SPID e CIE abbiamo due sistemi di autenticazione validi per tutti i servizi della PA. Questo si traduce in una maggiore facilità di utilizzo e in livelli più alti di sicurezza.

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Superamento delle tariffe professionali - Servicematica

Superamento delle tariffe professionali, ok se c’è accordo tra le parti

Il superamento delle tariffe professionali degli avvocati è ammesso, a patto che sia una decisione presa in accordo con il cliente.

La legittimità del superamento delle tariffe è sancita dall’ordinanza n. 2631 della Corte di Cassazione pubblicata il 4 febbraio 2021.

IL CASO

Il cliente di un avvocato chiede la restituzione di una parte del compenso pagato al proprio difensore per una sua assistenza professionale.

Inizialmente, lo stesso cliente e l’avvocato difensore pattuiscono in forma scritta che, in caso di vittoria, quest’ultimo avrebbe ricevuto il 10% di quanto ottenuto, più la copertura delle spese e degli oneri.

Successivamente, pattuiscono un importo diverso che però poi il cliente trova sproporzionato perché non in linea con le tariffe forensi e non adeguato all’attività del difensore, considerata modesta.

Il Tribunale rigetta la doglianza e il cliente ricorre in Cassazione.

SUPERAMENTO DELLE TARIFFE PROFESSIONALI, ESISTE UNA GERARCHIA

Anche la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

La Cassazione motiva la decisione considerando corretta l’applicazione da parte del Tribunale dell’art.2233 c.c. sui compensi dei prestatori di opere intellettuali.

Questo il testo dell’articolo:

   Il compenso,  se  non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le  tariffe  o gli usi, è determinato dal giudice, (sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene).
(1)   In ogni  caso  la  misura  del  compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione.

   Sono nulli,  se  non  redatti  in  forma  scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed  i  praticanti  abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali. (2)

(1) L’inciso   deve   ritenersi   abrogato   per  effetto  della  soppressione dell’ordinamento corporativo, disposta con R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721.
(2) Comma cosi’ sostituito dall’art. 2 D.L. 4 luglio 2006 n. 223,  convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006 n. 248.

L’articolo dunque suggerisce che gli accordi scritti con i clienti permettono il superamento delle tariffe professionali.

Nell’ordinanza la Cassazione spiega che: «l’art. 2233 cod. civ. pone una gerarchia di carattere preferenziale, indicando in primo luogo l’accordo delle parti ed in via soltanto subordinata le tariffe professionali, ovvero gli usi: le pattuizioni tra le parti risultano dunque preminenti su ogni altro criterio di liquidazione ed il compenso va determinato in base alla tariffa ed adeguato all’importanza dell’opera soltanto in mancanza di convenzione».

 

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Alzata la soglia reddituale per accedere al gratuito patrocinio

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gratuito patrocinio

Alzata la soglia reddituale per accedere al gratuito patrocinio

L’ammissione al gratuito patrocinio ora può avvenire anche a fronte di un soglia reddituale più alta rispetto al passato.

La misura è contenuta nel Decreto del Ministero della Giustizia del 23 luglio 2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 30 gennaio 2021.

GRATUITO PATROCINIO, COME FUNZIONA

Il gratuito patrocinio garantisce che anche i non abbienti possano beneficiare di assistenza legale nel momento in cui dovessero averne bisogno. In tal caso, i compensi degli avvocati e le spese ricadono sullo Stato.

Per poter essere ammessi al gratuito patrocinio bisogna rispettare alcuni requisiti, il principale dei quali riguarda il reddito del soggetto richiedente.

I requisiti di reddito sono indicati nel “testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia“(cfr. d.P.R. n. 115/2002).

L’art.77 prevede che i limiti di reddito per l’ammissione al gratuito patrocinio vengano rivisti ogni due anni in base all’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati dell’ISTAT.

La soglia stabilita dal decreto del 16 gennaio 2018 era pari a 11.493,82€.

GRATUTI PARTROCINIO, LA NUOVA SOGLIA

Alla luce di quanto indicato, il decreto di luglio 2020 ha rivisto la soglia innalzandola a 11.746,68€.

L’aumento è stato deciso a fronte di una crescita dei prezzi dell’indice ISTAT pari allo 0,022.

ECCEZIONI AI REQUISITI

Con la sentenza n.1 dell’11 gennaio 2021, la Corte Costituzionale ha ritenuto legittimo l’accesso automatico al gratuito patrocinio da parte delle vittime di reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale, specie se minori, indipendentemente dal reddito percepito.

I reati per i quali è valida tale eccezione sono quelli indicati agli articoli 572583-bis609-bis609-quater e 612-bis, 600600-bis600-ter600-quinquies601602609-quinquies e 609-undecies del codice penale.

 

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Rafforzare le ADR per una giustizia più efficiente

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ADR

Rafforzare le ADR per una giustizia più efficiente

Con la delibera del 23 gennaio 2021 l’Ordine Congressuale Forense ha espresso la necessità di rafforzare le ADR alla luce delle difficoltà della giustizia italiana.

I tempi lunghi, la mole di lavoro arretrato e i costi della giustizia rappresentano un serio problema da anni, che ora diventa ancor più di attualità poiché l’accesso ai fondi del Recovery Plan è vincolato alla realizzazione di riforme.

Il rafforzamento delle ADR (Alternative Dispute Resolution) non punta a creare un sistema di giustizia alternativo, ma a rendere più efficiente quello già esistente.

IL VALORE DELLE ADR

Questi strumenti alternativi di risoluzione delle controversie permettono infatti una scelta più ampia, quindi più precisa, di canali attraverso i quali garantire la giustizia. La loro peculiarità sta nel trovare soluzioni che non nascono dallo scontro fra le parti ma dalla loro collaborazione.

Tra di essi figurano l’arbitrato, la negoziazione assistita e la mediazione civile e commerciale.

Diverso è il riconoscimento del loro valore in Europa e in Italia.

A livello Europeo le ADR sono sostenute da due provvedimenti: la Direttiva sulle ADR (52/2008) e il Regolamento n. 524/2013 sulle ODR (Online Dispute Resolution) per le controversie legate agli e-commerce. Entrambi i provvedimenti mostrano alcuni caratteri comuni per la risoluzione alternativa delle controversie: imparzialità, trasparenza, garanzia del contraddittorio, informazioni adeguate, durata massima di 90 giorni e costi limitati.

In Italia la materia è alquanto frammentata e necessiterebbe di un intervento che possa portare ordine e applicabilità.

ADR: LA DELIBERA DELL’OCF

Secondo l’OCF, il rafforzamento delle ADR permetterebbe di affrontare parte dei problemi generati dai ritardi e dagli arretrati della giustizia.

Nella delibera, l’Organismo indica alcune linee guida in materia di arbitrato, mediazione e negoziazione assistita.

Arbitrato:
ampliare gli ambiti d’intervento, istituire maggiori incentivi fiscali, formare gli arbitri, permettere l’emissione di decreti ingiuntivi, prevedere il patrocinio gratuito.

Mediazione:
introdurre agevolazioni e incentivi, mantenere le attuali tariffe, prevedere un trattamento di favore per la mediazione facoltativa equiparando le tariffe a quelle delle mediazione obbligatoria.

Negoziazione assistita:
formare maggiormente gli avvocati, snellire la procedura, estendere l’ambito di applicazione, aumentare l’efficacia agli accordi conclusivi, istituire il gratuito patrocinio e permettere gli incontri da remoto.

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Deposito frazionato via pec? Sì, ma attenzione ai termini

Se atti e documenti per la costituzione in giudizio superano i 30 Mb, il loro deposto via pec può essere effettuato in più invii. Perché il deposito frazionato venga considerato tempestivo, gli invii devono però avvenire tutti entro il giorno di scadenza del termine.

IL CASO

Un Tribunale respinge l’opposizione allo stato passivo di un fallimento. Alla base della decisione:

  • – la tardività con cui sono stati depositati telematicamente i documenti (con riferimento al termine previsto dall’art. 99, co. 2, n. 4 della legge fallimentare);
  • il deposito telematico, così come eseguito e avvenuto successivamente al termine dei 30 giorni, è in contrasto con il possibile ricorso al deposito cartaceo, alla compressione dei files (dato il superamento del limite dei 30 Mb), all’invio di buste telematiche multiple; inoltre, «la prescrizione [non può] dirsi rispettata solo perché anticipata da formale riserva di produzione successiva» dei documenti.

I soggetti soccombenti ricorrono in Cassazione portando tra i motivi la violazione da parte del Tribunale dell’art. 51, comma 2, del dl. n. 90/2014 e dell’art. 99, come interpretati dal protocollo locale (Palermo) che, in caso di superamento del limite di peso dell’allegato informatico, permette di inoltrare l’indice dei documenti e procedere poi al deposito frazionato degli stessi. Procedura effettivamente seguita.

DEPOSITO FRAZIONATO, COSA DICE LA CASSAZIONE

La Corte di Cassazione respinge il ricorso.

Nell’ordinanza n. 2657/202, la Corte fa riferimento allo stesso art. 51 comma 2, lettere a) e b) del dl n. 90/2014, già citato nel ricorso. 
L’articolo indica che «il deposito è tempestivamente eseguito quando la ricevuta di avvenuta consegna è generata entro la fine del giorno di scadenza e si applicano le disposizioni di cui all’articolo 155, quarto e quinto comma, del codice di procedura civile. Quando il messaggio di posta elettronica certificata eccede la dimensione massima stabilita nelle specifiche tecniche del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del ministero della giustizia, il deposito degli atti o dei documenti può essere eseguito mediante gli invii di più messaggi di posta elettronica certificata. Il deposito è tempestivo quando è eseguito entro la fine del giorno di scadenza».

La Cassazione spiega poi che il ritardo rispetto ai 30 giorni non è giustificabile dall’adozione di protocolli locali, come invece è avvenuto.

In relazione al deposito frazionato, la Cassazione ribadisce che: «ove la costituzione avvenga mediante l’invio di un messaggio di posta elettronica certificata eccedente la dimensione massima stabilita nelle relative specifiche tecniche, il deposito degli atti o dei documenti può sì avvenire mediante gli invii di più messaggi di posta elettronica certificata – ai sensi dell’art. 16-bis, comma 7, d.l. 18 ottobre 2012 n. 17 convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012 n. 221, come modificato dall’art. 51, comma 2, d. L. 24 giugno 2014 n. 90 convertito con modificazioni dalla I. 11 agosto 2014 n. 114 -, a patto che gli stessi siano coevi al deposito del ricorso ed eseguiti entro la fine del giorno di scadenza. E per invii coevi si devono intendere gli invii strettamente consecutivi, di modo che non si presta a censure di sorta la statuizione impugnata laddove ha tenuto conto soltanto della documentazione depositata lo stesso giorno della costituzione in giudizio».

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Specializzazioni forensi e corsi di formazione: pronto il ricorso

La modifica delle specializzazioni forensi, indicata nel decreto del Ministero della Giustizia n. 163 del 12 dicembre 2020, ha sollevato alcune perplessità. I COA di Roma e Napoli sono intenzionati a fare ricorso al TAR e non è escluso che altri si uniscano.

La motivazione alla base del ricorso è legata ai corsi di formazione per ottenere il titolo di avvocato specialista.

Vi è infatti la contrapposizione tra ordini e associazioni specialistiche sulla definizione autonoma dei percorsi formativi.

IL RICORSO

Il decreto del Ministero della Giustizia n. 163/2020, prevede che, per l’avvio dei corsi formativi, gli ordini stipulino delle convenzioni con le associazioni specialistiche più rappresentative. Ma gli ordini chiedono di potersi muovere in autonomia.

A spiegare la situazione, il comunicato pubblicato dal Consiglio dell’Ordine di Roma:

“la disposizione regolamentare appare violativa dell’art. 9 legge 247/2012 ed ingiustamente offensiva e penalizzante per gli ordini che sono addirittura esclusi dal percorso formativo dei futuri specialisti nei settori dove, non esistendo associazioni specialistiche maggiormente rappresentative, sono addirittura nell’impossibilità di stipulare convenzioni all’uopo abilitanti.”

IL TESTO DEL DECRETO SULLE SPECIALIZZAZIONI FORENSI

Per darvi un’idea più chiara, riportiamo il testo integrale dei commi del  decreto del Ministero della Giustizia n. 163/2020 relativi all’organizzazione dei corsi:

3.  Ai  fini  della  organizzazione  dei  corsi, il Consiglio nazionale forense o i consigli dell’ordine  degli avvocati stipulano con le articolazioni di cui al  comma 1 apposite convenzioni per assicurare il conseguimento di una formazione  specialistica orientata all’esercizio della professione nel settore e nell’indirizzo di specializzazione. Il Consiglio nazionale forense può  stipulare le convenzioni anche d’intesa con le associazioni specialistiche maggiormente   rappresentative di cui all’articolo 35,  comma 1, lettera s), della legge 31 dicembre 2012, n. 247.

4.  I consigli dell’ordine stipulano le predette convenzioni d’intesa con le associazioni  specialistiche maggiormente rappresentative di cui all’articolo 35, comma 1, lettera s), della legge 31 dicembre 2012, n. 247.

CONCLUSIONE

Le specializzazioni forensi mostrano dunque un nodo da sciogliere: chi può organizzare i corsi di formazione?

Da una parte, il nuovo regolamento impone che vengano stipulate convenzioni con le associazioni. Dall’altra, i COA chiedono la propria autonomia. Infine, le associazioni specialistiche già in passato hanno accolto con poco entusiasmo l’idea che l’organizzazione dei corsi di formazione venisse estesa ad altri soggetti.
Si attendono sviluppi.

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