Cassazione: solo il giudice può sollevare dubbi di costituzionalità

Roma – Con l’ordinanza n. 11731 depositata il 5 maggio 2025, la Sezione V Civile della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale del diritto costituzionale italiano: non spetta alle parti processuali il potere di sollevare direttamente questioni di legittimità costituzionale, né tale iniziativa può costituire motivo valido di ricorso per Cassazione.

La Corte ha chiarito che il potere di rimettere una questione alla Corte costituzionale spetta esclusivamente al giudice, che può decidere, nell’ambito della propria discrezionalità, se e quando sollevarla. Le parti, da parte loro, possono solo sollecitare il giudice a farlo, offrendo argomentazioni nel merito, ma non hanno alcun potere formale o autonomo d’iniziativa.

In altre parole, la via incidentale per sollevare una questione costituzionale non è nelle mani degli avvocati o delle parti in causa, bensì resta saldamente sotto il controllo del giudice del processo, quale soggetto terzo e imparziale.


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Avvocati e social media: il “processo parallelo” tra diritto di difesa e doveri deontologici

Roma — Nell’epoca dei social e della giustizia spettacolo, il confine tra diritto di difesa e sovraesposizione mediatica si fa sempre più sottile. A rilanciare il tema è l’Osservatorio Deontologia dell’Unione Camere Penali Italiane, che, prendendo spunto dalle recenti cronache legate al caso Garlasco, ha diffuso una nota per ribadire principi e limiti della comunicazione dell’avvocato sui media e sulle piattaforme digitali.

«Il nostro codice deontologico — ricordano i penalisti — non vieta agli avvocati di intervenire nel dibattito pubblico per tutelare il proprio assistito, anche al di fuori del processo, purché nel rispetto dei doveri professionali e con esclusivo riferimento al diritto di difesa». La presenza sempre più massiccia di avvocati in tv, talk show e social network solleva tuttavia interrogativi sulla misura e l’opportunità di certe esposizioni.

Tra i punti richiamati dall’Osservatorio: il divieto di diffondere notizie coperte dal segreto investigativo, l’obbligo di riservatezza, equilibrio e rispetto verso le parti processuali, e il dovere di garantire comunicazioni sempre corrette, complete e tecnicamente accurate. Ma soprattutto — sottolinea la nota — «ogni intervento mediatico deve essere valutato in funzione dell’interesse esclusivo della difesa e mai per finalità autopromozionali o di visibilità personale».

Un monito che arriva in un momento di particolare attenzione mediatica attorno ai processi di cronaca e che, secondo l’UCPI, impone alla categoria di riflettere sull’etica della comunicazione e sulla tutela della dignità della professione forense anche al di fuori delle aule di giustizia.


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Caso Bibbiano, scontro tra avvocati e magistrati: “A rischio il diritto di difesa”

Roma — Torna a far discutere la vicenda giudiziaria legata al processo “Angeli e Demoni” sui fatti di Bibbiano. Stavolta a finire al centro della polemica non è soltanto il merito del processo, ma le conseguenze subite da due avvocati difensori, ora indagati per calunnia per aver sollevato una questione processuale nel corso del dibattimento. Una scelta che l’Associazione Nazionale Magistrati locale ha definito “mera applicazione della legge”, ma che l’Unione Camere Penali Italiane contesta con forza in una nota ufficiale.

Il comunicato dell’Ucpi, affidato alla Giunta, ricorda come in passato la formula “rite et recte” — usata dai commissari papali per certificare la regolarità dei tribunali dell’Inquisizione — sia oggi evocata per giustificare decisioni che rischiano di comprimere il diritto di difesa e trasformare il dibattito processuale in terreno minato per chi esercita la critica.

«Non è stata una “iniziativa improvvida” — denuncia l’Ucpi — ma una trasmissione di atti a una procura che, in assenza di specifiche denunce, ha ipotizzato un’accusa tanto grave quanto discutibile, il tutto ai danni di chi aveva semplicemente esercitato il proprio ruolo di difensore». Particolarmente contestata anche la tempistica: la notifica dell’atto ai legali è infatti avvenuta il giorno prima della discussione finale, scelta definita “irrilevante” dall’ANM locale, ma che secondo l’Ucpi «lede il pieno esercizio del diritto di difesa e contrasta con quella cultura della giurisdizione che dovrebbe appartenere alla magistratura».

Per le Camere Penali si tratta dell’ennesima dimostrazione di una pericolosa deriva corporativa e inquisitoria, che rischia di trasformare il diritto di difesa in una pratica sottoposta al vaglio preventivo di chi, per legge, dovrebbe essere il soggetto controllato. «Incidenti di questo tipo — conclude la nota — dovrebbero spingere a riflessioni serie sui rischi che corre lo Stato di diritto quando le critiche e le censure all’agire giudiziario vengono trattate come reati».


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Decreto Sicurezza, arrivano 14 nuovi reati: stretta su dissenso, occupazioni e cannabis light

Roma — È stata una giornata di alta tensione a Montecitorio, dove il governo ha incassato la fiducia sul controverso decreto sicurezza. Approvato con 201 voti favorevoli, 117 contrari e 5 astenuti, il provvedimento introduce ben 14 nuovi reati e inasprisce le pene per diverse condotte, soprattutto quelle legate a manifestazioni di dissenso e proteste sociali.

Nel mirino della norma anche la cosiddetta “resistenza passiva”, la modalità di protesta non violenta usata dai detenuti o dagli attivisti durante le manifestazioni. Una stretta che ha subito scatenato le opposizioni, che l’hanno ribattezzata “norma anti-Gandhi”. Il centrosinistra ha denunciato un vero e proprio attacco alle libertà civili, mentre il Movimento 5 Stelle ha parlato di “Stato repressivo” in risposta al crescente malcontento sociale.

A far discutere anche la misura che criminalizza le azioni di protesta contro opere pubbliche strategiche, come i movimenti No-Tav e No-Ponte. Gli eco-attivisti rischiano fino a un anno e mezzo di carcere e multe salate per il semplice imbrattamento di beni pubblici o per aver ostacolato i lavori.

Ma il nodo più spinoso è quello legato alla cannabis light. Nonostante il comparto conti oltre 3.000 aziende, 30.000 addetti e un giro d’affari stimato in mezzo miliardo di euro l’anno, la maggioranza ha deciso di vietarne coltivazione e vendita. Un colpo duro per il settore, che si è visto cancellare dalla sera alla mattina un prodotto legale, privo di effetti stupefacenti e considerato meno pericoloso del tabacco. Forza Italia, pur esprimendo forti perplessità, ha dovuto accettare la linea dura imposta da Fratelli d’Italia e dalla Lega.

Il sottosegretario Alfredo Mantovano è stato irremovibile nel difendere la stretta, lasciando i forzisti a digerire una norma che considerano inutile e dannosa. “Non capiamo ancora il perché di questa decisione”, hanno ammesso alcuni parlamentari azzurri a margine del voto.

Il decreto, che passerà ora al Senato per l’approvazione definitiva, prevede inoltre pene più severe per chi occupa immobili, fino a due anni e mezzo di carcere, e introduce le body cam per le forze dell’ordine, pur lasciandone facoltativo l’utilizzo. E proprio la Lega ha strappato l’ok anche a un ordine del giorno sulla castrazione chimica per chi commette reati sessuali, tra le proteste dell’opposizione che ha definito il provvedimento “medievale”.

La tensione non accenna a diminuire. Le opposizioni hanno annunciato nuove manifestazioni di piazza per sabato, accusando il governo Meloni di voler imbavagliare il dissenso e ridurre gli spazi di libertà. “Così si tenta di mettere un tappo al malcontento sociale crescente”, ha denunciato il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte.


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Caos in Parlamento: tensioni sulla giustizia e accuse di forzature istituzionali

Roma — Giornata ad altissima tensione nelle aule parlamentari, dove il confronto politico si è trasformato in un vero e proprio scontro istituzionale. Alla Camera è passata la questione di fiducia posta dal governo sul decreto sicurezza, con 201 voti favorevoli, 117 contrari e 5 astenuti. Un voto che di fatto accelera l’approvazione di un provvedimento molto contestato dalle opposizioni.

Ma è al Senato che il clima si è fatto incandescente. La miccia è stata accesa dalla decisione della Giunta per il Regolamento di dichiarare ammissibile il cosiddetto “canguro” anche per i lavori della commissione antimafia: un precedente mai visto nella storia della Repubblica, secondo Pd, M5S e Alleanza Verdi e Sinistra, che hanno subito denunciato una grave forzatura delle regole parlamentari.

Durissimo il commento di Stefano Patuanelli (M5S) che ha parlato di “giornata buia” per la democrazia, accusando la maggioranza di procedere a colpi di forzature e di aver instaurato di fatto una “dittatura parlamentare”. Stessa linea anche dai senatori democratici Boccia, Verini e Parrini, che hanno definito l’episodio «l’ennesima forzatura per silenziare il confronto parlamentare e imporre riforme delicate come quella della giustizia senza un vero dibattito».

Il centrodestra, però, tira dritto. Nel mirino anche le figure di alcuni magistrati, come l’ex procuratore antimafia Cafiero de Raho, con la maggioranza intenzionata a limitarne il potere decisionale in commissione attraverso una modifica alla legge istitutiva. Intanto, Fratelli d’Italia ha calendarizzato la discussione di una proposta di legge sul conflitto d’interessi che coinvolgerebbe anche i parlamentari ex magistrati, costringendoli potenzialmente ad astenersi su temi di giustizia.

A peggiorare il clima sono arrivate poi le polemiche per alcune dichiarazioni private attribuite al giudice Patarnello, che hanno scatenato l’indignazione della deputata Dem Debora Serracchiani, la quale ha definito “indegne” le parole e chiesto le dimissioni del sottosegretario Delmastro.

Dopo oltre cinque ore di dibattito, la Camera ha quindi approvato la fiducia al decreto sicurezza, che introduce nuove fattispecie di reato e inasprisce alcune pene, mentre il Senato si prepara ad affrontare la discussione sulla riforma della giustizia il 1° giugno, anche se i lavori in commissione non sono ancora conclusi.


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Giustizia, primo confronto tra Capo di Gabinetto e sindacati: sul tavolo contratti, stabilizzazioni e smart working

Si è svolta ieri, 26 maggio, la prima riunione tra le organizzazioni sindacali del personale del Ministero della Giustizia e il Capo di Gabinetto Dott.ssa Giusy Bartolozzi. Una prima interlocuzione che ha permesso di fissare le priorità e aprire il confronto sui temi più urgenti che riguardano i lavoratori del Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria. Come correttamente previsto dalle regole delle relazioni sindacali, non erano presenti — né  invitate — le sigle non firmatarie del vigente CCNL Funzioni Centrali: CGIL, UIL e USB.

In un’Amministrazione ancora gravata da quindici anni di blocco contrattuale, carenze di organico e condizioni di lavoro precarie, Confintesa FP ha ribadito le proprie richieste: pieno rispetto di tutti gli accordi sottoscritti, riconoscimento delle competenze del personale, modifica delle dotazioni organiche, blocco di nuove assunzioni prima della corretta ricollocazione del personale in servizio, un progetto per il welfare integrativo ed un piano organico per il rilancio del Ministero della Giustizia, troppo spesso relegato al ruolo di Cenerentola del Comparto Funzioni Centrali.

Contratto integrativo e progressioni di carriera
Tra i temi più urgenti, il blocco del contratto integrativo, fermo dal 2010, che impedisce la valorizzazione del personale e crea disparità tra profili omogenei alcuni dei quali collocati tra aree diverse.
Confintesa FP ritiene indispensabile un “regime transitorio” per dare piena gratificazione al personale in servizio e rendere competitivo il Ministero della Giustizia anche con la previsione delle nuove famiglie professionali adeguate all’evoluzione dell’organizzazione giudiziaria.

La Dott.ssa Bartolozzi ha prontamente smentito le voci di stampa su un imminente concorso per 2.600-2.800 cancellieri esperti, precisando che al momento nessuna procedura è in fase di avvio, e ha aperto alla possibilità di individuare fondi da destinare al personale. Ha inoltre invitato le sigle sindacali a definire tre priorità da proporre al Governo in vista della prossima Legge di Bilancio.

Smart working e mobilità
Altro tema caldo, il lavoro agile. Confintesa FP ha ribadito l’esigenza di superare il criterio della mera presenza fisica privilegiando la misurazione dei risultati, specie negli uffici non aperti al pubblico e per le attività smartabili. Il Capo di Gabinetto ha espresso condivisione su questa impostazione e annunciato una prossima riunione dedicata alla definizione di regole uniformi.

Sul fronte della mobilità, Confintesa FP ha richiesto maggiore flessibilità e incentivi per coprire le sedi disagiate, in particolare al Nord, proponendo anche l’istituzione di foresterie statali e l’indennità di sede disagiata oltre l’adozione di modelli innovativi già sperimentati da altri Ministeri.

PNRR e personale informatico
La gestione dei contratti a tempo determinato legati al PNRR (ma non solo) preoccupa i sindacati: oltre 12.000 lavoratori, rispetto ai 6.000 inizialmente previsti, rischiano il mancato rinnovo. Confintesa FP ha chiesto la stabilizzazione di tutti i profili coinvolti e una proroga per chi non potrà essere subito inquadrato per mancanza di fondi.

Non è mancato un richiamo alla condizione dei lavoratori tecnici e informatici, ex DGSIA e CISIA, ancora privi di adeguato riconoscimento economico e inquadramento. La sigla sindacale ha chiesto l’applicazione immediata delle norme già previste per il passaggio di area e l’erogazione degli incentivi stanziati dal D.M. 4 agosto 2021.

Prossimi passi
Confintesa FP ha espresso apprezzamento per l’apertura della Dott.ssa Bartolozzi, ribadendo però la necessità di azioni concrete e rapide per affrontare criticità ormai croniche: contratto integrativo bloccato, piante organiche obsolete, gestione rigida dello smart working e precarietà diffusa.

Nei prossimi giorni le sigle sindacali saranno chiamate a definire le tre priorità da sottoporre al Governo, e Confintesa FP ha già annunciato che tra queste non mancheranno le progressioni di carriera attraverso un piano per la valorizzazione delle competenze interne, la stabilizzazione del personale PNRR e un aumento delle risorse del Fondo Risorse Decentrate  e del welfare.


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Confisca, gli eredi possono chiedere la revoca: lo conferma la Cassazione

ROMA — Anche dopo la morte del soggetto colpito da una misura di prevenzione patrimoniale, i suoi eredi possono proseguirne il procedimento di revoca. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19400, depositata il 23 maggio 2025, in una decisione che ribadisce i principi già fissati dalla normativa vigente e dalla Corte costituzionale.

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava la richiesta degli eredi di un uomo deceduto durante il ricorso per Cassazione contro una confisca di beni disposta nei suoi confronti. Secondo quanto previsto sia dalla vecchia disciplina — la legge n. 575 del 1965 — sia dalla normativa attuale (art. 18, comma 2, del d.lgs. 159/2011), le misure patrimoniali possono essere applicate anche in caso di decesso della persona interessata, con il procedimento che prosegue nei confronti degli eredi o di chi subentra nei diritti patrimoniali.

La Corte ha chiarito che questa continuità processuale si fonda sulla natura patrimoniale, e non penale, delle misure di prevenzione, finalizzate a sottrarre alla disponibilità privata beni acquisiti in modo illecito, e non a sanzionare penalmente il soggetto coinvolto. Di conseguenza, gli eredi possono non solo impugnare la confisca già disposta, ma anche portare avanti eventuali procedimenti avviati dal defunto per ottenere la revoca della misura.

Nel caso specifico, tuttavia, i ricorsi presentati sono stati respinti: il primo dichiarato inammissibile, il secondo ritenuto infondato. La Corte d’appello aveva già escluso che le assoluzioni in alcuni procedimenti penali o la definizione conciliativa di contenziosi fiscali potessero cancellare le ragioni alla base della misura di prevenzione. I giudici hanno infatti rilevato una lunga e documentata attività illecita, fatta di truffe ai danni dello Stato, corruzioni e reati tributari, protrattasi per oltre trent’anni.

Con questa pronuncia, la Cassazione conferma un principio ormai consolidato: gli eredi possono intervenire nei procedimenti patrimoniali per tutelare il proprio interesse a fronte di una misura che, pur non essendo penale, incide direttamente sul patrimonio familiare.


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Cassazione: sì alla pena pecuniaria anche per chi è senza mezzi

ROMA — Neppure chi è senza un euro in tasca potrà evitare la pena pecuniaria sostitutiva della detenzione breve. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18168/2025, depositata il 15 maggio, chiarendo un nodo delicato nato dall’applicazione della riforma Cartabia.

Il caso riguarda un uomo condannato a cinque mesi e dieci giorni di reclusione per un reato di lieve entità. Il giudice dell’esecuzione, preso atto della totale incapacità economica del condannato, aveva negato la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria prevista dall’art. 53 del d.lgs. n. 150/2022. Il pubblico ministero ha impugnato l’ordinanza e la Cassazione gli ha dato ragione.

La Suprema Corte ha affermato un principio destinato a fare scuola: la condizione economica del condannato non può costituire un ostacolo alla sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria. La ragione? La logica della pena sostitutiva non è patrimoniale ma funzionale, concepita per alleggerire le carceri e offrire alternative alla detenzione quando la condanna non supera i quattro anni.

La Cassazione ha ribadito che la norma, inserita nella riforma Cartabia, prevede un automatismo applicativo: se la pena detentiva è inferiore a quattro anni e non esistono motivi ostativi, il giudice deve procedere alla sostituzione con una delle pene alternative, tra cui quella pecuniaria. Introdurre un filtro basato sulla capacità di pagamento — ha sottolineato la Corte — significherebbe vanificare l’effetto deflattivo e compromettere la coerenza del sistema.

Una decisione che conferma la scelta del legislatore di slegare la pena sostitutiva pecuniaria dal reddito dell’imputato, puntando piuttosto sulla funzione deflattiva e rieducativa delle sanzioni alternative, nell’ottica di un sistema penale più equilibrato e meno carcerocentrico.


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Delitto di Garlasco, Nordio: “Irragionevole condanna di Stasi dopo due assoluzioni”

Torna a far discutere il caso del delitto di Garlasco, a quasi vent’anni dall’omicidio di Chiara Poggi. A riaccendere il dibattito è il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ospite del programma Zona Bianca su Retequattro, ha definito “irragionevole” la condanna di Alberto Stasi dopo due precedenti sentenze di assoluzione.

“È anomalo che, dopo uno o due verdetti assolutori, si arrivi a una condanna senza rifare integralmente il processo”, ha dichiarato Nordio, riferendosi alla decisione della Corte d’Appello che nel 2015 inflisse 16 anni di carcere a Stasi per omicidio volontario.

Pur esprimendo perplessità sull’iter giudiziario, il Guardasigilli ha escluso possibili conseguenze per i magistrati che si occuparono della prima inchiesta. “Un magistrato può essere ritenuto responsabile solo se non conosce la legge o ignora gli atti — ha precisato — e proprio per questo nei sistemi democratici esistono più gradi di giudizio, nella consapevolezza che ogni sentenza può essere soggetta a errore”.

Nordio ha poi allargato il ragionamento allo stato generale della giustizia italiana, sottolineando come la sfiducia dei cittadini derivi più dalle norme che da chi le applica. “Il problema non sono tanto i magistrati, ma leggi imperfette che permettono di trascinare i processi all’infinito, quando in certi casi sarebbe necessario avere il coraggio di concluderli”, ha aggiunto.


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«Delitto di difesa», la protesta dei penalisti: “Così si mina lo Stato di diritto”

L’Unione delle Camere Penali Italiane ha espresso “grave preoccupazione” per l’iniziativa della Procura di Reggio Emilia che ha denunciato per calunnia due avvocati, Rossella Ognibene e Oliviero Mazza, impegnati nel processo noto come “Angeli e Demoni”.

I due professionisti avevano sollevato in udienza una questione procedurale, eccependo l’incompatibilità alla testimonianza di due psicologhe chiamate come consulenti tecniche dal pubblico ministero, poiché le stesse avevano partecipato agli atti di indagine prima della nomina formale. Una prassi che, secondo la difesa, avrebbe violato le norme del codice di procedura penale.

Il Tribunale di Reggio Emilia aveva respinto l’eccezione sulla base di un diverso orientamento giurisprudenziale, ma aveva riconosciuto la veridicità dei fatti esposti. Nonostante ciò, la Procura ha deciso di procedere contro i difensori, notificando l’avviso di conclusione delle indagini proprio alla vigilia delle arringhe finali. Una tempistica definita dalla Giunta dell’UCPI “idonea a generare un effetto dissuasivo” e incompatibile con la libertà della funzione difensiva.

«Trasformare una questione tecnico-processuale sollevata in aula in un’accusa penale è un grave attacco al diritto di difesa», ha dichiarato l’Unione, che ha parlato senza mezzi termini di un “delitto di difesa”, cioè della pericolosa deriva di criminalizzare l’esercizio della professione forense quando esercitata in modo libero e indipendente.

A rendere la vicenda ancora più delicata è il fatto che tutto avviene pochi giorni dopo la firma da parte dell’Italia della nuova Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione della professione legale, che garantisce la libertà di espressione degli avvocati e li tutela da minacce e indebite interferenze nell’esercizio del mandato difensivo.

L’Unione ha quindi rivolto un appello alle istituzioni e alle autorità giudiziarie, invitandole a rispettare i principi sanciti dalla Costituzione e dai trattati internazionali, ricordando che «attaccare la difesa significa indebolire la giustizia stessa e, con essa, lo Stato di diritto».


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