la giustizia riparte

30 giugno 2020: la giustizia riparte?

Un emendamento presentato da Fratelli d’Italia al DL “Intercettazioni” cancella la norma che aveva esteso lo stop dei Tribunali al 31 luglio (ossia, a settembre). Il governo si è dimostrato favorevole, quindi dal 30 giugno la Giustizia riparte.

Ma prima di parlare della ripartenza, cerchiamo di capire perché la Giustizia si sia fermata.
A spiegarcelo ci pensa Alberto Balboni, firmatario dell’iniziativa, senatore e avvocato, che, in un’intervista a Il Dubbio, dice: «Si metta nei panni di un presidente di Tribunale. Si trova davanti l’articolo 83 del Cura Italia, giusto? Vi trova scritto che dipende tutto da lui. Tutto. Riaprire o no le aule di Giustizia, consentire lo svolgimento delle udienze o rinviarle, adottare cautele o riprendere l’attività. Lei che farebbe, al suo posto? Hanno chiuso tutto. Si son detti: “E chi me lo fa fare di rischiare? Come sono perseguibili i titolari delle aziende con casi di contagio da COVID, così sarei perseguibile io”. Perciò hanno bloccato l’attività nei tribunali. L’errore, madornale, commesso dal governo è stato scaricare su di loro la responsabilità».

L’Avv. Maria Masi, presidente facente funzioni del Consiglio Nazionale Forense, commenta così la prospettiva: «la ripartenza della Giustizia dal 30 giugno sarebbe sicuramente un bel segnale per gli avvocati e per i cittadini che attendono da mesi di veder riconosciuti i propri diritti».

E aggiunge che la Giustizia deve ripartire con «la più ampia e continuativa presenza dei cancellieri in tribunale: come più volte sottolineato, questa condizione è necessaria e funzionale all’attività giurisdizionale stessa».

L’Avv. Masi fa però sapere che è facoltà di ogni ufficio giudiziario anticipare il riavvio delle attività, a patto che vi siano le condizioni per farlo.

Quindi, va tutto bene? La Giustizia riparte e non c’è nessun intoppo?

Più o meno.

Come fa notare la giornalista Claudia Morelli su un articolo su Altalex, l’approvazione dell’emendamento porrebbe «un problema di coordinamento con quanto già deciso con la legge di conversione del decreto “Liquidità”, che ricordiamo dispone che tutte le udienze calendarizzate dall’11 maggio 2020 fino al 31 luglio 2020 dovranno svolgersi con modalità tali da assicurare il rispetto dei principi di sicurezza sanitaria per contenere gli effetti della pandemia».


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Garante: regole più rigide per la conservazione dei documenti digitali

Garante: regole più rigide per la conservazione dei documenti digitali

Nella newsletter e dello scorso 21 maggio 2020, il Garante della Privacy ha chiesto ad AgID di stabilire regole più rigide per spingere coloro che si occupano della conservazione dei documenti informatici a rispettare la normativa sulla protezione dei dati personali, soprattutto quando cessa la fornitura del servizio.

La richiesta è stata avanzata dopo l’analisi della bozza delle “Linee guida per la stesura del piano di cessazione del servizio di conservazione”, che AgID ha predisposto in relazione all’attuazione del Codice per l’Amministrazione Digitale (Cad).

Nelle linee guida sono indicate regole che il “conservatore” dei documenti informatici dovrebbe seguire per la costruzione di un piano che permetta la corretta migrazione dei dati e che eviti perdite di informazioni.

II piano deve tenere conto delle diverse incognite e dei rischi insiti nella conservazione dei documenti, trai quali figurano anche “l’interoperabilità nei processi di migrazione, l’affidabilità dell’impianto tecnologico, i livelli di aggiornamento e di sicurezza fisica e logica.

Le regole proposte da AgID necessitano, secondo il Garante, di un’integrazione che assicuri una tutela dei dati personali che sia maggiormente in linea con precetti del GDPR.

Il GDPR impone al conservatore, che diventa il responsabile del trattamento dei dati, obblighi precisi in tema di restituzione dei dati, e richiede che nella cessazione del trattamento venga coinvolto anche il responsabile per la protezione dei dati (Rdp/Dpo)

Il Garante chiede che al conservatore venga richiesto di eseguire un’analisi dei rischi più ampia, comprensiva di una valutazione della presenza di dati personali appartenenti a categorie particolari come la salute o la fedina penale.

Al conservatore deve essere anche richiesto di adottare misure di sicurezza che garantiscano la riservatezza, l’integrità e la disponibilità dei dati contenuti nei documenti informatici nel momento in cui questi vengono trasferiti negli archivi di conservazione. Dovrà anche specificare per quanto tempo è garantita l’accessibilità dei documenti, e specificare modalità sicure per la “cancellazione degli archivi di conservazione.

Queste indicazioni, insieme a quelle già indicate in un precedente parere del Garante sulle “Linee Guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici” dovrebbero assicurare maggiore protezione e sicurezza nel trattamento dei dati personali.

La loro applicazione dovrebbe “condurre le pubbliche amministrazioni e le imprese verso una corretta innovazione dei processi, per una digitalizzazione a prova di privacy, riducendo i rischi per i diritti e le libertà degli interessati”.


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fatture elettroniche e decreto ingiuntivo

Fatture elettroniche e decreto ingiuntivo: validità nuovamente confermata

L’orientamento della giurisprudenza in tema di validità delle fatture elettroniche ai fini del decreto ingiuntivo non è univoco, come abbiamo già avuto modo di parlare in altri articoli presenti in questo blog.

Vogliamo arricchire le informazioni a proposito portandovi un’altra ordinanza a favore della validità, ricordandovi che il nodo centrale della questione risiede nel contenuto degli artt. 23 e 25 D.P.R. 633/1972 nei quali si indica che un decreto ingiuntivo è ammissibile se il ricorrente fornisce gli estratti delle scritture contabili a dimostrazione dell’esistenza del credito.

VALIDITÀ DELLE FATTURE ELETTRONICHE: IL CASO

Una società fa ricorso per la concessione di decreto ingiuntivo e allega alcune fatture elettroniche in formato xml come prova del credito maturato.

Il Tribunale di Verona accoglie il ricorso e ingiunge al debitore di pagare le somme, maggiorate di interessi e spese, ritenendo che le fatture elettroniche in formato xml siano del tutto equivalenti all’estratto delle scritte contabili.

La motivazione si basa su due elementi:

– il Sistema d Interscambio «genera documenti informatici [ndr: le fatture elettroniche] autentici ed immodificabili, che non sono semplici ‘copie informatiche di documenti informatici’, bensì duplicati informatici’ assolutamente indistinguibili dai loro originali»;

– le fatture elettroniche generate dal SdI sono obbligatorie in caso di vendita di beni prestazioni di servizi, e i soggetti emittenti sono esonerati dall’obbligo di annotare le fatture emesse in un registro apposito.

Di conseguenza, è «illogico pensare che un’impresa debba tenere delle scritture contabili che non ha l’obbligo di utilizzare». Ciò rende impraticabile la via della prova tramite l’estratto delle scritture contabile a favore delle fatture elettroniche.

E l’equipollenza delle fatture elettroniche all’estratto delle scritture contabili disattiva gli obblighi indicati dall’art. 634 co.2 c.p.c. ai fini dell’ottenimento del decreto ingiuntivo.

[Fonte: Studio Fabbrani&Associati, Studio BTC]

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L’importanza di scrivere bene un ricorso (lo dice anche la Cassazione)

Un avvocato che scrive un ricorso poco chiaro, incoerente e prolisso non può stupirsi dell’eventuale dichiarazione di inammissibilità da parte della Cassazione.

Una tale situazione è accaduta nel 2009.

Un avvocato ottiene un decreto ingiuntivo per il pagamento dei propri compensi da parte di una società che però si oppone.
La società fallisce, la causa viene interrotta e poi ripresa dalla curatela fallimentare, ma la Corte d’Appello dichiara l’appello inammissibile per genericità.

L’avvocato allora ricorre in Corte di Cassazione, la quale però concorda sull’inammissibilità del ricorso per 2 ragioni, tra cui figura anche la formulazione confusa e prolissa dell’atto nonché le censure di alcuni fatti rilevanti.

SCRIVERE BENE: ORGANICITÀ E CHIAREZZA DELLA FORMA

Per la Cassazione il ricorso appare in contrasto con l’organicità e la chiarezza della forma richiesti dall’art. 3 comma 2 del processo amministrativo e dalla “Guida per Avvocati” approvata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Secondo la Guida, scrivere bene un ricorso è il primo passo per permettere al giudice di individuare subito e facilmente gli elementi essenziali su cui basare il proprio giudizio.

SUGGERIMENTI PER UNA BUONA SCRITTURA

Allora, c’è da chiedersi quali siano queste regole per scrivere bene.

A darci un quadro molto utile ci pensa il “Breviario per una buona scrittura redatto dal gruppo di lavoro sula chiarezza e la sinteticità degli atti processuali del Ministero della Giustizia”.

Sebbene il breviario non sia recentissimo, i suoi contenuti sono tutt’ora validissimi, pertanto abbiamo deciso di scegliere quelli che secondo noi sono i 27 suggerimenti da non dimenticare mai in fase di scrittura.

  1. Usare frasi brevi (max 20-25 parole).
  2. Esplicitare i soggetti.
  3. Evitare la subordinazione, preferire la coordinazione.
  4. Limitare incisi e parentetiche (frasi brevi inserite in un costrutto). Se possibile, preferire frasi autonome, altrimenti porli alla fine della frase o almeno segnalarli con lineette.
  5. Preferire le frasi affermative.
  6. Preferire i modi e tempi verbali di uso più comune.
  7. Evitare espressioni desuete e il burocratese.
  8. Sciogliere le sigle.
  9. Evitare aggettivi o avverbi inutili.
  10. Preferire verbi semplici a perifrasi verbali (“dare comunicazione”: meglio dire “comunicare”).
  11. Usare parole comuni, concrete e dirette (“morte” invece di “trapasso”).
  12. Non esagerare con le ripetizioni e l’uso di “suddetto”, “sopracitato” e simili.
  13. Evitare tecnicismi eccessivi.
  14. Evitare l ’uso eccessivo del participio presente e la sua sostantivazione (il dichiarante, l’istante, il delegante).
  15. Evitare o limitare modi di dire e frasi fatte.
  16. Limitare l’uso del latino.
  17. Scegliere font facilmente leggibili, dalle forme convenzionali e ben spaziate.
  18. Preferire un’interlinea di 1,5 punti.
  19. Usare immagini o figure solo se necessario.
  20. Usare link per arricchire il testo di agganci a risorse esterne.
  21. Numerare le pagine, meglio indicando anche il numero totale (es. “2/15” oppure “pag. 3 di 18”)
  22. Inserire un indice per offrire una panoramica della struttura dell’atto.
  23. Numerare e titolare i paragrafi per facilitare l’individuazione dei punti di interesse.
  24. Inserire un breve prospetto di sintesi per offrire un quadro dei tratti essenziali.
  25. Numerare e titolare i documenti allegati e linkati.
  26. Usare caratteri differenti per distinguere i richiami esterni o le citazioni dal testo.
  27. Inserire i richiami giurisprudenziali nelle note a piè pagina.

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piano straordinario per la Giustizia italiana

Il piano straordinario per la Giustizia italiana proposto dall’OCF

Il documento per la ripresa della Giustizia italiana pubblicato ieri dall’Organismo Congressuale Forense inizia così:

«La condizione della macchina giudiziaria del nostro Paese ha raggiunto uno dei livelli più critici della storia repubblicana. Il sistema giudiziario italiano, già da decenni in grande difficoltà nel dare adeguata risposta alla domanda di Giustizia della società, dei cittadini e delle imprese, in questi ultimi mesi, oltre alle gravissime ripercussioni derivanti dall’adozione delle misure di profilassi per l’epidemia di “coronavirus”, è stato colpito dalle accelerazioni di fenomeni degenerativi che ne stanno minando la credibilità già messa a dura prova dalla sua cronica e nota inefficienza».

Il documento si prefigge l’obiettivo di affrontare immediatamente l’attuale stallo proponendo un “piano straordinario per la Giustizia italiana”, una giustizia che al momento è paralizzata, senza difesa e delegittimata.

IL PIANO STRAORDINARIO PER LA GIUSTIZIA ITALIANA

GIUSTIZIA PARALIZZATA

Il piano straordinario per la Giustizia italiana dell’OCF parte dal principale problema generatosi a causa delle misure di contenimento di COVID-19: lo stop della Giustizia.

A complicare la situazione hanno concorso diversi fattori, come la mancata adozione di misure per la messa in sicurezza degli ambienti giudiziari, la scarsità di risorse stanziate, la babele di protocolli prodotti dai diversi uffici giudiziari sulle modalità di riapertura, i limiti delle tecnologie telematiche e del lavoro agile, la gestione frammentata della giurisdizione.

Le soluzioni proposte sono:

  • -maggiori risorse e un piano per la messa in sicurezza degli ambienti che consenta la veloce ripresa delle attività nelle sedi preposte,
  • -la limitazione della giustizia telematica,
  • -l’individuazione di linee guida unitarie a livello nazionale per lo svolgimento delle attività giudiziarie,
  • -la costituzione di un tavolo unitario per la giurisdizione per realizzare un’«unitarietà di governo incentrata sulla efficacia della tutela delle parti e sulla effettiva terzietà del giudice»,
  • -il potenziamento delle strutture giudiziarie di prossimità,
  • -la riforma della prescrizione penale e la realizzazione di misure che garantiscano la ragionevole durata dei processi penali e la razionalizzazione dei tempi di quelli civili.

GIUSTIZIA SENZA DIFESA

Il secondo punto su cui si focalizza il piano straordinario per la giustizia italiana è la professione forense.

Il settimo enunciato del manifesto per la Giurisdizione, recita: «la garanzia di autonomia e indipendenza dell’Avvocato e di tutti i soggetti che concorrono all’esercizio della Giurisdizione sono strumento di effettività della tutela dei diritti e presidio di democrazia».

Ma per garantire un’Avvocatura che sia davvero efficace è importante che la professione riacquisisca dignità e sostenibilità.

Gli Avvocati stanno infatti affrontando grandi difficoltà dovute alla persistente crisi economica alla quale si aggiunge ora l’impossibilità di riprendere il lavoro a pieno regime.

L’OCF chiede quindi:

  • -il riconoscimento del ruolo dell’avvocato in Costituzione,
  • -la garanzia della sostenibilità della professione forense e della sua dignità retributiva e professionale,
  • -la garanzia dell’equo compenso e del pagamento del gratuito patrocinio,
  • forme assistenziali valide,
  • detassazione e contribuzione agevolata anche con l’obiettivo di facilitare l’ammodernamento tecnologico degli studi.

LA GIUSTIZIA DELEGITTIMATA

Il piano si concentra infine sulla crisi di credibilità dell’apparato giudiziario, percepibile soprattutto a fronte dei recenti fatti che hanno coinvolto la Magistratura.

L’OCF sostiene che siano necessari:

  • -la riforma dell’ordinamento giudiziario con la partecipazione dell’Avvocatura,
  • -la separazione delle carriere dei Magistrati, in modo da ristabilire principi di parità delle parti e di terzietà del Giudice nel settore penale,
  • -il rafforzamento della presenza della componente forense nei ruoli dirigenziali
    e consultivi degli apparati di governo della giurisdizione centrali e territoriali,
  • -l’inserimento della componente forense nei ruoli direttivi ministeriali.

Potete approfondire leggendo il testo integrale del documento per la ripresa della Giustizia italiana pubblicato dall’Organismo Congressuale Forense.

 

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Cosa succede se un lavoratore che ha scaricato l’app Immuni riceve la notifica di essere entrato in contatto con un infetto? Quali sono le conseguenze sull’operatività dell’azienda? E il datore di lavoro può imporre i test sierologici ai suoi dipendenti?

TEST SIEROLOGICI SÌ O NO?

Sul proprio sito, il Garante della Privacy ha fornito chiarimenti sulla possibilità, da parte del datore di lavoro, di far eseguire test sierologici ai dipendenti.

I test sierologici si inseriscono nel ventaglio si strumenti a disposizione per la gestione della diffusione di COVID-19, ma la loro esecuzione espone i lavoratori a potenziali rischi in tema di privacy.

L’idea che circola fra alcuni imprenditori è, infatti, quella di imporre ai propri lavoratori l’esecuzione dei test, magari periodicamente, in modo da venire immediatamente a conoscenza di contagi e adottare le misure di sicurezza sanitaria necessarie, sia nei confronti dell’infetto che dei colleghi.

Questo però non è assolutamente possibile.

I test sierologici possono essere disposti solo dal medico di competenza e sempre “nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie, anche in merito all’affidabilità e all’appropriatezza di tali test”.

Solo il medico competente può stabilire se vi siano le condizioni necessarie a richiedere esami clinici e diagnostici utili a contenere la diffusione del coronavirus (cfr. par. 12 del Protocollo condiviso tra il Governo e le Parti sociali aggiornato il 24 aprile 2020).

Ma anche qualora il medico autorizzasse tali indagini, il datore di lavoro non può consultare referti ed esiti (salvo i casi previsti dalla legge).  Chiaramente, può invece essere informato sull’idoneità alla mansione del dipendente, ad eventuali prescrizioni o limitazioni richieste dal medico competente.

Il datore di lavoro non può quindi imporre i test sierologici ai lavoratori, ma può sempre informarli sull’esistenza delle campagne di screening regionali alle quali possono decidere di aderire liberamente.

Inoltre, il datore può offrire ai suoi dipendenti la copertura totale o parziale dei costi dei test sierologici presso strutture sanitarie pubbliche e private (“tramite la stipula o l’integrazione di polizze sanitarie ovvero mediante apposite convenzioni con le stesse”). Anche in questo caso non può pretendere di conoscerne l’esito.

L’ISOLAMENTO DA APP IMMUNI

L’app Immuni ha lo scopo di informare celermente gli utenti che sono stati in contatto diretti con infetti.
Quando questa evenienza si realizza, la app invia all’utente una notifica, invitandolo a stare in isolamento per evitare di diffondere il contagio.
A questo punto, l’utente ha l’obbligo di informare il suo datore di lavoro, non può recarsi in azienda e deve attendere che gli venga effettuato il tampone.

Ma c’è un ma.

Nel momento in cui il lavoratore si isola, esattamente, che cos’è?

Infatti, non ha ancora fatto un tampone e quindi non è ufficialmente infetto (tant’è che il medico di base non può emettere un certificato di malattia). Allo stesso modo, non è più un comune lavoratore, poiché è confinato in casa.

Questa posizione indefinita porta a una conseguenza che, sia per il lavoratore che per il datore, è critica in una fase economica difficile come quella che stiamo vivendo ora: molteplici lunghe assenze.

Quanto tempo dovrà aspettare l’isolato prima di poter fare il tampone?
Quando avrà i risultati e saprà se potrà tornare a lavoro?
Questa assenza, che non rientra nella malattia, viene coperta dalle ferie?

Se poi il tampone dovesse risultare positivo, vi sarebbe la quarantena vera e propria?

E se in futuro il lavoratore dovesse ricevere una nuova notifica da parte di Immuni, tutto ricomincerebbe daccapo?

In tali condizioni, fare progetti sul medio e lungo periodo diventa difficile sia per i datori che per i lavoratori. E, sebbene non condivisibile, risulta quantomeno comprensibile la volontà di alcuni di avere un maggiore controllo sui dati sanitari dei propri dipendenti nel tentativo di riprendere le redini, così come risulta altrettanto comprensibile una maggiore disponibilità a rinunciare alla propria privacy nel tentativo di salvaguardare il proprio posto di lavoro.

 

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Deposito privo marca da bollo? La ricevuta di avvenuta consegna lo perfeziona

Secondo la Cassazione, la RAC, la ricevuta di avvenuta consegna che il sistema genera al momento dell’invio telematico degli atti, è sufficiente a perfezionare un deposito privo di marca da bollo.

PERCHÈ LA RAC PERFEZIONA IL DEPOSITO PRIVO DI MARCA DA BOLLO

L’ordinanza n 9664/2020 della Cassazione si riferisce al ricorso mosso da soggetti ai quali era stato rigettato il deposito proprio a causa dell’assenza della marca da bollo.
Regolarizzato il pagamento, la causa viene iscritta a ruolo ma ormai il termine dei 10 giorni dalla notifica dell’atto di citazione è esaurito e la Corte d’Appello dichiara l’appello improcedibile.

I soggetti ricorrono allora in Cassazione, chiedendo la remissione nei termini convinti che la Corte d’Appello abbia applicato in maniera non conforme l’art.285 del TU sulle spese di giustizia, non riconducibile all’invio telematico dell’iscrizione a ruolo.

La Cassazione accoglie il motivo del ricorso e rinvia alla Corte d’Appello in diversa composizione.

Anche la Corte accoglie il motivo poiché in linea col contenuto di una nota del 4 settembre 2017 con cui il Dipartimento Generale della Giustizia Civile del Ministero della Giustizia spiega che l’irricevibilità degli atti non in regola fiscalmente non è applicabile al deposito telematico dell’atto introduttivo.

Poi, a sostegno che il deposito dell’atto si perfezioni con la RAC, indipendentemente dalla marca da bollo, vi è l’art. 16 bis del DL n. 179/2012 in cui si legge che «Il deposito […] si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia».


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Nuove misure straordinarie di Cassa Forense

Nuove misure straordinarie di Cassa Forense

Le nuove misure straordinarie di Cassa Forense, disponibili sul sito dell’ente, sono pensate per sostenere gli iscritti anche durante la Fase 2 dell’emergenza COVID-19.

Con gli effetti del lock down sui mancati introiti e l’incertezza del futuro dovuta alla parziale ripartenza del settore della Giustizia, agli avvocati non rimane altro che cercare di mettere ordine da soli alla propria esistenza professionale.

Possono le misure straordinarie di Cassa Forense essere d’aiuto? A voi la risposta.
Noi possiamo solo darvene una panoramica.

LE MISURE STRAORDINARIE DI CASSA FORENSE

Misure a favore della salute

Una parte delle misure straordinarie di Cassa Forense è dedicata a coloro che nel periodo tra il 1 febbraio e il 2 giugno 2020 siano stati ricoverati per aver contratto il Coronavirus o posti in isolamento per essere stati in contatto diretto con contagiati.

Nei beneficiari sono compresi anche pensionati e i superstiti degli iscritti.

Misure per gli acquisti in tecnologia

1.500.000 euro vengono stanziati per un bando finalizzato a coprire fino al 50% delle spese che gli avvocati hanno sostenuto per acquistare tecnologie informatiche.

Gli acquisti considerati devono essere stati effettuati tra il 2019 e la data di pubblicazione del bando.

L’importo rimborsabile va dai 300 ai 1500 euro.

Il contributo non è cumulabile con altri contributi derivanti da bandi straordinari emanati nel 2020 o con contributi simili percepiti negli anni precedenti.

Misure per la copertura dei costi della professione

2.500.000 euro vengono messi a disposizione tramite un bando finalizzato al rimborso dei costi derivanti dall’attività professionale nel periodo tra febbraio e aprile 2020.

Il contributo forfettario è pari al 15% della differenza tra il volume di affari e il reddito netto professionale del 2018 come dichiarato con il Mod. 5/2019, e viene concesso nel caso in cui la differenza ammonti a una cifra compresa tra le 300 e le 1200 euro.

Per coloro che si sono iscritti a Cassa Forense nel 2019, a far fede saranno i dati reddituali del 2019.

Coloro che si sono iscritti nel 2020 sono esclusi dal bando, così come coloro che hanno goduto del reddito di ultima istanza in marzo e aprile e coloro che hanno beneficiato di contributi derivanti da altri bandi straordinari nel 2020. 

Misure per gli Ordini Forensi

1.500.000 euro sono destinati agli Ordini Forensi appartenenti alle 10 provincie più colpite dall’epidemia COVID-19 alla data del 3 maggio, valutando il numero di contagi ogni 1000 abitanti.

Gli ordini potranno usare i fondi a disposizione per realizzare progetti connessi all’emergenza sanitaria.

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Volete cacciare il vostro collega? Attenzione, potrebbe trattarsi di violenza privata

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Avete un collega avvocato che da “ospite temporaneo” è diventato una presenza fissa nel vostro studio? Non ne potete più e non riuscite a farlo sloggiare? Pensateci bene prima di cambiare la serratura senza avvisarlo o di sbarrargli la strada se tenta di entrare!

Un caso simile è oggetto della sentenza 15633/2020 con cui la Cassazione ritiene che impedire a un avvocato di entrare nello studio cambiando la serratura o sbarrando con il proprio corpo l’ingresso rappresenti una condotta violenta.

Ecco, per sommi capi, come si sono svolti i fatti.

Un avvocato si reca presso lo studio legale per prelevare i propri fascicoli ma scopre che la serratura è stata cambiata. Come se non bastasse, un suo collega si piazza all’ingresso nel tentativo di impedirgli l’accesso all’ambiente.

Ne consegue una causa che si conclude con l’assoluzione di quest’ultimo dall’accusa di violenza privata (articoli 392610 c.p.)  e dal reato di favoreggiamento per aver aiutato un altro soggetto a sviare le indagini rilasciando false dichiarazioni.

L’assoluzione viene conferma anche in Corte d’Appello, dove all’imputato vengono riconosciute le difficoltà riscontrate in precedenza nell’allontanare l’avvocato offeso che doveva essere una presenza solo temporanea nello studio.

L’avvocato offeso ricorre in Cassazione, convinto che il reato di violenza privata sussista, soprattutto tenuto conto che ha dovuto ricorrere all’autorità giudiziaria per tornare in possesso del suo materiale di lavoro.

E la Cassazione accoglie il ricorso.

PERCHÈ È VIOLENZA PRIVATA

La decisione della Cassazione si basa sull’idea che il reato di violenza privata possa includere anche condotte improprie e mezzi anomali il cui risultato sia influenzare la volontà o limitare la libertà altrui.

La Cassazione ha inoltre dimostrato che l’avvocato offeso non era poi un ospite così tanto temporaneo. A favore di questo fatto giocano:

  • la presenza del nome dell’avvocato offeso sulla targa esterna dello studio;
  • la presenza nello studio di arredi e spazi a lui dedicati;
  • Il suo contributo alle spese dello studio.

Nella sentenza dunque si legge: «l‘esistenza di ragioni che avrebbero consentito a [imputato] di escludere dall’immobile [avvocato offeso] può assumere rilievo ai fini della qualificazione della condotta come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma non certo a consentire una violenta condotta idonea a incidere sulla libertà di autodeterminazione del primo.»

 

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Decreto “Rilancio”: le misure in materia di Giustizia

Decreto "Rilancio": le misure in materia di Giustizia

Decreto “Rilancio”: le misure in materia di Giustizia

Il decreto n.34 del 19 maggio 2020, cosiddetto “Rilancio”, contiene numerose misure che riguardano il settore della Giustizia.

L’Ufficio studi del Consiglio Nazionale Forense selezionato gli articoli i cui contenuti che hanno un impatto sugli Avvocati e gli Ordini Forensi e li ha raccolti in una scheda di lettura.

Le misure riguardano:

  • finanziamenti alla Giustizia,
  • fiscalità,
  • lavoro, ammortizzatori sociali e lavoro agile,
  • l’esame di abilitazione alla professione forense,
  • atti e procedimenti amministrativi.

Nei giorni a venire cercheremo di dare una panoramica su ognuno di questi temi.
Partiamo oggi con le misure in materia di Giustizia.

MISURE IN MATERIA DI GIUSTIZIA

Le misure in materia di Giustizia sono contenute negli articoli dal 219 al 221 del decreto.

L’art. 219

Dispone risorse e stanziamenti economici con l’obiettivo di affrontare al meglio gli ostacoli generati dall’emergenza sanitaria.

La somma totale a disposizione è di 40.000.000 euro.

La spesa autorizzata per il 2020 è di quasi 32.000.000 euro.
È destinata soprattutto all’implementazione delle misure di sicurezza e alla santificazione degli uffici giudiziari e degli ambienti delle articolazioni centrali del Ministero della Giustizia, ma anche all’acquisto di materiali igienico-sanitari, dispositivi di protezione individuale, apparecchiature informatiche e loro licenze.

Più di 4.600.000 euro sono destinati all’acquisto di hardware e software per il «personale degli istituti e dei servizi dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile e di comunità».

Quasi 9.900.000 euro sono destinati al personale delle amministrazioni e della polizia penitenziaria. Parte di questa quota va al pagamento del lavoro straordinario.

L’art. 220

Copre solo il 2020 e dispone che «il 98% delle risorse intestate al Fondo Unico Giustizia al 31 dicembre 2018, versate nel 2019, relative alle confische e agli utili della gestione finanziaria del medesimo fondo vengano riassegnate in parti uguali agli stati di previsione del Ministero della Giustizia e del Ministero dell’interno».

I fondi verranno usati per finanziare interventi urgenti volti a contenere e gestire l’emergenza sanitaria o a coprire somme già anticipate per tali finalità.

L’art. 221

Aggiunge al secondo comma dell’art. 83 del DL 18/20 (convertito con modificazioni in legge 27/20), la sospensione del termine per proporre querela (art. 124 c.p.c) «per il periodo compreso tra il 9 marzo 2020 e l’11 maggio 2020». Ciò significa che dai 3 mesi indicati dall’art. 124 c.p. vanno sottratti i 63 giorni compresi nell’intervallo temporale previsto.

 

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