Lavoro su piattaforma, cambia tutto: arriva la presunzione legale di subordinazione

Una rivoluzione silenziosa si prepara a trasformare il mondo del lavoro digitale in Italia. Con l’approvazione della Legge di delegazione europea n. 91/2025, il Parlamento ha conferito al Governo il compito di recepire diverse direttive UE, tra cui una delle più attese e dibattute: la Direttiva 2024/2831 sul lavoro tramite piattaforme digitali.

Al centro della riforma, una misura dirompente: l’introduzione di una presunzione legale di subordinazione nei confronti delle piattaforme digitali, ogni volta in cui siano riscontrabili specifici indici di controllo, direzione o coordinamento.
Un cambiamento di prospettiva che ribalta l’onere della prova: non sarà più il lavoratore a dover dimostrare di essere un dipendente subordinato, ma toccherà alla piattaforma provare il contrario.


Verso un nuovo equilibrio tra flessibilità e tutela

Il principio dovrà trovare attuazione attraverso un decreto legislativo previsto entro dodici mesi, che interverrà sul Dlgs 81/2015, già contenente la disciplina delle collaborazioni organizzate dai committenti.
Il nuovo meccanismo dovrà essere integrato senza annullare quanto già esiste: oggi, infatti, l’articolo 2 del Dlgs 81 prevede che le collaborazioni etero-organizzate siano assoggettate alla disciplina del lavoro subordinato, anche in assenza di una formale qualificazione come rapporto di dipendenza. Una tutela “rimediale”, secondo la Corte di Cassazione.

La direttiva UE introduce invece una presunzione diretta e qualificatoria: se ci sono determinati indici, il rapporto è giuridicamente subordinato a prescindere da come è stato formalmente definito. Una differenza non da poco.


Un doppio binario normativo?

Il recepimento della direttiva dovrà quindi risolvere un nodo centrale: come far coesistere il sistema “rimediale” italiano con quello “presuntivo” europeo.
Tra le ipotesi allo studio, quella di un doppio binario: da un lato, mantenere il regime attuale basato sull’estensione ex lege delle tutele; dall’altro, introdurre una presunzione automatica modellata sull’esperienza della “legge Fornero” del 2012 (già applicata in caso di false partite IVA), in cui la presenza di specifici requisiti produce una qualificazione immediata del rapporto come subordinato, salvo prova contraria.

Secondo gli osservatori, tale meccanismo potrebbe essere collocato all’interno degli articoli 47-bis e seguenti del Dlgs 81/2015, in modo da creare una struttura coerente e organica.


Oltre la subordinazione: le altre novità in arrivo

Ma la delega non si ferma alla presunzione legale. L’articolo 11 della legge prevede anche una serie di criteri direttivi che arricchiranno la disciplina del lavoro tramite piattaforma:

  • ridefinizione giuridica del concetto di piattaforma digitale;

  • nuove procedure per accertare la natura del rapporto;

  • limitazioni all’uso di algoritmi per il controllo e le decisioni automatizzate;

  • adeguamento delle tutele previdenziali;

  • maggiore trasparenza nella gestione dei dati;

  • rafforzamento delle misure per la salute e sicurezza sul lavoro, incluse quelle contro molestie e violenze.


Un confronto necessario con imprese e lavoratori

Vista la delicatezza della materia e l’impatto sull’intero ecosistema digitale, sarà cruciale che il Governo apra un tavolo di confronto con le parti sociali.
Solo attraverso il dialogo sarà possibile adottare regole eque, sostenibili e applicabili, in grado di proteggere i lavoratori senza mettere in crisi la competitività delle imprese digitali.


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Nel suo ultimo report sul costo del lavoro pubblico, la Corte dei Conti traccia una fotografia chiara e, per molti aspetti, preoccupante del pubblico impiego italiano. Il dato più immediato è quello dei 201 miliardi di euro previsti nel 2025 per le retribuzioni dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Una cifra che equivale al 9% del PIL nazionale, in crescita del 2,3% rispetto al 2024, e destinata ad aumentare anche nei prossimi anni: +2,4% nel 2026, +0,5% nel 2027, +1,7% nel 2028.

Questi aumenti, osserva la Corte, riflettono sia l’impatto dei rinnovi contrattuali previsti dalla legge di bilancio, sia la necessità di rivalutare gli stipendi per allinearli al tasso d’inflazione. Tuttavia, nel biennio 2022-2023, l’aumento dei prezzi ha superato la crescita salariale, con una perdita generalizzata del potere d’acquisto per tutti i lavoratori, pubblici e privati.


Le retribuzioni: forti le differenze tra settori

Nel 2023 la retribuzione media lorda annua di un dipendente pubblico si è attestata a 39.890 euro, in aumento del 3,1% rispetto al 2022. Ma i dati disaggregati rivelano una significativa disomogeneità tra i comparti:

  • Istruzione: 33.124 euro annui

  • Funzioni centrali: 41.710 euro

  • Sanità: 43.883 euro

  • Magistratura e forze dell’ordine (comparti autonomi): 52.469 euro


Le criticità strutturali: invecchiamento, smart working, formazione

Oltre alle cifre, la Corte segnala criticità strutturali storiche, aggravate da anni di moratoria sulle assunzioni. L’età media dei dipendenti pubblici resta alta e solo negli ultimi anni, anche grazie agli investimenti del PNRR, si è avviato un parziale rinnovamento generazionale. Ma il cammino sarà lungo: serviranno anni per colmare il divario e ringiovanire davvero gli organici.

Particolare attenzione è riservata al lavoro agile, divenuto pratica diffusa in molte amministrazioni dopo la pandemia. Pur riconoscendone l’utilità per la conciliazione vita-lavoro, la Corte invita a non trasformarlo in un automatismo:

«Le amministrazioni devono valutare con attenzione lo smart working, in un’ottica di efficienza e miglioramento dei servizi alla collettività».

Una presa di posizione che riaccende il dibattito sull’effettiva efficacia di alcune pratiche introdotte in emergenza e poi stabilizzate senza un’adeguata valutazione dei risultati.


Meritocrazia e formazione: la vera sfida

Tra i punti cruciali sottolineati dalla magistratura contabile spicca la necessità di valorizzare il merito individuale, puntando su:

  • formazione continua,

  • aggiornamento delle competenze,

  • premialità legata ai risultati.

Un obiettivo ambizioso che richiederà interventi normativi, pianificazione strategica e pieno utilizzo delle risorse del PNRR. Ed è già al centro della riforma avviata dal ministro della Pubblica Amministrazione, Paolo Zangrillo.


Contratti e aumenti: cosa aspettarsi

Infine, la Corte ribadisce il ruolo centrale della contrattazione collettiva, a cui resta affidata la definizione delle politiche retributive. Per il triennio 2022-2024, le risorse disponibili garantiranno un aumento salariale medio del 5,78% a partire dal 2025. E sono già previsti ulteriori fondi per il rinnovo dei contratti nel triennio successivo.


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Riforma dell’ordinamento forense rinviata: il nuovo disegno di legge slitta a dopo l’estate

Per l’avvocatura ci sarà ancora da aspettare. Il disegno di legge delega per il nuovo ordinamento forense, atteso al Consiglio dei ministri di inizio agosto, non è stato discusso e verrà esaminato solo dopo la pausa estiva. Un rinvio tecnico, ma che ritarda l’iter di una riforma considerata centrale da tutti i soggetti rappresentativi della professione.

Il testo in preparazione – frutto di un lavoro concertato tra il Consiglio nazionale forense, le unioni regionali, gli ordini, le associazioni, i comitati pari opportunità e i consigli di disciplina – ha l’obiettivo di superare le ambiguità interpretative della legge 247 del 2012, che negli anni ha generato contenziosi e incertezze normative, erodendo la coesione interna alla categoria.

Le novità previste dal nuovo impianto normativo

Il disegno di legge, così come finora delineato, introduce interventi strutturali che vanno dalla ridefinizione della compatibilità tra l’esercizio della professione forense e la titolarità di cariche societarie, alla valorizzazione delle collaborazioni continuative e delle posizioni monocommittenti, passando per il rafforzamento delle reti tra professionisti e l’incentivazione della dimensione organizzata dell’attività forense.

Tra le misure più significative, figura la possibilità per l’avvocato di ricoprire la qualifica di socio illimitatamente responsabile, purché limitata alla gestione di beni personali o familiari. Una novità che mira a conciliarne il ruolo con il principio di autonomia professionale, evitando automatismi di incompatibilità ritenuti ormai superati.

Il ruolo dell’avvocatura e il nodo costituzionale

Il percorso verso un nuovo ordinamento forense si intreccia con un’altra questione da tempo dibattuta: l’inserimento della figura dell’avvocato in Costituzione. Un riconoscimento simbolico e sostanziale, che il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva tentato di inserire nel disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere. Ma quella finestra si è chiusa, e ora si cerca un nuovo spazio legislativo.

Secondo quanto trapela, il guardasigilli starebbe valutando la possibilità di agganciare la modifica costituzionale a un’altra riforma più ampia, confidando nel sostegno trasversale di diverse forze politiche. Un’operazione che richiederebbe un’attenta costruzione del consenso, ma che potrebbe dare all’avvocatura il riconoscimento costituzionale della sua funzione pubblica e democratica.

Un’attesa strategica per una riforma condivisa

Il rinvio del disegno di legge è vissuto, da una parte, come un’occasione per affinare ulteriormente il testo, anche alla luce delle osservazioni arrivate dai rappresentanti istituzionali e dalle associazioni. Dall’altra, però, rischia di alimentare un senso di frustrazione all’interno di una categoria che da anni chiede una normativa più chiara, moderna e aderente alle evoluzioni della professione.

Nel frattempo, la coesione mostrata dalle componenti dell’avvocatura nella fase di redazione preliminare rappresenta un segnale politico importante: la riforma nasce da un confronto inclusivo, non da una spinta unilaterale. E questo potrebbe essere determinante per garantirle un iter parlamentare più lineare e meno esposto alle tensioni di parte.


Verso settembre con nuove sfide

Con il rientro dalle ferie, il governo sarà chiamato a sciogliere i nodi rimasti sul tavolo e a calendarizzare l’esame del provvedimento. L’obiettivo dichiarato è di chiudere il percorso della delega entro la fine del 2025. Ma molto dipenderà dagli equilibri politici post-estivi e dalla capacità di mantenere aperto il dialogo tra istituzioni e categoria forense.


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È la Cina che rallenta l’Italia: quando l’export cade, il Pil frena

Una frenata contenuta, ma simbolica. Il secondo trimestre 2025 si chiude per l’economia italiana con una contrazione congiunturale dello 0,1% del Pil, un dato che interrompe la striscia positiva avviata alla fine del 2024. Secondo l’Istat, si tratta di un calo minimo – lo 0,07% per la precisione – e che non modifica la crescita acquisita per l’anno, ancora ferma a +0,5%. Ma il rallentamento ha attirato l’attenzione degli analisti per una ragione ben precisa: a trainare la flessione non è stata la domanda interna, che continua a mostrare dinamismo, bensì la componente estera.

Il confronto con la Francia: due economie, due fragilità

A rendere il quadro ancora più interessante è il paragone con la Francia. Oltre le Alpi, nel secondo trimestre l’economia è cresciuta dello 0,3%, ma grazie a un elemento effimero: le scorte di magazzino, che hanno rappresentato il principale motore della crescita per due trimestri consecutivi. In termini di domanda interna effettiva, infatti, Parigi ha segnato il passo, con un dato piatto tra aprile e giugno e una componente estera negativa.

In Italia, al contrario, la domanda interna ha continuato a espandersi, mantenendo la sua spinta anche nel secondo trimestre 2025, nonostante il rallentamento complessivo del Pil. Il vero punto critico, secondo le stime provvisorie, riguarda il contributo negativo della domanda estera netta, cioè la differenza tra esportazioni e importazioni.

La bilancia commerciale si riduce: cosa sta accadendo?

I numeri della bilancia commerciale italiana offrono un indizio importante. Nei primi cinque mesi dell’anno, l’avanzo commerciale si è ridotto da +24 miliardi di euro (gennaio-maggio 2024) a +17,5 miliardi nel 2025, segnando un calo significativo di 6,5 miliardi di euro. Eppure, non si tratta di un effetto delle tensioni tariffarie con gli Stati Uniti: anzi, l’export verso gli USA è aumentato, con un surplus salito a +17,4 miliardi, contro i +16,4 miliardi dello stesso periodo dell’anno precedente.

L’attenzione si sposta quindi su un altro attore globale: la Cina. I segnali provenienti da Pechino parlano da mesi di una crescita rallentata, di una domanda interna debole e di un minor ricorso all’import di beni intermedi e di consumo dall’Europa. L’Italia, che aveva trovato nella Cina un mercato in espansione per molte categorie merceologiche (dalla meccanica ai beni di lusso), ora paga l’inversione di tendenza del gigante asiatico.

Dietro la flessione del Pil, la frenata cinese

Sebbene i dati attuali riguardino valori nominali e non ancora i volumi reali (che saranno disponibili con la seconda stima Istat), gli indizi sembrano convergere su un fattore esogeno ben preciso: la contrazione della domanda cinese nei confronti del Made in Italy. Un impatto che, se confermato nei prossimi mesi, potrebbe diventare strutturale, specie se Pechino dovesse mantenere un orientamento di contenimento delle importazioni.

L’economia italiana, storicamente ancorata all’export e all’integrazione produttiva con i mercati internazionali, appare dunque vulnerabile ai contraccolpi della congiuntura globale, soprattutto quando l’area asiatica rallenta. La tenuta della domanda interna, per quanto solida, potrebbe non bastare a garantire una crescita stabile se l’export continuerà a perdere terreno.


Uno scenario da monitorare

In attesa della prossima revisione dei dati da parte dell’Istat, il rallentamento del Pil italiano nel secondo trimestre 2025 rappresenta un primo segnale d’allarme, più qualitativo che quantitativo. La dinamica estera va osservata con attenzione, perché la debolezza del commercio internazionale, aggravata dalle incertezze geopolitiche e dalle tensioni su dazi e catene logistiche, potrebbe minare gli equilibri raggiunti negli ultimi trimestri.

In questo contesto, l’Italia si trova costretta a un esercizio difficile: rafforzare la domanda interna senza perdere competitività sui mercati esteri. Un compito reso ancora più arduo dall’instabilità globale e dalla necessità di mantenere la rotta tracciata dal Pnrr.


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Caso Almasri, Nordio contro ANM: “Interferenze inaccettabili, Parodi travalica i confini istituzionali”

Lo strappo tra il ministero della Giustizia e l’Associazione nazionale magistrati si allarga. Dopo il malumore manifestato dalla premier Meloni in relazione alla gestione del caso Almasri e alla selettività dell’azione giudiziaria nei confronti di alcuni membri del governo, è ora il guardasigilli Carlo Nordio a intervenire direttamente nel confronto, questa volta con toni particolarmente critici nei confronti del presidente dell’ANM, Parodi.

Nel mirino del ministro non è soltanto il merito delle dichiarazioni rilasciate da Parodi, ma anche – e soprattutto – il riferimento alla capo di gabinetto del ministero, Giusi Bartolozzi, il cui nome, secondo Nordio, non figura negli atti formali dell’indagine e non dovrebbe, pertanto, essere oggetto di valutazioni pubbliche da parte di un rappresentante dell’associazionismo giudiziario.

Il nodo della riservatezza e delle prerogative istituzionali

Il riferimento alla capo di gabinetto – già emerso nei retroscena pubblicati da La Stampa, in merito a una presunta gestione non filtrata del caso Almasri – viene considerato dal ministro una violazione dei confini istituzionali, ma anche un potenziale elemento di preoccupazione. Secondo quanto affermato, se il presidente ANM è effettivamente a conoscenza di elementi che non risultano ufficialmente acquisiti, potrebbe configurarsi un accesso improprio a informazioni riservate.

La replica di Nordio segna un evidente irrigidimento dei rapporti tra governo e magistratura associata, e si inserisce in un clima già teso per via della riforma sulla separazione delle carriere, attualmente in fase avanzata di approvazione parlamentare, e della gestione del contenzioso nato dall’arresto del criminale libico, poi riconsegnato a Tripoli.

Un equilibrio sempre più fragile tra poteri

La reazione del ministro, sebbene tecnica nei contenuti, ha un impatto fortemente politico. Si inquadra, infatti, nel contesto di una sovrapposizione crescente tra giustizia e politica, in cui ogni presa di posizione pubblica può alimentare la sensazione di uno scontro tra poteri, con ricadute sul piano istituzionale.

Da Palazzo Chigi, intanto, si mantiene un profilo più prudente rispetto alle parole del ministro, ma non è un mistero che il caso abbia incrinato alcuni equilibri interni. Il coinvolgimento di figure chiave come Nordio, Piantedosi e Mantovano, in assenza di contestualizzazione piena del ruolo di Meloni, ha suscitato malumori e sospetti di natura politica, ora aggravati dal rischio di un allargamento dell’indagine.


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Meloni irritata per l’indagine sul caso Almasri: “Non si governa a mia insaputa”

La premier Giorgia Meloni non ha nascosto la sua irritazione. Lo ha fatto sapere a La Stampa, dopo la notifica di archiviazione ricevuta per il caso Almasri, l’indagine legata alla gestione del criminale libico arrestato in Italia e poi riconsegnato alle autorità di Tripoli. Una vicenda che, pur non avendo conseguenze dirette per lei, coinvolge tre figure centrali del governo – i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano – generando una tensione politica palpabile a Palazzo Chigi.

Secondo la ricostruzione riportata da La Stampa, la premier avrebbe appreso formalmente la notizia già prima di volare ad Ancona per un impegno istituzionale. L’avvocata Giulia Bongiorno, che rappresenta Meloni ed è anche senatrice, le avrebbe notificato il documento appena depositato in cancelleria. Il clima all’interno del governo, da quel momento, è diventato più teso.

Il nodo politico: un messaggio che divide

La questione giudiziaria è solo un lato della medaglia. L’altro, ben più sensibile per Meloni, riguarda l’implicito messaggio politico che emergerebbe dalla decisione del Tribunale dei ministri: l’idea che alcuni membri dell’esecutivo possano aver agito in autonomia, senza il coordinamento della presidente del Consiglio. Un’ipotesi che, secondo ambienti vicini alla premier, suonerebbe come un tentativo di delegittimazione istituzionale.

A Palazzo Chigi, infatti, viene ribadito che ogni decisione governativa, soprattutto in materia di sicurezza, è sempre stata il frutto di una linea condivisa. La distinzione operata dai giudici – archiviazione per la premier, possibile autorizzazione a procedere per altri tre esponenti dell’esecutivo – è percepita come una forzatura, e forse anche come un tentativo di minare la compattezza dell’azione di governo.

Strategie in evoluzione e un iter ancora incerto

Fino a pochi giorni fa, tra i vertici istituzionali si dava per scontato che l’unico destinatario di un eventuale procedimento parlamentare sarebbe stato il ministro della Giustizia. L’estensione del coinvolgimento anche a Piantedosi e Mantovano ha rimesso tutto in discussione. Il governo si trova ora a gestire uno scenario più complesso, anche dal punto di vista comunicativo, con il rischio che la vicenda si protragga ben oltre le previsioni.

L’iter prevede che, dopo la richiesta di autorizzazione a procedere, la Giunta parlamentare competente abbia trenta giorni di tempo per esprimere un parere. La relazione approderà poi in Aula, dove si voterà a scrutinio segreto e con maggioranza assoluta. Un percorso che, di fatto, rende impossibile una chiusura immediata della partita.

Nel frattempo, la premier ha annunciato l’intenzione di presenziare personalmente in Aula al momento del voto, un gesto che mira a rafforzare la coesione politica e a riportare l’attenzione sulla guida unitaria del governo. Ma restano le incertezze legate al possibile ampliamento del fascicolo giudiziario.

Il rischio dell’allargamento dell’indagine

Nelle file della maggioranza si guarda con preoccupazione al passaggio successivo: gli atti del Tribunale dei ministri passeranno ora alla Procura di Roma, guidata da Francesco Lo Voi, già oggetto di critiche da parte di alcuni esponenti del centrodestra. Il timore è che, sulla base della documentazione trasmessa, possano emergere nuovi elementi che allarghino il perimetro dell’indagine.

Tra i nomi sotto osservazione ci sarebbe anche quello della capo di Gabinetto del ministero della Giustizia, Giusi Bartolozzi. Alcuni sospettano che abbia agito in modo autonomo nella gestione dell’arresto e del trasferimento del cittadino libico, bypassando il ministro Nordio. L’episodio, se confermato, potrebbe aprire un fronte interno al dicastero di via Arenula, con possibili richieste di dimissioni.

Una vicenda giudiziaria dal peso politico crescente

Nonostante la probabilità che il Parlamento blocchi ogni autorizzazione a procedere, la questione resta aperta sul piano politico e istituzionale. La decisione di archiviare solo per Meloni, escludendola dal potenziale processo, non sembra aver alleggerito le tensioni, ma al contrario le ha amplificate. Se da un lato rafforza la posizione della premier, dall’altro offre appigli alle opposizioni e alimenta il sospetto – diffuso nella maggioranza – di una possibile strumentalizzazione giudiziaria.


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Nordio tra riforme e tensioni istituzionali: giustizia, avvocatura e Pnrr al centro dell’agenda

La giustizia come banco di prova della legislatura e della tenuta istituzionale. In una lunga intervista rilasciata al quotidiano Il Dubbio, il ministro della Giustizia Carlo Nordio traccia un bilancio del suo mandato e rilancia i prossimi obiettivi: dalla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere alla revisione dell’ordinamento forense, passando per il potenziamento della macchina giudiziaria in vista delle scadenze imposte dal Pnrr. Il tutto in un clima ancora attraversato da profonde tensioni con l’Associazione nazionale magistrati, su cui il ministro lancia un avvertimento netto.

Più risorse e strumenti per una giustizia “da obiettivo”

Sul fronte operativo, Nordio rivendica il rafforzamento dell’amministrazione giudiziaria, con investimenti significativi a partire dal 2022. Tra i principali interventi, spiccano l’aumento dei fondi per le assunzioni in magistratura e per il personale amministrativo, la riqualificazione edilizia degli uffici giudiziari e il rafforzamento del Fondo unico di Giustizia. Anche la magistratura onoraria, spesso rimasta ai margini, è destinataria di nuove risorse tramite l’istituzione di un fondo specifico.

Il pacchetto più strategico resta quello legato al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Oltre alla digitalizzazione integrale del processo penale di primo grado e all’efficientamento degli immobili, l’agenda Pnrr prevede la drastica riduzione delle pendenze civili e dei tempi medi dei processi, sia civili sia penali, entro giugno 2026. Per centrare questi traguardi, il governo ha approvato nuove misure normative e organizzative in Consiglio dei ministri, tra cui l’assegnazione temporanea di magistrati ai tribunali più in difficoltà, anche con modalità “da remoto”, e la proroga dell’impiego dei giudici onorari di pace in supplenza.

La dialettica con l’Anm e il peso delle correnti

Nel colloquio con Il Dubbio, Nordio torna anche sul rapporto complicato con l’Anm. La frattura, spiega, nasce da una trasformazione delle correnti interne alla magistratura, da luoghi di espressione culturale a centri di potere organizzato. A questo si aggiunge, da tempo, una divergenza di fondo sull’impianto del processo accusatorio, in particolare sulla mancata separazione delle carriere, considerata dal ministro un nodo strutturale.

La riforma costituzionale in materia, ormai in fase avanzata, è destinata a segnare una cesura definitiva. Ma il timore del ministro è che il confronto referendario possa degenerare in uno scontro frontale tra politica e magistratura, con esiti istituzionalmente rischiosi.

Tribunali e Pnrr: interventi a tutto campo

Le misure varate per sostenere la giustizia nel percorso Pnrr toccano numerosi aspetti del sistema. Oltre all’applicazione straordinaria a distanza di centinaia di magistrati – anche fuori ruolo – presso gli uffici più congestionati, è prevista la redazione di piani d’intervento straordinari da parte dei capi degli uffici giudiziari. Anche il tirocinio dei nuovi magistrati verrà rimodulato per potenziare la loro operatività nelle Corti d’appello.

Tra le proroghe inserite nel recente decreto-legge figurano il rinvio al 31 ottobre 2026 dell’entrata in vigore delle nuove competenze dei giudici di pace, dell’attivazione del Tribunale della famiglia e dell’utilizzo dei giudici ausiliari. In parallelo, la magistratura ordinaria vedrà un ampliamento della dotazione organica di 58 unità, destinate a rafforzare in particolare gli Uffici di sorveglianza.

Avvocatura al centro: riforma dell’ordinamento in arrivo

Un altro pilastro dell’agenda Nordio riguarda il riconoscimento del ruolo dell’avvocatura. Dopo aver firmato a maggio la Convenzione europea per la protezione degli avvocati, il guardasigilli ha portato in Consiglio dei ministri la delega per la riforma dell’ordinamento forense. L’obiettivo è superare le ambiguità interpretative della legge 247/2012, che hanno alimentato tensioni interne alla categoria, garantendo una maggiore coerenza normativa e una più netta definizione dei principi fondativi della professione.

Un percorso che, nelle intenzioni del ministro, si concluderà in tempi brevi e riaffermerà il ruolo centrale dell’avvocato come garante del diritto di difesa e attore fondamentale della giurisdizione. A margine, Nordio ha anche ribadito che, una volta raggiunti gli obiettivi tecnici imposti dal Pnrr, si potrà riaprire il dibattito sulla trattazione scritta delle udienze, che oggi limita la presenza fisica dei difensori in aula.


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Il progetto più simbolico – e più discusso – del ministro Matteo Salvini arriva a una svolta. Dopo anni di annunci, polemiche e riformulazioni normative, domani il Cipess (Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile) darà il via libera alla spesa pubblica per il Ponte sullo Stretto di Messina: 13,5 miliardi di euro, coperti integralmente dal bilancio statale.

Nonostante l’assenza di un progetto esecutivo definitivo e le numerose criticità aperte, si procederà con la firma del contratto tra la società pubblica Stretto di Messina e il consorzio Eurolink, controllato in larga parte da Webuild. Si tratterà del primo vero passaggio operativo dopo la riattivazione del cantiere normativo nel 2023 con il cosiddetto “decreto Salvini”.

Contratto blindato: penali e vincoli per lo Stato

Con la delibera Cipess, il contratto potrà essere sottoscritto e con esso anche le clausole penali in caso di mancata realizzazione dell’opera. È su questo punto che si concentra il fuoco delle opposizioni. Il deputato di Alleanza Verdi-Sinistra, Angelo Bonelli, denuncia un rischio concreto per le casse pubbliche: “Lo Stato potrebbe essere costretto a pagare fino a 1,5 miliardi di euro se il ponte non verrà costruito”, ha dichiarato, ricordando un precedente contenzioso del 2011 in cui i privati chiedevano un risarcimento pari al 10% del valore dell’opera.

La società Stretto di Messina ridimensiona l’allarme: le penali saranno al massimo del 5% sui lavori non eseguiti, e solo entro quattro quinti del valore residuo del contratto. “Una soglia dimezzata rispetto a quella prevista dal codice degli appalti”, fanno sapere i vertici della società pubblica, che si impegnano a rendere pubblici tutti i contratti.

Tuttavia, una cosa è certa: una volta firmato l’accordo, lo Stato avrà obblighi giuridici concreti verso i soggetti privati, con l’impossibilità di fare marcia indietro senza pesanti conseguenze economiche.

Un progetto senza tutti i permessi (e con tante incognite)

A oggi, il progetto esecutivo non è ancora completo. Il ministero dell’Ambiente ha dato l’ok con prescrizioni e la Commissione europea non si è ancora espressa sulla compatibilità ambientale, soprattutto per quanto riguarda le aree naturali non ripristinabili. Il governo italiano ritiene che Bruxelles non abbia voce in capitolo, ma gli ambientalisti e alcune forze parlamentari stanno lavorando per ottenere una presa di posizione ufficiale dall’esecutivo UE.

Intanto restano congelati i pareri dell’INGV, ISPRA e ANAC, che secondo Bonelli sono stati “esautorati” dalla procedura di valutazione. Proprio l’ANAC (Autorità Anticorruzione) ha recentemente sollevato dubbi sull’equilibrio del meccanismo contrattuale, giudicandolo “sbilanciato a favore dei privati”.

Anche sul fronte tecnico, si continua a ragionare per “stralci”: i cantieri potranno essere aperti a fasi, senza attendere l’approvazione del progetto completo. Una scelta che consente di accelerare i tempi, ma che aumenta i margini di rischio, anche normativo.

Salvini esulta: “Momento storico”, ma le incognite restano

Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini parla di “momento storico”, ricordando come il progetto si fosse arenato già dai tempi del governo Berlusconi, e sottolineando che l’opera è ora considerata da Palazzo Chigi “strategica anche a fini militari nell’ambito NATO”.

Tuttavia, la configurazione attuale è ben diversa da quella del passato: il costo è interamente a carico dello Stato, e non più suddiviso con i privati. Il nuovo importo di 13,5 miliardi è stato determinato con un emendamento proposto dalla Lega, calcolando l’aumento dei prezzi delle materie prime rispetto ai valori del 2010.


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Ceto medio cercasi: il declino di un’illusione collettiva

Il dibattito sul declino del ceto medio è tornato prepotentemente alla ribalta. Ma di quale ceto medio stiamo parlando? La domanda è tutt’altro che retorica, e va ben oltre la cronaca politica o l’interpretazione statistica. È una questione culturale, sociale, economica, e soprattutto semantica: più che di una classe unitaria, si tratta di un mosaico complesso, che riunisce sotto la stessa etichetta realtà profondamente diverse.

Già negli anni Settanta, Paolo Sylos Labini aveva contribuito a rompere lo schema tradizionale di lettura delle classi sociali, mostrando l’emergere di “ceti medi” plurali — una piccola borghesia diffusa, legata al commercio, all’artigianato, all’agricoltura, spesso alimentata da politiche clientelari. Una realtà che non poteva più essere spiegata solo attraverso i paradigmi marxisti della lotta di classe.

Tra colli bianchi e insalata mista

A smentire ogni idea di omogeneità è stata la stessa sociologia. Charles Wright Mills, già nel 1951, aveva messo a fuoco l’ambiguità dei cosiddetti “colletti bianchi”, mentre Arnaldo Bagnasco definiva la classe media come una “insalata mista di occupazioni”: lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, impiegati pubblici e privati. Solo quando si vuole descrivere un insieme accomunato da stili di vita, modelli di consumo e una certa visione del mondo, si può forse parlare di ceto, e non più di classe.

Ma anche questo concetto è oggi sotto pressione. Non solo per via delle trasformazioni del mercato del lavoro e della crisi della mobilità sociale, ma anche per l’allargarsi della forbice interna: tra i ceti medio-alti e quelli medio-bassi, tra chi si è adattato alla globalizzazione e chi è rimasto ai margini della “città del lavoro”.

Il welfare in affanno e la parabola delle illusioni

La discussione sulla tenuta del ceto medio porta inevitabilmente a quella sul welfare, pilastro della coesione sociale. Quando Thomas Marshall, nel secondo dopoguerra, teorizzava una progressiva convergenza tra libertà ed eguaglianza grazie allo sviluppo del welfare state, immaginava un percorso che, alla prova dei fatti, si è dimostrato fragile. Le protezioni sociali, a differenza dei diritti civili e politici, dipendono in larga misura dalle risorse economiche, e dunque dal mercato. Risorse che, a un certo punto, non sono più state garantite con la leva fiscale ma solo attraverso l’indebitamento.

Da decenni i sistemi di welfare, non solo in Italia, vivono una crisi strutturale, schiacciati tra l’invecchiamento demografico, le nuove forme di lavoro e la crescente precarietà. In Italia, più che altrove, il tema è stato rinviato. Non affrontato. Rimandato.

L’arte del rinvio: un carattere nazionale?

È qui che riemerge un tratto tipico del costume politico italiano: l’istituzione del rinvio. Lo osservava già Piero Calamandrei, quando sottolineava la tendenza nazionale a evitare scelte nette, a procrastinare, a convivere con l’ambiguità. Un costume a cui replicava, in chiave ironica e pragmatica, Giulio Andreotti con la celebre frase: “È meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.

Eppure questa filosofia, che ha garantito stabilità apparente per decenni, oggi mostra i suoi limiti. La mancanza di visione strategica e di responsabilità intergenerazionale ha lasciato dietro di sé una lunga scia di contraddizioni irrisolte.

Né antenati né posteri: solo contemporanei

A chiudere il cerchio è il monito, disincantato ma attualissimo, di Giuseppe Prezzolini: in Italia, diceva, “non ci sono né antenati né posteri: ci sono solo contemporanei”. Un’idea di presente perpetuo che esonera dalla memoria e disinnesca il dovere verso il futuro. In questo orizzonte corto, la crisi del ceto medio è molto più di un fatto economico: è una crisi di identità collettiva, di fiducia, di cittadinanza.

Finché la politica continuerà a trattare i problemi strutturali con strumenti provvisori, non sarà possibile ricostruire il patto sociale che ha retto l’Italia repubblicana. E allora, più che domandarsi se il ceto medio stia declinando, bisognerebbe chiedersi se qualcuno sia ancora disposto a difenderne le fondamenta.


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