Irlanda: obbligo di indicare i rischi per la salute sulle etichette degli alcolici

Stephen Donnelly, ministro della Salute irlandese, ha firmato una legge che rende obbligatorio indicare sulle etichette degli alcolici varie informazioni sulle calorie, sulla salute, sul rischio di sviluppare tumori e altre patologie.

I produttori di alcolici hanno tre anni di tempo per mettersi in regola e cambiare le etichette dei prodotti. Si tratta di una legge molto attesa, visto che il governo irlandese aveva annunciato la decisione già qualche mese fa, ricevendo numerose critiche dai produttori di birra, vino e bevande alcoliche in generale.

Si tratta di una legge unica nel suo genere, ed è la prima in assoluto a richiedere di indicare informazioni dettagliate e avvisi relativi alla salute, nello stesso modo in cui avviene per le sigarette. L’Irlanda aveva richiesto il parere della Commissione Europea e all’Organizzazione mondiale del commercio, per non incorrere in sanzioni o correggere il provvedimento dopo che questo è entrato in vigore.

Donnelly, attraverso un comunicato, dichiara che «l’Irlanda è il primo paese al mondo a introdurre indicazioni sulle etichette legate alla salute sui prodotti alcolici», e spera che ci saranno «altri paesi che seguiranno il nostro esempio».

Per ora, nessun altro paese Ue ha annunciato delle iniziative simili, anche perché paesi come Spagna e Italia avevano protestato per la scelta dell’Irlanda direttamente con la Commissione Europea. Alcuni esponenti del governo italiano, per esempio, avevano criticato l’Irlanda, sostenendo che una legge del genere avrebbe penalizzato moltissimo le esportazioni di alcolici, in particolare del vino.

Le etichette che avvisano i consumatori sui rischi per la salute

Entro il 2026 i produttori di alcolici dovranno indicare sulle etichette dei prodotti l’apporto calorico, con avvisi relativi al rischio di cancro che deriva dal consumo di alcol e di altre malattie, come quelle del fegato. Le indicazioni dovranno essere presenti anche nei banconi dei pub e dei bar che somministrano birra alla spina e bevande alcoliche in generale.

Uno dei maggiori gruppi di interesse irlandese per la produzione e la vendita di alcolici, la Drinks Ireland, ha criticato questa legge, sostenendo che potrebbe indurre dei produttori di vino ad evitare l’esportazione dei prodotti in Irlanda, evitando dunque l’utilizzo di etichette differenti rispetto a quelle che vengono utilizzate nel resto del mondo.

Gruppo 1 delle sostanze cancerogene

Negli scorsi mesi, ulteriori gruppi di interesse avevano dichiarato di essere contrari a questa nuova legge, visto che non esistono elementi per sostenere come il consumo di vino e alcolici aumenti il rischio di ammalarsi di cancro.

Tuttavia, la questione è oggetto di analisi da decenni, e in base alle ricerche scientifiche dell’IARC, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, l’alcol fa parte del Gruppo 1 delle sostanze cancerogene.

Questo significa che sono presenti dati solidi e sufficienti che indicano come queste sostanze facciano aumentare il rischio dell’insorgenza di un tumore. Le sostanze presenti negli altri gruppi non sono meno rischiose per la salute, ma non dispongono ancora di studi convincenti per poterle spostare nel Gruppo 1.


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Via libera per l’equo compenso, ma restano ancora possibili gli incarichi gratuiti

1,2 miliardi di euro di multa a Meta per violazione della Privacy Ue

Via libera per l’equo compenso, ma restano ancora possibili gli incarichi gratuiti

Entra in vigore la legge sull’equo compenso per i liberi professionisti (legge n. 49/2023). Tale norma tutela i professionisti in maniera duplice: sia per quanto riguarda la parcella ma anche per le clausole contrattuali vessatorie.

I contraenti forti, come PA, banche, assicurazioni e grandi imprese dovranno riconoscere ai professionisti dei compensi adeguati alla prestazione che è stata richiesta, rispettando anche i parametri ministeriali. Le clausole contrattuali vessatorie, inoltre, risultano annullabili senza dover per forza compromettere il contratto.

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In ogni caso, esistono delle criticità. Per esempio, dobbiamo considerare la platea, che per alcuni è eccessivamente ristretta: dovranno riconoscere un equo compenso quasi 51mila aziende, su un totale di 6 milioni, e 27mila PA.

Inoltre, incontriamo anche la questione dei parametri ministeriali, che attualmente vengono utilizzati nei tribunali nei casi di contenzioso sulle parcelle e per la maggioranza delle professioni ordinistiche risultano decisamente troppo vecchi.

Ancora più complicata la situazione sui parametri delle professioni non ordinistiche, visto che non ci sono ancora e che verranno definiti grazie ad un decreto ministeriale.

Ulteriori controversie nel campo del sistema sanzionatorio, che colpisce soltanto il professionista e mai il cliente. La norma stabilisce, inoltre, che gli Ordini possano sanzionare gli iscritti che accettino dei compensi considerati non equi. Tuttavia, manca un soggetto che vada a sanzionare i professionisti che non sono iscritti ad alcun Ordine.

Critiche anche per quanto riguarda la mancata applicazione retroattiva della legge. Le convenzioni in essere non sono soggette alle nuove regole: i nuovi contratti che vengono stipulati sulla base di vecchie convenzioni, dunque, risultano al di fuori del perimetro delimitato all’equo compenso.

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Se guardiamo al nuovo Codice Appalti, all’articolo 8 del DL 36/2023, vengono ammessi gli incarichi gratuiti per i professionisti, ma rifacendosi ai principi dell’equo compenso. Come spiega l’articolo: «Le prestazioni d’opera intellettuale non possono essere rese dai professionisti gratuitamente, salvo che in casi eccezionali e previa adeguata motivazione».

Dunque, ci sono situazioni in cui vengono ammessi gli affidamenti gratuiti da parte della PA. Tutto ciò vale anche se «la pubblica amministrazione garantisce comunque l’applicazione del principio dell’equo compenso». Visto che non esiste un divieto esplicito verso gli incarichi gratuiti, l’equo compenso sembra valere soltanto in tutti quei casi in cui effettivamente sia previsto un compenso.

Siamo di fronte ad un tema veramente sentito dai professionisti tecnici. Dichiara Carla Cappiello del Consiglio nazionale degli ingegneri: «Premesso che l’equo compenso è certamente una grande conquista per i professionisti, restano degli elementi da migliorare. Credo che quello del Codice sia solo un disallineamento che andrà corretto a breve. Inoltre, bisognerà lavorare sull’aggiornamento dei parametri professionali».


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1,2 miliardi di euro di multa a Meta per violazione della Privacy Ue

Anche i pacemaker e i defibrillatori sono soggetti ai cyberattacchi

1,2 miliardi di euro di multa a Meta per violazione della Privacy Ue

Si appena chiusa, con una multa da 1,2 miliardi di euro, una causa decennale contro Meta, azienda proprietaria di Facebook, Instagram e WhatsApp, per aver trasferito in maniera illegale i dati degli utenti Ue agli States, violando dunque le norme sulla privacy vigenti sul suolo europeo.

Ora Meta dovrà interrompere tutti i trasferimenti e riprendere i dati condivisi in precedenza con gli USA. Non sembrano esserci pericoli sul fatto che i servizi offerti da Meta vengano interrotti in Ue.

Una decisione storica quella presa dal Garante per la privacy irlandese, anche grazie alla spinta del Comitato europeo per la protezione dei dati e in occasione del quinto anniversario del Gdpr (25 maggio 2018).

Snowden e Schrems

La vicenda è cominciata 5 anni prima, quando Edward Snowden, un ex impiegato della Nsa (National Security Agency), ha deciso di rivelare in che modo i dati degli utenti di tutto il mondo alimentano il sistema di sorveglianza di massa dei servizi segreti statunitensi.

Dopo queste rivelazioni, l’attivista e avvocato austriaco Max Schrems, denuncia Facebook per mancata protezione dei suoi dati personali, cominciando la prima battaglia legale contro il trasferimento dei dati degli utenti europei verso gli USA, dove non ci sono regole particolarmente stringenti sull’accesso ai dati da parte delle compagnie digitali.

La controversia si conclude con la sentenza del Garante irlandese del 22/05/2023, con una multa contro Meta, per violazione «dell’articolo 46 comma 1 del Gdpr, quando ha continuato a traferire i dati personali degli utenti europei negli Stati Uniti, dopo la sentenza della Corte di giustizia europea» risalente al 2020, che dichiarò illegale il trasferimento.

Meta ha 5 mesi di tempo per sospendere ogni futuro trasferimento di dati verso gli USA, pagare allo Stato irlandese una multa da 1,2 miliardi di euro e conformare ogni operazione alle regole del Gdpr, mettendo un punto al trattamento e alla conservazione illegale dei dati personali degli utenti Ue negli States entro sei mesi. Ciò vuol dire che Meta dovrà cancellare e riportare in Ue tutti i dati che sono stati condivisi precedentemente.

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Per Schrems, fondatore della ong Noyb, le minacce che ha formulato Meta per la sospensione dei servizi che vengono forniti in Ue sono assolutamente vane, visto che l’Europa è in assoluto il suo mercato più grande al di fuori degli States, e che sul territorio Ue sono già presenti centri dati locali.

Per evitare le controversie e per chiudere la questione si potrebbe implementare un sistema per cui la maggior parte dei dati personali resterebbe in Ue, e verrebbero traferiti soltanto i dati necessari, come nel caso in cui una persona residente in Ue si metta in contatto con qualcuno negli Stati Uniti.

Per Schrems, l’azienda ricorrerà in appello contro tale decisione, anche se il ricorso non avrà alcuna chance. La Corte di giustizia Ue, infatti, ha stabilito come non esistano delle basi giuridiche per poter legittimare ogni trasferimento intercontinentale verso gli States.

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Nick Clegg, il presidente Affari Globali e Jennifer Newstead, responsabile legale, hanno risposto al Garante irlandese. Sul blog aziendale scrivono: «Senza la capacità di trasferire i dati oltre confine, internet rischia di essere suddiviso in silos nazionali e regionali, limitando l’economia globale e lasciando i cittadini di diversi paesi impossibilitati ad accedere a molti servizi condivisi su cui facciamo affidamento».

Aggiungono: «Stiamo facendo appello contro queste decisioni e cercheremo immediatamente una sospensione presso i tribunali che possono sospendere i termini di attuazione, dato il danno che queste decisioni causerebbero, anche ai milioni di persone che usano Facebook ogni giorno».

I due concludono: «Non ci sono interruzioni immediate per Facebook perché la decisione include periodi di implementazione che dureranno fino alla fine di quest’anno. Intendiamo impugnare sia la sostanza della decisione che i suoi ordini, inclusa la multa».


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Anche i pacemaker e i defibrillatori sono soggetti ai cyberattacchi

Agorà degli Ordini, per Greco bisogna “modernizzare la professione ma niente limiti agli atti della difesa”

Anche i pacemaker e i defibrillatori sono soggetti ai cyberattacchi

I cybercriminali non puntano più soltanto a smartphone e pc: ora anche i dispositivi medici sono diventati un obiettivo interessante per estorcere denaro alle aziende produttrici, minacciando la salute delle persone che li indossano. Specialmente se sono personaggi politici famosi.

Secondo uno studio recente, negli ultimi cinque anni circa 200 defibrillatori e pacemaker sono stati bersaglio dei cybercriminali. A pagare le conseguenze di tali azioni sono state le personalità diplomatiche che visitavano paesi stranieri, che hanno lamentato fastidi a causa del bombardamento elettromagnetico creato dai cybercriminali.

Il quadro è stato presentato dall’Università di Tor Vergata, da tempo attiva nel campo della ricerca della sicurezza informatica dei dispositivi medici wireless, come defibrillatori, pacemaker, smartwatch, neuro-stimolatori e pompe di insulina.

Si tratta di bersagli semplici per i cybercriminali, e lo diventeranno sempre di più in futuro, mettendo a rischio la salute dei pazienti. Come riferisce Gaetano Marrocco, professore ordinario alla Tor Vergata, il tema della cybersicurezza dei dispositivi medici dovrà essere una priorità «per produttori, ospedali e pazienti».

L’attenzione, comunque, deve rivolgersi anche a dispositivi considerati meni complessi, quali protesi alle anche, ai denti e alle ginocchia, che «oggi hanno una funzione solo meccanica ma presto saranno sensorizzate con una piccola unità di elaborazione».

Marrocco sottolinea l’urgenza nella creazione di uno strumento che garantisca sicurezza nei pazienti che lo indossano, e per questo motivo è nato C4h – Cyber4Health, ovvero una piattaforma che fornisce in real time le informazioni degli attacchi informatici contro i dispositivi medici, assegnando anche ai sistemi compromessi un punteggio di vulnerabilità.


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Agorà degli Ordini, per Greco bisogna “modernizzare la professione ma niente limiti agli atti della difesa”

I dipendenti della PA sono al minimo storico

Agorà degli Ordini, per Greco bisogna “modernizzare la professione ma niente limiti agli atti della difesa”

Il nostro compito è «quello di modernizzare la nostra professione e restituire l’orgoglio di essere avvocati e la fiducia verso il futuro. Se non riusciremo in questa missione nell’arco del quadriennio di consiliatura, significherà che avremo fallito il nostro mandato».

Queste le parole di Francesco Greco, il Presidente del CNF, durante l’Agorà degli Ordini e delle Unioni regionali forensi tenutosi a Roma, presso la Pontificia Università della Santa Croce, al fine di «individuare insieme le soluzioni più efficaci per le riforme».

Una sfida per il mondo dell’Avvocatura è senza dubbio l’attuazione della riforma Cartabia nei confronti del processo civile; in particolar modo per quanto riguarda gli atti processuali digitali che hanno un limite massimo di caratteri e che ancorano il difensore ad una sanzione.

Incalza il Presidente Greco: «Dobbiamo fare le barricate, perché nessuno può e deve imbavagliare il diritto di difesa. Su questo non siamo e non saremo disponibili ad alcuna mediazione. È inaccettabile che i limiti previsti siano correlati a delle sanzioni».

Se partiamo dai dati sconfortanti dell’ultimo rapporto Censis sull’Avvocatura, il Presidente del CNF afferma come sia «indispensabile avviare da subito un percorso condiviso con i Consigli dell’Ordine degli Avvocati per ragionare insieme sui passi da fare e sugli obiettivi comuni, e per individuare le emergenze da affrontare con urgenza».

Tra le priorità troviamo la riforma per quanto riguarda l’accesso alla professione dell’Avvocato. Fondamentale anche prestare attenzione al calo demografico degli iscritti, che sembra consolidarsi e inserirsi «in un trend iniziato qualche anno fa».

«La professione è in difficoltà, i redditi sono bassi, ma il dato più preoccupante è quello che fotografa l’indice di soddisfazione degli avvocati nell’esercizio della professione. Il 25,5% degli intervistati la definisce molto critica, per il 30% è critica ma sopportabile e il 34% si dichiara disponibile a lasciare la professione forense se si presentasse una valida alternativa».


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I dipendenti della PA sono al minimo storico

WhatsApp: come proteggere al meglio i nostri dati

I dipendenti della PA sono al minimo storico

I dipendenti della PA si trovano al minimo storico, dal 2001. L’ultimo censimento conta una crescita di 437 mila e registra, in 12 mesi, un balzo di 22mila con contratti a termine. Nella scuola, 297mila precari rappresentano il 30% del totale del comparto e ben il 68% dei contratti della PA a tempo determinato.

Vista la pioggia di interventi riservata al «rafforzamento amministrativo», per poter affrontare il Recovery con successo, l’indagine annuale FPA nei confronti del lavoro pubblico è stata presentata durante l’apertura del Forum Pa.

Il totale dei dipendenti pubblici è il più alto degli ultimi dieci anni: 3.266.180. Tuttavia, togliendo l’effetto ottico che producono i precari della sanità e della scuola, si ritorna ai livelli del 2001. Un forte contributo arriva dai Comuni che hanno perso il 28,4% dei dipendenti tra il 2007 e il 2021.

Tutto questo avviene in un Paese che non trova spazi di bilancio per la crescita della spesa, ma che ormai occupa stabilmente le ultime posizioni tra i big europei per quanto riguarda il numero dei dipendenti pubblici rapportati alla popolazione o al totale degli occupati.

Dichiara il ministro della PA Paolo Zangrillo: «Fra il 2010 e il 2020 la Pubblica Amministrazione è stata desertificata e ha perso 300mila persone. Ora le assunzioni sono ripartite e puntiamo quest’anno a 170mila ingressi».

L’invecchiamento generale del personale è un problema in più (il 37% dei dipendenti ha più di 55 anni), visto che avverrà un ritmo di pensionamenti da un milione di impiegati in 10 anni. La speranza è quella di trovare nuove leve che vogliano sostituirli.

Il Governo, per farlo, tenta anche di estendere i contratti di apprendistato, di formazione e di lavoro. Pesa molto, tuttavia, l’immagine di una PA che paga male, senza offrire particolari prospettive di carriera. Per poterla contrastare, Antonio Naddeo, presidente dell’Aran, anticipa alcuni dati che troveremo nel prossimo rapporto sulle retribuzioni.

Se vogliamo farla breve, in media, i funzionari pubblici hanno uno stipendio corrispondente a 31.766 euro lordi, ovvero, 930 euro in più degli impiegati del settore privato. Si tratta di un quadro migliorabile, soprattutto per quanto riguarda le carriere o le componenti non retributive, quali welfare aziendale oppure conciliazione vita-lavoro.


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WhatsApp: come proteggere al meglio i nostri dati

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WhatsApp: come proteggere al meglio i nostri dati

WhatsApp, nell’estate del 2016, ha introdotto un cambiamento importante a livello di privacy, ovvero, ha deciso di attivare la crittografia end-to-end, diventando il più grande servizio di messaggistica istantanea crittografata in tutto il mondo. Il numero di utenti, oggi, supera i due miliardi.

Grazie alla crittografia end-to-end, Meta non è capace di leggere oppure di estrarre alcun dato dai messaggi inviati dagli utenti WhatsApp. Questa tecnologia è stata sviluppata in origine da Open Whisper System, il gruppo che lavora anche con l’app Signal.

Inoltre, nel corso degli ultimi anni, WhatsApp ha introdotto ulteriori funzioni di sicurezza e privacy, che possono essere attivate dagli utenti. In ogni caso, anche se è in funzione la crittografia end-to-end, non dobbiamo abbassare la guardia e prendere ogni precauzione per proteggere la nostra privacy.

WhatsApp raccoglie tantissime informazioni su di noi, più di quanto pensiamo. La maggior parte dei dati raccolti sono simili ad altre app: per capire di che dati si tratta, basta consultare le norme sulle privacy del servizio.

A proposito: quanti di noi leggono tutte le condizioni generali di un contratto nel momento in cui ci si iscrive ad un nuovo social, o in generale ad un servizio online? Probabilmente quasi nessuno. Si tratta, infatti, di documenti veramente troppo difficili da leggere. Un po’ come il legalese, no? Date un’occhiata, cliccando qui, all’articolo di Servicematica che parla della comunicazione e del legal design.

Per esempio, sul territorio Ue, ci sono alcune differenze riguardo la raccolta delle informazioni, regolate dal blocco sulla privacy; tuttavia, l’app è di proprietà di Meta, e quindi ci sono delle informazioni che vengono condivise per forza con la società madre.

I dati che WhatsApp possiede su di noi potrebbero provenire da fonti differenti. Per esempio, potrebbero arrivare dalle informazioni che forniamo in modo volontario, come il numero di telefono, oppure quelle che vengono raccolte in automatico, come quelle che produciamo quando siamo online oppure quando facciamo una telefonata.

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Per WhatsApp, le informazioni che vengono raccolte in maniera automatica riguardano come utilizziamo i servizi, la frequenza e la durata della permanenza sull’app, ma anche il nome, la foto profilo, la descrizione, l’ultima volta che siamo stati online, informazioni sul livello di batteria del telefono, la potenza del segnale e l’operatore mobile.

Inoltre, WhatsApp raccoglie anche informazioni sulla posizione, quando attivata, ed è bene precisare che ci sono anche cookie che tracciano le nostre attività sull’app e sul desktop.

Backup crittografato end-to-end

Con WhatsApp possiamo eseguire il backup delle chat e dei dati, per poter trasferire tutte le informazioni in un nuovo telefono. Tali backup archiviano le nostre informazioni su iCloud o Google Drive. Per sfruttare questa opzione, è consigliato farlo con la versione con crittografia end-to-end.

Basta andare sulle impostazioni del telefono, cercare Chat, cliccare su Backup delle chat e scegliere Backup crittografato end-to-end. Per questa tipologia di backup è necessario creare una password separata.

Autenticazione a due fattori

L’autenticazione a due fattori è fondamentale, soprattutto se si gestisce un account con informazioni personali sensibili. Nella maggioranza dei casi, bisogna utilizzare un codice di sicurezza che viene generato da un’applicazione, tramite un sms o una chiavetta fisica.

WhatsApp non è come una mail. Probabilmente entrate nell’app più di una volta al giorno: se dovessimo inserire un codice di sicurezza di volta in volta, diventerebbe frustrante e poco pratico. L’autenticazione a due fattori, chiamato Verifica in due passaggi, si attiva andando sulle Impostazioni dell’app.

Messaggi effimeri

Messaggi eterni? Anche no, soprattutto se desiderate maggiore privacy. In questo caso potete utilizzare i messaggi effimeri, che si attivano sia per chat che per una singola conversazione.

Se vogliamo impostare la funzione come predefinita, andiamo su Impostazioni, clicchiamo su Privacy e scegliamo Timer predefinito messaggi. Qui possiamo selezionare la durata dei messaggi. Invece, se desideriamo utilizzare la funzione nelle conversazioni esistenti, apriamo la chat, clicchiamo sul nome della persona, selezioniamo Messaggi Effimeri e impostiamo il timer.

Comunque, sicuramente attivare i messaggi che si autodistruggono garantisce maggior privacy, ma ricordiamo che il destinatario potrebbe fare uno screenshot al nostro messaggio.

WhatsApp, oltre ai messaggi effimeri presenta la funzione Visualizza una volta. L’opzione fa esattamente ciò che suggerisce il nome, permettendo di aprire un messaggio soltanto una volta, senza alcuna possibilità di ritornare indietro se viene chiuso.

Blocco dell’app

Se il nostro telefono e WhatsApp finiscono nelle mani di un’altra persona (come un bambino, per esempio), ci sono due funzioni che aiutano a proteggere i messaggi. È possibile bloccare l’app, e sbloccarla con Face Id o con altri sistemi biometrici.

Inoltre, si possono bloccare le singole chat sul telefono. Questo vuol dire che, per poter inviare messaggi alle chat bloccate, bisognerà utilizzare un codice, l’impronta digitale o il volto.

Altre misure per la nostra privacy su WhatsApp

Anche se la crittografia end-to-end impedisce di vedere quello che inviamo, ci sono comunque delle misure aggiuntive che si possono adottare per riuscire ad aumentare la privacy.

Si possono eliminare le due spunte blu che confermano che un messaggio è stato letto, oppure impedire ad altri di aggiungervi ai gruppi, o ancora, disattivare l’opzione che consente di stabilire quando siamo stati online o decidere chi può vedere la nostra foto profilo.

Tuttavia, chi è alla ricerca di maggior privacy, dovrebbe affidarsi ad altre applicazioni di messaggistica istantanea, come, per esempio, Signal.


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Il ddl presentato dal Guardasigilli Carlo Nordio prevede la procedibilità d’ufficio per tutti i reati aggravati dal metodo mafioso oppure da finalità terroristiche. Consente l’arresto in flagranza anche senza querela, nel caso in cui la persona offesa non sia reperibile.

Si prevede la procedibilità d’ufficio per tutti quei reati procedibili a querela nei quali troviamo l’aggravante della finalità di terrorismo oppure di eversione della democrazia. O, ancora, l’aggravante determinata dall’aver commesso il fatto basandosi su un vincolo associativo mafioso, oppure per agevolare l’attività delle associazioni mafiose.

La procedibilità d’ufficio avverrà anche per i reati per lesione personale, quando vengono commessi da una persona sottoposta a misure di prevenzione personale, sino ai tre anni successivi al termine di tale misura.

Inoltre, troviamo modifiche anche in materia di arresto in flagranza, che sarà obbligatorio nel caso in cui manchi la querela e se la persona offesa non risulti reperibile. Nei casi in cui la querela dovrà essere presentata nella sua forma semplificata, le autorità che procedono con l’arresto saranno tenute a rendere le informazioni alla persona offesa (art. 90-bis c.p.p.).


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Lo stigma del ciccione attraversa tutte le età, soprattutto nel mondo del web, visto l’alto numero di haters spietati. Attaccare una persona per il suo aspetto fisico risulta molto “semplice”: dalla parte opposta del ciccione, c’è l’adolescente sottiletta, che magari è così di costituzione, oppure lotta contro l’anoressia. Ma si pensi anche a quel collega tormentato da disturbi dermatologici, come acne o psoriasi.

Potremmo andare avanti all’infinito, facendo anche innumerevoli esempi del mondo della disabilità, che spesso comporta problematiche da supportare, non da deridere. La pratica di ridicolizzare ed isolare una persona per il suo aspetto fisico, il body shaming, non ha limiti, anzi: si diffonde sempre più.

Body shaming e disturbi alimentari

In Parlamento si sta pensando ad una legge agile, composta di sei articoli, proposta dalla deputata Martina Semenzato, che guida l’intergruppo sul body shaming e sui disturbi alimentari. Di recente è stata presentata anche una mozione per quanto riguarda i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, che in Italia corrispondono a 3,6 milioni di casi.

Per Semenzato «il body shaming è un atto vile, di bullismo e razzismo, che ci costringe nel fisico e nella psiche. La gente si sente legittimata a denigrare il corpo, e da lì prende avvio la pdl per l’istituzione della giornata contro il body shaming».

«Si parte dal focus dell’educazione, in primis dei giovani. E si inizia da un tema urlato, come quello del body shaming, per dare luce a una malattia silenziosa che è quella dei disturbi alimentari», conclude Semenzato.

Per la Ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Roccella, «influencer e sportive sono preziosissime per questo, sappiamo quanto nello sport il condizionamento sul corpo sia pericoloso. La giornata del body shaming è un segno di attenzione del governo: se non stiamo attenti a questo non saremo in grado di creare un futuro migliore ripristinando valori senza perdere libertà, non vietando ma aprendo a una idea di comunità inclusiva».

Il Cnel dovrebbe contribuire al progetto grazie all’istituzione di un Osservatorio sul fenomeno. «Per contrastare il body shaming sempre più diffuso e più in generale i fenomeni denigratori dell’aspetto fisico serve una strategia trasversale che veda fianco a fianco istituzioni, corpi intermedi, scuola, Terzo settore e il mondo dello sport», afferma Brunetta.

Prosegue il ministro per la PA: «Il body shaming è un fenomeno preoccupante con conseguenze sul benessere psicofisico e sulla salute, tanto che è tra le prime cause di disturbi alimentari anche gravi, e ha ripercussioni pesanti nella scuola, dove spesso sfocia in bullismo e discriminazione, e nei luoghi di lavoro».

«Dobbiamo mettere in campo tutti i mezzi e le risorse a disposizione per tutelare le persone più deboli. […] Per analizzare gli effetti di questo fenomeno, sia dal punto di vista sociale che economico studieremo la possibilità di istituire presso il Cnel un Osservatorio sugli effetti dei fenomeni denigratori delle caratteristiche fisiche con il coinvolgimento di tutte le parti sociali».

La giornata di sensibilizzazione, che si terrà ogni anno il 16 maggio, avrà lo scopo di «sensibilizzare i cittadini sulla gravità dei comportamenti offensivi che hanno come obiettivo la denigrazione del corpo di una persona», ma anche a promuovere «ogni iniziativa utile».

Il focus sarà principalmente sulle scuole, che dovranno promuovere iniziative per la comprensione delle condotte che denigrano o ridicolizzino una persona a causa del suo aspetto fisico, ma soprattutto delle «conseguenze che ne derivano sulla salute fisica e psicologica delle persone colpite, nonché a promuovere l’accettazione del proprio corpo».


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Alcune star dei social hanno uno, quattro, sei anni: sono protagonisti dei video pubblicati dai genitori, ma alcuni hanno il loro account personale. Immagini, post, stories, TikTok e reels che raccontano le vite dei più piccoli nelle loro case, oppure nei resort di lusso dove vanno in vacanza con la mamma e il papà.

Una spunta blu per garantire l’autenticità del profilo del baby influencer, nonostante l’età per potersi iscrivere nei social sia stata fissata a 16 anni dal Gdpr – anche se in Italia è stata abbassata a 14. Non esiste ancora alcuna regolamentazione, tuttavia, per i bambini sorridenti sui social: decidono i genitori e i brand.

I baby influencer presenti sui social hanno un denominatore in comune, ovvero, portano guadagni: grazie alle sponsorizzazioni, ai prodotti e ai soggiorni regalati. Tuttavia, i minori dovrebbero essere tutelati su vari aspetti, che siano relativi al lavoro, al lato economico, oppure collegati alla privacy, al diritto alla reputazione e a all’immagine.

Questo tema riguarda anche il fenomeno dello sharenting, ovvero una condivisione costante, da parte dei genitori, di contenuti che vedono protagonisti i figli, ma che non generano alcun profitto. Ebbene, ad oggi, in Italia non ci sono norme specifiche in materia.

La regolamentazione di questi aspetti viene affidata ai patti tra le parti: trattasi di contratti stipulati tra genitori e brand, che si basano su disposizioni generali, come quelle che riguardano l’uso dell’immagine, che nel caso dei minori prevedono che entrambi i genitori devono dare il proprio consenso.

Inoltre, si devono considerare anche le norme che riguardano la responsabilità genitoriale. I genitori hanno un ruolo di cura ed educazione verso i loro figli. Se violano tale obbligo, dovrà intervenire il giudice. Spesso accade, comunque, che i figli minori coinvolti nei contenuti pubblicati online non vengano affatto menzionati nei contratti che regolano le prestazioni online tra baby influencer e i brand.

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Tutti questi aspetti sono stati esaminati di fronte ad un tavolo tecnico finalizzato alla tutela dei diritti dei minori nei social. Il tavolo è stato fortemente voluto da Marta Cartabia, ex ministra della Giustizia, che con una relazione presentata l’anno scorso ha suggerito degli interventi normativi che scoraggino lo sfruttamento online dell’immagine dei figli da parte dei genitori.

Oltre a questo, Cartabia ha suggerito di coinvolgere direttamente le piattaforme per la co-regolamentazione. Tali indicazioni, per il momento, sono rimaste soltanto sulla carta, poiché dall’attuale Guardasigilli Carlo Nordio non sono partite particolari iniziative.

Il Garante Privacy e Agcom hanno istituito un tavolo per poter lavorare ad un Codice di condotta che incoraggi le piattaforme ad adottare adeguati sistemi di verifica dell’età. Spiega Maria Francesca Quattrone, avvocato dello Studio Legale Dike Legal: «L’interesse supremo deve essere la tutela del minore e per questo motivo è importante che sia il brand sia le agenzie intermediarie prevedano l’inserimento nel contratto di clausole cautelative».

Continua Quattrone: «Per esempio, i post che coinvolgono il bambino, anche se pubblicati sull’account del genitore, devono avere contenuti adeguati. Per tutelare i baby influencer o i figli di coloro che fanno questo lavoro si può fare riferimento a un patchwork di normative diverse, ma sarebbe auspicabile una legge ad hoc».

Un vuoto normativo da colmare

Per Paolo Lazzarino, socio dello Studio ADVANT Nctm «c’è un vuoto normativo, in parte colmato dalla legge sul lavoro minorile, che lo vieta sotto ai 16 anni, ma con una deroga, che si potrebbe applicare ai baby influencer, per gli impieghi culturali, artistici, sportivi, pubblicitari o nel mondo dello spettacolo».

«Questa legge richiede l’autorizzazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro, a verifica che le attività non pregiudichino la sicurezza, l’integrità psicofisica e lo sviluppo del minore e la frequenza a scuola. Si potrebbe ipotizzare che il visto dell’Itl si possa estendere ai contratti pubblicitari che coinvolgono prestazioni non occasionali di baby artisti, ma è una prassi non testata», conclude.

Elia Barbujani dello Studio Legale Slb Consulting, invece, dice che «occorre premere per far applicare gli istituti esistenti al nuovo fenomeno. Le situazioni non regolamentate possono sfociare in controversie: tra i genitori, dato che i giudici hanno riconosciuto che pubblicare sui social immagini di minori, diffondendole tra un numero indeterminato di persone, è un’attività potenzialmente pericolosa; e del figlio, che, una volta cresciuto, può rivendicare il diritto alla privacy e all’oblio, chiedendo di cancellare le immagini».

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In Francia dal 2020 esiste una legge che tutela i baby influencer, che regola le ore di lavoro sui social e prevede un congelamento dei guadagni. Se lo richiederanno, potranno esercitare il diritto all’oblio.

In Italia, invece, il Garante per la Privacy ha diffuso suggerimenti (che in realtà sono prescrizioni) per i genitori, al fine di limitare la condivisione di contenuti online che riguardano i figli, rendendo irriconoscibile il loro volto grazie a emoticon e pixel, restringendo le impostazioni di visibilità ed evitando di creare account dedicati soltanto ai minori.


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Carta di Identità Elettronica: per utilizzarla basterà una password

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