Nasce l’Osservatorio Nazionale sul Lavoro e l’Intelligenza Artificiale: il primo passo per una transizione digitale consapevole

Il mondo del lavoro cambia, e con esso le competenze richieste e le professioni del futuro. Per accompagnare cittadini, lavoratori e imprese in questa trasformazione, il Ministero del Lavoro ha lanciato ufficialmente l’Osservatorio Nazionale sull’adozione dei sistemi di Intelligenza Artificiale nel lavoro, disponibile online nella sua versione beta.

L’iniziativa segna il primo passo di un percorso istituzionale volto a monitorare, analizzare e anticipare gli effetti dell’IA sul mercato occupazionale italiano, con l’obiettivo di favorire un’adozione consapevole e inclusiva delle nuove tecnologie.

L’Osservatorio offre una panoramica aggiornata delle professioni più esposte all’impatto dell’Intelligenza Artificiale, indicando le competenze più richieste e i settori produttivi maggiormente coinvolti. Strutturato per rispondere alle esigenze di cittadini, lavoratori e imprese, il portale permette di consultare dati e previsioni utili a gestire il cambiamento in atto.

Tra le finalità principali c’è anche quella di ridurre il divario tra le competenze richieste dalle aziende e quelle effettivamente disponibili nella forza lavoro, oltre a fornire strumenti operativi per aiutare imprese e lavoratori a cogliere le opportunità offerte dall’IA, evitando al contempo possibili usi distorti delle tecnologie.

Il progetto si arricchirà nel tempo, integrando nuovi contenuti sulla base delle “Linee guida per l’implementazione dell’Intelligenza Artificiale nel mondo del lavoro”, attualmente oggetto di consultazione pubblica fino al 21 maggio sul sito istituzionale ParteciPA. I primi riscontri, fa sapere il Ministero, sono stati positivi e hanno fornito suggerimenti preziosi per migliorare il documento.

Una volta conclusa la fase di raccolta contributi, sarà pubblicata una versione aggiornata e consolidata delle Linee guida, che verrà periodicamente rivista per rimanere al passo con l’evoluzione normativa e tecnologica.


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Nordio firma a Lussemburgo la Convenzione europea per la protezione degli avvocati

Roma, 14 maggio 2025 – Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha firmato ieri a nome dell’Italia in Lussemburgo la Convenzione Europea per la Protezione degli Avvocati, promossa dal Consiglio d’Europa.

Si tratta del primo trattato internazionale vincolante in questa importante materia e assicurerà protezione agli avvocati e, in generale, a tutta l’attività difensiva.

La Convenzione, aperta a tutti gli Stati che vogliano aderirvi, prevede che i medesimi vigilino al rispetto di tutti i diritti della difesa e assicurino la più ampia libertà nell’esercizio della professione forense oltre che l’incolumità degli avvocati. L’Italia è uno dei primi Stati Membri del Consiglio d’Europa a firmare la Convenzione dopo aver avuto parte attiva nella predisposizione del testo.

A margine della cerimonia il Ministro ha detto che “la figura dell’avvocato è essenziale all’esercizio della giurisdizione e auspico che, dopo le prossime riforme costituzionali, anche il suo ruolo venga riconosciuto e inserito nella carta fondamentale dello Stato”.


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L’UE avvia una banca dati europea delle vulnerabilità per rafforzare la sicurezza digitale

La Commissione europea ha approvato oggi l’avvio della banca dati europea delle vulnerabilità (EUVD) da parte dell’Agenzia dell’UE per la cibersicurezza (ENISA). La banca dati rafforzerà la sicurezza digitale dell’Europa. Aiuterà a soddisfare le prescrizioni in materia di gestione della catena di approvvigionamento e delle vulnerabilità previste dalla direttiva NIS2, che migliora la cibersicurezza per settori critici quali energia, trasporti e salute. Sosterrà inoltre l’attuazione del regolamento sulla ciberresilienza, garantendo che i prodotti con elementi digitali, quali software e dispositivi intelligenti, siano protetti dalle minacce informatiche.

Henna Virkkunen, Vicepresidente esecutiva per la Sovranità tecnologica, la sicurezza e la democrazia, ha dichiarato: “La banca dati europea delle vulnerabilità è un passo importante verso il rafforzamento della sicurezza e della resilienza dell’Europa. Mettendo insieme le informazioni sulle vulnerabilità pertinenti per il mercato dell’UE, innalziamo gli standard di cibersicurezza, consentendo alle parti interessate del settore pubblico e privato di proteggere meglio i nostri spazi digitali condivisi con maggiore efficienza e autonomia.”

La banca dati raccoglie informazioni sulle vulnerabilità da fonti affidabili, migliorando la conoscenza situazionale e proteggendo l’infrastruttura digitale da potenziali minacce. Offre inoltre strumenti fondamentali per le parti interessate dei settori pubblico e privato, comprese le autorità nazionali e i ricercatori, per navigare in sicurezza nello spazio digitale. Questa iniziativa sostiene l’impegno dell’UE a rafforzare la sovranità tecnologica, fornendo risorse affidabili per gestire e attenuare i rischi per la cibersicurezza in tutti i prodotti e i servizi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Maggiori informazioni sulla banca dati europea delle vulnerabilità sono disponibili online.


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Riforma dell’ordinamento forense: il tempo c’è, serve la volontà

Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio è stato chiarissimo. Prima l’avvocato in Costituzione, poi — eventualmente — l’aggiornamento dell’ordinamento forense. Una presa di posizione netta, espressa nel corso del dibattito di Siracusa organizzato dal Consiglio nazionale forense e dalle istituzioni forensi siciliane, che segna un punto politico importante nel dibattito sulla modernizzazione della professione forense.

Secondo Nordio, infatti, la riforma dell’ordinamento forense, pure da più parti attesa e sollecitata, resta subordinata al riconoscimento costituzionale della funzione difensiva quale pilastro della giurisdizione. “Credo ci sia spazio in questa legislatura per introdurre l’avvocato in Costituzione, purché vi sia convergenza politica. Se questo avvenisse, tutto il resto procederebbe di conseguenza”, ha dichiarato il Guardasigilli. E a questo punto il tema vero è proprio questo: i tempi e la volontà politica.

Oggi sono quattro i disegni di legge costituzionale depositati in Parlamento, due alla Camera e due al Senato, divisi equamente tra maggioranza e opposizione. Tutti intervengono sull’articolo 111 della Costituzione per inserire esplicitamente la figura dell’avvocato, ma nessuno ha ancora visto partire l’iter parlamentare. E sappiamo bene che il procedimento di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 della Carta è lungo, complesso e politicamente impegnativo: doppia lettura in entrambe le Camere a distanza di tre mesi, maggioranze qualificate o, in mancanza, referendum confermativo. E siamo già a metà legislatura.

Eppure, la storia recente ci dice che, se c’è la volontà politica, anche le riforme ordinamentali complesse si possono realizzare in tempi ragionevoli. Basti ricordare che nel giugno 2005 la riforma dell’ordinamento dei dottori commercialisti e degli esperti contabili fu completata — legge delega e decreto legislativo attuativo — in appena un anno e nove mesi. Una riforma profonda, che ridisegnò competenze, accesso, formazione, incompatibilità e governance della professione.

Ora, la legislatura in corso terminerà tra due anni e cinque mesi. Il tempo tecnico per costruire e approvare una nuova legge sull’ordinamento forense, parallelamente o successivamente alla riforma costituzionale, c’è tutto. E c’è anche un’occasione politica e simbolica che l’avvocatura istituzionale non dovrebbe perdere di vista: il Congresso Nazionale Forense di Torino del 2026. Portare una riforma compiuta o, quanto meno, un testo già avviato in Parlamento, rappresenterebbe un segnale concreto di capacità progettuale e politica della categoria, oltre che una risposta alla crescente domanda di modernizzazione proveniente da dentro e fuori la professione.

Del resto, non è certo una novità che l’inserimento dell’avvocato in Costituzione sia una storica battaglia dell’avvocatura istituzionale, rilanciata con forza già ai tempi della presidenza Mascherin al Consiglio nazionale forense. Un obiettivo di alto profilo simbolico e giuridico, che tuttavia non può e non deve diventare un alibi per rinviare all’infinito la necessaria revisione dell’ordinamento professionale, ormai anacronistico in molte delle sue parti.

Il punto vero non è dunque se fare la riforma, ma quando e come avviarla. La presa di posizione del Ministro è legittima e comprensibile sotto il profilo istituzionale. Ma la responsabilità politica della professione è anche quella di non lasciare che la riforma resti nel limbo di una priorità “subordinata”. Se davvero la volontà politica c’è, i precedenti dimostrano che i tempi possono essere compatibili con il calendario parlamentare e congressuale. Tocca ora all’avvocatura fare la propria parte e chiedere con determinazione che il tema torni al centro dell’agenda politica e legislativa.

Il tempo c’è. La storia lo insegna. La posta in gioco — il futuro della professione forense — merita di essere affrontata con coraggio e visione.


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Voucher Innovazione: prorogato il termine per la richiesta del saldo

Con il Decreto Direttoriale del 5 maggio 2025, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) ha ufficializzato la proroga dei termini per la presentazione delle richieste di erogazione a saldo relative al Voucher per consulenza in innovazione. Si tratta del contributo destinato alle micro, piccole e medie imprese e alle reti d’impresa per l’acquisto di consulenze specialistiche, finalizzate a favorire i processi di trasformazione tecnologica e digitale e di ammodernamento organizzativo.

La misura, prevista dall’articolo 1, commi 228, 230 e 231 della Legge n. 145/2018, aveva fissato originariamente un termine massimo di 15 mesi per la conclusione delle attività progettuali e la successiva presentazione della domanda di saldo. Ora, per venire incontro alle esigenze delle imprese beneficiarie, il Mimit ha disposto un’estensione del termine a 18 mesi, calcolati a partire dalla data del decreto cumulativo di concessione delle agevolazioni in cui figura il soggetto beneficiario.

Resta fermo che per ottenere il contributo, le consulenze dovranno essere erogate esclusivamente da società o manager qualificati, iscritti in un apposito elenco istituito con decreto del Ministro dello sviluppo economico.

Una proroga attesa e utile per permettere alle aziende di completare con più respiro i progetti di innovazione e digitalizzazione, strategici in un contesto competitivo in continua evoluzione.


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Fideiussioni bancarie: confermata la nullità delle clausole ABI

Le fideiussioni bancarie “a fotocopia” continuano a essere bocciate nei Tribunali italiani. Con la sentenza n. 1432 del 6 maggio 2025, il Tribunale di Lecce ha dichiarato la nullità parziale di alcune clausole presenti in contratti di garanzia fideiussoria, confermando l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale che censura le condizioni contrattuali riprese dallo schema ABI del 2003, già sanzionato dalla Banca d’Italia per violazione della normativa antitrust.

Il caso: fideiussioni e clausole viziate

Protagonisti della vicenda, alcuni garanti che, opponendosi a una richiesta di pagamento avanzata dalla banca, hanno eccepito la nullità di specifiche clausole (le nn. 2, 6 e 8 dello schema ABI) contenute nel contratto fideiussorio. Clausole che, secondo i fideiussori, riproducevano pedissequamente quelle già ritenute contrarie alla libertà di concorrenza dalla Banca d’Italia con il provvedimento n. 55/2005. Il giudice ha dato loro ragione, accertando la nullità parziale dei contratti e dichiarando la banca decaduta dal diritto di agire in giudizio, non avendo rispettato i termini previsti dall’art. 1957 c.c.

Nullità di protezione estesa anche ai contratti “specifici”

Il Tribunale salentino ha ribadito che la nullità delle clausole oggetto di censura non riguarda soltanto le fideiussioni “omnibus” — riferite a obbligazioni future e indeterminate — ma si estende anche a quelle “specifiche”, stipulate per singole obbligazioni. La ragione? La violazione antitrust non risiede nel tipo di fideiussione, bensì nella diffusione di condizioni contrattuali standardizzate che limitano la concorrenza.

Il nodo dell’art. 1957 c.c. e la decadenza del creditore

Uno degli aspetti più rilevanti della pronuncia riguarda l’applicazione dell’art. 1957 c.c., che impone al creditore di agire giudizialmente contro il debitore principale entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione. Nel caso in esame, il Tribunale ha accertato che la banca aveva avviato l’azione monitoria solo nel 2023, mentre l’obbligazione era scaduta già nel 2019. Una comunicazione inviata nel 2018 e la pendenza di una procedura di sovraindebitamento sono state ritenute inidonee a interrompere il termine decadenziale.

La prova dell’intesa anticoncorrenziale

Non essendo in presenza di una fideiussione omnibus — e quindi formalmente esclusa dall’accertamento della Banca d’Italia — i garanti hanno dovuto fornire la prova dell’esistenza e persistenza dell’intesa illecita attraverso il deposito di modelli contrattuali utilizzati da più banche a livello nazionale, contenenti le medesime clausole contestate. Il Tribunale ha ritenuto sufficiente tale documentazione per dimostrare la continuità della pratica anticoncorrenziale.


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Phishing e home banking: se il cliente è incauto, la banca non paga

Il Tribunale di Bari ha messo un punto fermo in materia di truffe informatiche e responsabilità bancaria. Con la sentenza n. 544 del 13 febbraio 2025, il giudice ha respinto la domanda risarcitoria di un cliente che aveva denunciato accessi non autorizzati al proprio conto corrente tramite home banking, frutto di un attacco di phishing. A far pendere la bilancia a favore dell’istituto di credito è stato il comportamento poco diligente del correntista, che non aveva tempestivamente informato la banca di aver perso il controllo del proprio numero di telefono certificato per l’accesso online.

Il caso: bonifici sospetti e il cellulare disabilitato

La vicenda ha preso il via quando il cliente si è accorto che tra il 19 e il 23 luglio 2019 erano stati disposti numerosi bonifici a sua insaputa tramite home banking. Le credenziali di accesso non erano mai state condivise con terzi, ma il correntista aveva trascurato un dettaglio fondamentale: già dal 18 luglio il proprio cellulare – abilitato al sistema di autenticazione forte e necessario per autorizzare le operazioni online – era stato disattivato. Invece di avvertire la banca e bloccare l’utenza, il cliente aveva semplicemente cambiato operatore e numero di telefono, senza comunicare nulla all’istituto.

Le regole sulla sicurezza digitale e la ripartizione delle responsabilità

Il giudice ha ricordato i principi cardine in materia di operazioni di pagamento elettronico: spetta alla banca garantire la sicurezza del sistema e prevenire accessi non autorizzati, ma il cliente deve agire con diligenza, proteggendo le proprie credenziali e informando tempestivamente di eventuali smarrimenti o anomalie. In presenza di condotte gravemente imprudenti, come nel caso in esame, il prestatore di servizi di pagamento può essere esonerato da responsabilità.

Colpa grave e oneri a carico del cliente

Il Tribunale ha qualificato la condotta del correntista come colpa grave, sottolineando che l’interruzione della funzionalità del cellulare certificato equivale alla perdita di uno strumento di pagamento. La normativa di settore – in particolare il d.lgs. n. 11/2010 – impone infatti all’utente l’obbligo di comunicare senza indugio ogni smarrimento o uso non autorizzato, pena l’assunzione del rischio di eventuali perdite.

La decisione e le sue implicazioni

Alla luce di questi elementi, il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda risarcitoria, ritenendo legittimo l’esonero di responsabilità della banca. La sentenza si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che pur riconoscendo una forte tutela per i clienti dei servizi di pagamento, non esonera gli utenti dall’adottare comportamenti diligenti e tempestivi a tutela dei propri strumenti digitali.


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Assegno di mantenimento: contano le condizioni reali, non solo i redditi dichiarati

La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema del mantenimento tra coniugi separati, chiarendo un principio già affermato ma ancora spesso trascurato nei giudizi di merito: per determinare l’assegno di mantenimento, il giudice non può limitarsi ai redditi ufficialmente dichiarati, ma deve accertare il tenore di vita effettivo tenuto durante il matrimonio e le condizioni economiche reali delle parti.

Con l’ordinanza n. 11611 del 3 maggio 2025, la Prima Sezione Civile ha accolto il ricorso di un marito, contestando alla Corte d’appello una valutazione troppo generica e priva di un’adeguata ricostruzione della vita matrimoniale e del contesto patrimoniale. L’errore del giudice di merito è stato quello di fondare la decisione su presupposti non verificati, senza analizzare concretamente lo stile di vita condotto dalla coppia e le variazioni patrimoniali successive alla separazione.

Oltre le carte fiscali: la verifica concreta del tenore di vita

Il principio affermato dalla Suprema Corte è chiaro: la misura dell’assegno deve rapportarsi non solo alle dichiarazioni fiscali, ma a tutto ciò che compone il reale assetto economico delle parti, includendo proprietà, disponibilità finanziarie, redditi non dichiarati e fonti di sostentamento abituali durante il matrimonio.

Il giudice, quindi, può e deve servirsi di strumenti istruttori anche d’ufficio — come consulenze tecniche o indagini tributarie — per far emergere la reale situazione economico-patrimoniale, superando eventuali reticenze o opacità dei documenti ufficiali.

Un principio di equità nel post-separazione

Come già sancito da una consolidata giurisprudenza di legittimità, la quantificazione dell’assegno deve garantire un equilibrio economico tra i coniugi dopo la separazione, commisurando le necessità di chi lo richiede alle possibilità effettive dell’altro. Ciò richiede un’indagine attenta e concreta, che tenga conto anche di elementi presuntivi e di tutte le risorse che hanno consentito il tenore di vita durante la convivenza.


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Cassazione: sull’oblazione penale decide l’imputato, non il giudice

Con la sentenza n. 17523, depositata il 9 maggio scorso, la Corte di Cassazione ribadisce un principio ormai consolidato in materia di oblazione penale: spetta esclusivamente all’imputato sollecitare il giudice a riqualificare il fatto in una fattispecie che consenta l’accesso al beneficio, presentando contestualmente la relativa istanza. In mancanza di tale iniziativa, il diritto a fruire dell’oblazione viene meno, anche qualora il giudice, di propria iniziativa, dovesse procedere a una diversa qualificazione del reato.

La questione è stata affrontata dalla Terza sezione penale nell’esaminare il ricorso di tre imputati condannati per sversamento colposo di nafta in mare. La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, rilevando che i ricorrenti non avevano mai richiesto la riqualificazione del fatto durante la discussione del processo, rendendo così la loro censura generica e priva di fondamento.

Il principio, si legge nella motivazione, è pacifico: quando il reato contestato non consente l’oblazione ordinaria o speciale, l’imputato deve attivarsi, chiedendo una diversa qualificazione giuridica del fatto e presentando contemporaneamente istanza di oblazione. Se ciò non avviene e il giudice procede comunque a una riqualificazione ai sensi dell’articolo 521 del codice di procedura penale, il beneficio resta inaccessibile.

La Corte ha richiamato anche precedenti in materia, ricordando che un ricorso per Cassazione fondato sulla sola mancanza di un meccanismo automatico che consenta di fruire dell’oblazione a seguito di una riqualificazione d’ufficio, senza che l’imputato abbia mai avanzato istanza, è da considerarsi inammissibile perché volto a sollecitare una pronuncia di mero principio.

Infine, viene ribadito che la nullità della sentenza potrebbe sussistere solo se l’imputato avesse presentato regolare istanza subordinata a una diversa qualificazione del fatto e il giudice non si fosse pronunciato, oppure avesse applicato erroneamente la legge penale. Circostanza, questa, non verificatasi nel caso di specie, motivo per cui il ricorso è stato respinto.


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Avvocati romani compatti per la riforma della legge professionale: l’assemblea COA Roma guarda al Congresso di Torino

Si è svolta oggi l’assemblea del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, convocata per l’approvazione del bilancio consuntivo. L’aula, gremita da 310 presenti, ha approvato l’operato della Tesoreria con oltre il 90% dei consensi, un risultato che testimonia solidità amministrativa e condivisione diffusa all’interno del foro romano.

Ma, come ha evidenziato Massimiliano Cesali, consigliere dell’Ordine capitolino e già presidente di Movimento Forense, la notizia più rilevante emersa dall’assemblea non riguarda soltanto i numeri del bilancio. Cesali ha sottolineato come il momento più significativo della giornata sia stato il confronto sul prossimo Congresso Nazionale Forense, in programma a Torino.

Durante l’incontro sono intervenuti candidati delle due liste in competizione per il rinnovo del Consiglio, past president dell’Ordine e numerosi iscritti, tutti concordi — ha riferito Cesali — sulla necessità che, archiviata la competizione elettorale, i delegati romani si presentino uniti alla massima assise dell’avvocatura italiana per sostenere che il testo della proposta di riforma della legge professionale venga portato all’attenzione del Congresso come avvenne nel 2012 a Bari con quella che diventò poi la legge n. 247.

L’assemblea di oggi, dunque, non è stata soltanto un adempimento contabile, ma il segnale di un foro romano determinato a recitare un ruolo da protagonista nella stagione di riforma che attende l’avvocatura italiana.


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