Professionisti, equo compenso: che cosa dice la nuova legge

Giovedì 13 aprile 2023

La Camera dei deputati ha approvato la legge sull’equo compenso per i liberi professionisti. Nel testo vengono introdotte regole e standard minimi per le aziende e le PA, al fine di garantire un’adeguata retribuzione a coloro che svolgono un lavoro intellettuale.

La legge sull’equo compenso è stata approvata sia dalla maggioranza di destra ma anche dalle opposizioni. Gli unici ad astenersi dal voto sono stati i deputati del PD, in quanto in disaccordo su parte delle misure previste dalla legge.

L’equo compenso riguarderà le professioni per le quali esiste un ordine professionale, ma anche quelle che non ce l’hanno, ovvero, le professioni “non ordinistiche”. Le regole dovranno essere rispettate dalle PA e dalle aziende private. Eccezion fatta per banche, assicurazioni, imprese con più di 50 dipendenti oppure aziende con ricavi annuali che superano i 10 milioni di euro.

Le PA, secondo una stima del Sole 24 Ore, ammontano ad oltre 27mila. Le aziende private coinvolte, invece, sono 51mila: il numero, in realtà, sembra ancora piuttosto piccolo, poiché nel 2021 le aziende italiane erano 1 milione e 647mila.

Ma la misura più importante è sicuramente quella del primo articolo, riguardo le indicazioni per stabilire l’equo compenso. Per tutti i liberi professionisti che sono iscritti ad un ordine professionale, i valori dell’equo compenso sono indicati nel decreto ministeriale 140/2012, eccezion fatta per gli avvocati, poiché nel 2022 sono stati introdotti i parametri aggiornati attraverso il decreto ministeriale 147.

Secondo i commercialisti, tuttavia, i parametri indicati nel decreto del 2012, oltre ad essere datati sono anche incompleti. È probabile che, nel corso dei prossimi mesi, vengano proposti degli aggiornamenti riguardanti i criteri economici che sono stati stabiliti, ormai, più di 10 anni fa.

Invece, per i liberi professionisti che non appartengono ad alcun ordine, verranno stabiliti dei nuovi parametri, mediante un decreto ministeriale del ministero delle Imprese e del Made in Italy, per il quale dovremmo aspettare altri 60 giorni.

Le aziende potranno anche non rispettare questi valori, ma soltanto se verranno concordati nuovi parametri con i rispettivi ordini professionali del loro settore. I liberi professionisti avranno la possibilità di richiedere all’azienda di applicare le nuove regole, sia autonomamente oppure attraverso l’ordine professionale.

La nuova legge, inoltre, prevede che nei contenziosi tra lavoratori e aziende debbano essere ritenute nulle le parti dei contratti che:

  • non rispettano l’equo compenso;
  • vietano ai liberi professionisti di richiedere l’acconto per la loro prestazione;
  • costringono i liberi professionisti all’anticipo delle spese;
  • prevedono termini di pagamento superiori a 60 giorni dal ricevimento della fattura.

Secondo la legge, comunque, potranno essere ritenute nulle tutte le parti dei contratti troppo vantaggiose per le imprese, nei confronti della qualità e della quantità del lavoro commissionato. Inoltre, sembra che verrà istituito un «osservatorio sull’equo compenso» dal ministero della Giustizia, con il compito di controllare che vengano rispettate le nuove regole.

A tutto questo si lega anche un altro aspetto della legge, che sembra essere stato particolarmente contestato: non ci saranno sanzioni, infatti, per le aziende che non rispettano le regole, ma gli ordini professionali potranno procedere a sanzionare i professionisti che accettano un compenso che non è equo.

Diversi esponenti del PD hanno criticato il passaggio, tra cui il capogruppo del partito in Commissione Giustizia, Federico Gianassi: «Avevamo chiesto di cancellare le sanzioni al professionista, che è parte debole del rapporto e non può essere pure sanzionato».

Un ulteriore problema indicato dal PD e da Gianassi e che la nuova legge non interviene sui rapporti di lavoro che esistono di già, e che, dunque, proseguiranno senza il rispetto dell’equo compenso. Il PD, a tal proposito, aveva richiesto una norma transitoria, presto rifiutata dalla maggioranza.

Gianassi ha dichiarato di apprezzare che la legge vada ad affermare l’equo compenso, estendendolo a tanti lavoratori. Tuttavia, è «un’occasione persa», in quanto esclude «centinaia di migliaia di professionisti».

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Giustizia: il Papa cambia le norme penali e l’ordinamento giudiziario del Vaticano

Giovedì 13 aprile 2023

Papa Francesco ha deciso di riscrivere le norme che riguardano il processo penale e l’ordinamento giudiziario dello Stato della Città del Vaticano.

Con un Moto Proprio pubblicato mercoledì 12 aprile 2023, il Pontefice ha introdotto delle modifiche riguardo la normativa penale, di fronte al moltiplicarsi di vicende che «richiedono una definizione sollecita e giusta in ambito processuale», che causa «un crescente carico di lavoro per gli organi giudiziari».

Con le modifiche introdotte da Papa Francesco si punta alla semplificazione dei meccanismi, mantenendo e migliorando «la funzionalità del sistema». Tra le varie novità troviamo:

  • un inquadramento preciso delle funzioni requirenti e inquirenti dell’Ufficio del Promotore di Giustizia;
  • possibilità di aggiungere un supplente nel collegio di 3 magistrati, se uno dei membri abbandoni il ruolo;
  • la possibilità che lo stesso Papa nomini un presidente del Tribunale vaticano aggiunto se quello in carica si trova nell’anno delle sue dimissioni;
  • l’abrogazione della presenza “full time” di almeno un giudice all’interno del collegio giudicante.

L’ultima novità è stata introdotta con la Legge CCCLI del 16/03/2020, con la quale il Papa andava a promulgare un ulteriore ordinamento giudiziario. Si sostituisce il primo comma così: «Il potere giudiziario nello Stato della Città del Vaticano è esercitato, a nome del Sommo Pontefice, per le funzioni giudicanti dal tribunale, dalla Corte di appello e dalla Corte di Cassazione; per le funzioni inquirenti e requirenti, dall’Ufficio del Promotore di Giustizia».

Un’ulteriore specifica introdotta dal Motu Proprio fa riferimento al fatto che «i magistrati sono nominati dal Sommo Pontefice e nell’esercizio delle loro funzioni sono soggetti soltanto alla legge». Essi «esercitano i loro poteri con imparzialità, sulla base e nei limiti delle competenze stabilite dalla legge».

Viene abrogato il comma 2 dell’art.6, che stabiliva la presenza full time di uno dei magistrati ordinari «senza avere rapporti di lavoro subordinato né svolgere attività libero-professionali con carattere continuativo». D’ora in poi, tutti potranno assumere ulteriori incarichi, e nessuno dovrà svolgere obbligatoriamente le proprie funzioni a tempo pieno.

Nel comma 3 dell’art.6, invece, era previsto che «il Tribunale giudica in collegio di tre magistrati, designati dal presidente del Tribunale tenendo conto delle loro competenze professionali e della natura del procedimento».

Invece, con il Motu Proprio, il presidente del Tribunale dovrà tenere in considerazione anche «la data di cessazione dei giudici in relazione alla prevedibile durata del processo. Nel rispetto del principio di immutabilità del giudice e per assicurare la ragionevole durata del processo, il presidente può nominare un componente supplente, il quale partecipa ai lavori del collegio e può giudicare nei casi di impedimento o di cessazione dalle funzioni di un magistrato».

Modifiche anche all’articolo 10. Viene aggiunto, infatti, che «il Papa, nel corso dell’Anno giudiziario in cui il presidente è tenuto a rassegnare le dimissioni, può nominare un presidente aggiunto, il quale coadiuva il presidente nell’esercizio delle funzioni», svolgendo «funzioni vicarie» e presiedendo «i collegi nei giudizi di prevedibile durata ultrannuale, subentrando nella carica al momento della cessazione del presidente».

Riguardo il Promotore di Giustizia, viene stabilito che potrà presentare al Tribunale una «richiesta di sentenza di non luogo a procedere» nel caso in cui ritenga che «ricorrano le condizioni per la concessione del perdono giudiziale», oppure se il fatto «possa essere ritenuto di lieve entità in ragione delle modalità della condotta, della personalità dell’imputato, del danno cagionato alla persona offesa o del pericolo causato».

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Anche le mail inquinano: l’impatto ecologico dei rifiuti digitali

Avvocato, sai come utilizzare TikTok per il tuo Studio Legale?

Mercoledì 12 aprile 2023

TikTok, dopo aver conquistato i giovani della Generazione Z, ora si sta diffondendo anche tra i più “anziani”, che cominciano a scoprire le potenzialità e le funzionalità del social. Ma anche aziende e professionisti si stanno buttando su TikTok, sfruttandolo come piattaforma di business.

Stare su un social del genere significa trovare un equilibrio tra contenuti e linguaggio utilizzato. Anche gli avvocati possono beneficiare del social: basterà gestirlo in maniera strategica inserendolo in un piano di comunicazione e marketing più ampio.

Non serve essere famosi su TikTok: bastano i giusti contenuti

TikTok sembra essere governato da algoritmi che premiano i contenuti che provocano maggior interesse. Tuttavia, a differenza di altre piattaforme, l’attenzione viene rivolta verso il creatore dei contenuti, che non dovrà necessariamente partire da un robusta fan base per diventare virale.

Tutto ciò è un gran vantaggio per le persone intenzionate ad esplorare a pieno le potenzialità del social, anche partendo da zero.

TikTok è nata come una piattaforma di content discovery, orientata quindi verso una fruizione decisamente rapida dei contenuti. L’obiettivo è la stimolazione del watch time, che determina il valore di un video: più un video verrà visualizzato, maggiore sarà il punteggio attribuitogli dall’algoritmo del social, che lo mostrerà con maggior frequenza agli utenti.

Di certo è un social che trova negli utenti della Generazione Z uno zoccolo duro. Tuttavia, non è affatto un social per ragazzini dove vengono fatti soltanto i balletti. Sempre più adulti sperimentano il social, mossi da una gran curiosità.

Il social, per molti, non è solo passatempo, divertimento e challenge, ma strumento per veicolare informazioni e how to. Gli avvocati possono (e devono) utilizzare TikTok per migliorare la loro reputazione digitale, affermando il proprio posizionamento.

È fondamentale, come in qualsiasi social, definire il target e il pubblico al quale ci si rivolge, scegliendo accuratamente i temi da trattare, evitando di investire tempo e risorse in un dialogo a senso unico. Un eventuale piano di contenuti per TikTok andrà inserito in una dimensione più ampia, che vada a coinvolgere anche altri canali.

Case history americani

Anche se è un social poco esplorato dagli avvocati, non mancano case history di particolare rilievo, che testimoniano come un’efficace content strategy possa affermare e valorizzare le competenze di un professionista.

Gli esempi fanno parte del mercato legale americano, e non possono essere paragonati al nostro panorama, è vero. Tuttavia, possiamo osservare come uno stile distintivo, unito ad un linguaggio efficace e alla capacità di trattare temi che interessano al pubblico di riferimento, possano migliorare il proprio personal branding.

Avvocati del calibro di Anthony Barbuto, Ali Awad, Brad Shear e Ryan Chevener hanno raggiunto centinaia di migliaia di follower. Si tratta di avvocati che hanno basato tutta la loro strategia comunicativa su un racconto tanto leggero quanto efficace, dialogando costantemente con il loro pubblico.

Ecco qualche suggerimento utile per il personal branding su TikTok:

  • Scegliere con cura i temi di cui si vuole parlare, concentrandosi su un’area specifica di competenza, evitando in tal modo di apparire come “tuttologi”;
  • Catturare dal primo secondo l’attenzione;
  • Pubblicare video brevi, di 30 secondi al massimo;
  • Cercare di essere costanti e regolari, alternando video informativi a retroscena professionali;
  • Registrare i video in maniera professionale, seguendo un canovaccio;
  • Eliminare il legalese e utilizzare un linguaggio poco tecnico;
  • Usare hashtag di tendenza;
  • Raccontare storie e casi pratici;
  • Utilizzare audio, musica, didascalie e testi di tendenza;
  • Interagire con chi ci segue;
  • Utilizzare call to action, per spingere gli utenti a cercarci fuori da TikTok.

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Anche le mail inquinano: l’impatto ecologico dei rifiuti digitali

Mercoledì 12 aprile 2023

Non ci facciamo molto caso, ma navigare online ha un costo altissimo. E chi ne paga le conseguenze è il nostro Pianeta. Se 70 milioni di abbonati a servizi streaming abbassassero la qualità dei video da HD a Standard, ci sarebbe una riduzione mensile di 3,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica, pari al 6% del consumo di carbone mensile negli USA.

Oltre a questo, non ci rendiamo nemmeno conto di essere sommersi da rifiuti digitali. Bisognerebbe accrescere la consapevolezza dalla propria impronta digitale con azioni di sensibilizzazione digitale, ripulendo la memoria dei nostri dispositivi, evitando di inviare messaggi e mail inutili e cercando di dare sempre una seconda chance alle apparecchiature digitali.

Streaming passivo e click superflui

In Italia esiste un’organizzazione, Let’s do it Italy, che ha l’obiettivo di ripulire la Terra dai rifiuti, provando a contrastare in tal modo i cambiamenti climatici. Spiega Vincenzo Capasso, presidente dell’organizzazione ed esperto informatico: «Proviamo a far capire alle persone che i rifiuti digitali creano inquinamento digitale che continua a consumare energia anche quando ce ne siamo dimenticati. La spazzatura digitale si trova nei backup sui server che ci forniscono il servizio cloud e continuano a consumare elettricità».

Continua: «Il nostro consumo illimitato di dati oggi richiede tre volte più energia di quanta ne possano produrre tutti i pannelli solari del mondo. E la nostra mania di Internet funziona principalmente con i combustibili fossili»,

Dunque, lo streaming passivo e i click superflui causano più di 870 milioni di tonnellate di anidride carbonica, «contribuendo in modo consistente al riscaldamento globale». L’organizzazione ha proposto alcune challenge, come eliminare le vecchie mail, cancellarsi da newsletter inutili e rimuovere gli allegati dai download delle mail di cui non abbiamo bisogno.

Aggiunge Capasso: «Il 60% delle email non viene aperto, ogni anno vengono inviate 62 trilioni di email di spam. Restano solo lì a occupare spazio ed energia nella nostra casella di posta».

Per Enrico Parolisi, direttore di F-Mag, «il mondo ha sempre fatto tardi e oggi ne paghiamo le conseguenze. Abbiamo sempre sottovalutato il suo tremendo impatto sull’ambiente e l’ecosistema, e oggi sappiamo quanto sia complesso correre ai ripari».

Oggi, il mondo digitale è interconnesso: non si torna più indietro. La nostra vita online comporta impatti ambientali non trascurabili, a partire dalle nostre mail. Per esempio, soltanto nel Regno Unito ogni giorno vengono inviate 64 milioni di mail inutili: una singola mail ha un’impronta carbonica compresa tra i 5 e i 50 grammi di CO2.

Spegnere la videocamera su zoom

Se un dipendente partecipa a 15 ore di call online con la videocamera accesa contribuisce alla creazione di 9,4 kg di CO2. Spiega Capasso: «Spegnendo il video risparmierebbe la stessa quantità di emissioni che si creano caricando uno smartphone ogni notte per oltre tre anni».

Aggiunge, inoltre, che «ci vuole più energia per estrarre i Bitcoin di quanta ne consuma l’intera Nuova Zelanda in un anno. Il mining (l’estrazione di dati) di Bitcoin non produce altro che pochi byte di dati crittografati, consuma enormi quantità di energia con l’informatica senza creare effettivamente un prodotto o un servizio d’uso».

E ancora: «Google consuma 15.616 MWh di energia al giorno, più di quanto produce la diga di Hoover e alimenterebbe un intero paese con un milioni di abitanti per un giorno».

Meno inquinamento, più equilibrio

Certamente, il discorso della sostenibilità ambientale risulta molto importante. Eliminare dati non necessari permette anche di allungare la vita dei dispositivi tecnologici; ma fare pulizia ci permette di «sentirci più equilibrati e prendere il controllo delle nostre vite, forgiando nuove abitudini digitali».

«Organizzare le nostre email, inviarne meno e utilizzare modalità di comunicazione alternative, come gli spazi di co-working, libererebbe quel tempo, ma limiterebbe anche la pratica inefficace di organizzare il lavoro tramite email», conclude Capasso.

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Mercoledì 12 aprile 2023

Se ci pensiamo bene, trattiamo proprio male la nostra mail!

 

La condividiamo un po’ ovunque, utilizzandola per ogni piattaforma o servizio, che sia lo streaming o qualche servizio di delivery. Fino a poco tempo fa era comune utilizzarne diverse a seconda dello scopo, ma ora questa usanza si sta affievolendo.

È sicuramente un grave errore: la posta elettronica, servizio pensato per le comunicazioni interpersonali dovrebbe avere un po’ di privacy in più. Ma soprattutto, maggior discretezza nella sua diffusione, in quanto prezioso strumento personale.

Mail e pubblicità online

A quanto pare, l’indirizzo mail non serve soltanto per le comunicazioni personali. Per coloro che si occupano di pubblicità online, per sviluppatori, editori e produttori di applicazioni, la mail è una sorta di indizio ricorrente per seguire le nostre attività online, proponendoci specifiche pubblicità, in base a tutto quello che ricerchiamo online.

Ciò avviene a causa della progressiva riduzione delle funzionalità collegate ai cookies, ovvero pezzi di codice che per lungo tempo hanno svolto il lavoro della profilazione digitale, ma che ora hanno vita difficile.

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Oggi, quindi, i cookies non hanno più la stessa utilità nell’offrirci pubblicità mirate. La mail, che ci viene richiesta sempre più frequentemente e insistentemente, risulta non soltanto più utile rispetto ai cookies, ma anche rispetto ad altre informazioni personali.

Come sostiene Michael Priem, CEO di Modern Impact, società pubblicitaria di Minneapolis: «Posso prendere il tuo indirizzo mail e trovare dati che potresti non aver nemmeno realizzato di aver dato ad un certo brand. La quantità di dati disponibili su di noi come consumatori è letteralmente scioccante».

UID 2.0

A quanto pare, la nostra mail risulta essenziale al fine dell’implementazione dei sistemi di tracking che stanno sostituendo i cookies, come il sistema Unified ID 2.0, conosciuto anche come UID 2.0.

Sostanzialmente, quello che fa il sistema è trasformare la mail (magari in cambio di un piccolissimo sconto su un sito oppure con l’iscrizione ad una newsletter) in una stringa alfanumerica, che viene successivamente associata ad ogni servizio che utilizzi UID 2.0.

Questo non avviene soltanto con la mail, ma anche con i nostri numeri di telefono. In tal modo si segue l’utente nelle varie piattaforme, andando a selezionare gli annunci più pertinenti ed efficaci per lui.

Se Mozilla ritiene che con UID 2.0 si sia fatto «un forte passo indietro» con la privacy, troviamo anche alcuni sistemi un po’ più semplici per poter trasformare la nostra mail in un’informazione pubblicitaria.

Infatti, il nostro indirizzo mail potrebbe essere venduto e inserito in un database di un broker pubblicitario, tentando di accoppiarlo con dei profili che contengono un gran numero di dati, andando a generare delle pubblicità più mirate.

Se ci chiediamo come mai, nonostante tutti i negati consensi ai cookies e alla massima attenzione dedicata al blocco dei tracciamenti delle app, la pubblicità risulta ancora profilata e invasiva, è perché il nostro indirizzo mail sta circolando ancora eccessivamente.

Ritrovare un po’ di privacy

Quello che si può fare è ritornare alle vecchie abitudini, creando una mail specifica per ogni servizio, utilizzandola soltanto per una specifica piattaforma.

Sì, è un lavoro noioso e snervante. Si potrebbe pensare, quindi, di utilizzare servizi offerti da Apple o da Mozilla, per esempio, che mascherano l’indirizzo mail con degli indirizzi alias, che inoltrano i messaggi a quello reale.

Ehi, hai per caso bisogno di un indirizzo mail professionale?

 

La posta elettronica è un mezzo di comunicazione imprescindibile al giorno d’oggi. È facile, veloce e ha costi ridotti. 

Con Servicematica puoi avere un servizio email professionale. Puoi ottenere più indirizzi email da fornire ai tuoi dipendenti o collaboratori. Puoi personalizzarli scegliendo come dominio il tuo nome o quello della tua azienda.

Ma soprattutto puoi godere della nostra assistenza da remoto per risolvere qualsiasi difficoltà.

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Mercoledì 12 aprile 2023

Ancora prima di nascere, nei social vengono pubblicate migliaia di ecografie. I bambini, ormai, sono i protagonisti dei post e delle stories dei genitori, che li paparazzano mentre vanno a scuola, mentre giocano, durante il bagnetto o mentre fanno colazione.

Si tratta di sharenting, termine che nasce come neologismo, in parallelo alla diffusione capillare dei social media. In effetti, si tratta dell’unione dei termini “sharing”, condivisione, e “parenting”, genitorialità.

Insomma, con sharenting s’intende la condivisione sui social media di immagini dei propri figli. Ciò, a prescindere dal fatto che si tratti di foto su Facebook o di stories su Instagram.

Sharenting e genitori separati

Al giorno d’oggi, pubblicare le foto dei figli sui social è diventata una prassi ordinaria. Ma che cosa succede nel caso di genitori separati, ove uno dei due non è d’accordo con la condivisione? E se fosse il figlio stesso a non essere affatto d’accordo?

«Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa», recita la legge sul diritto d’autore, senza fare distinzioni tra maggiorenni e minorenni. Ma anche l’articolo 2 della Costituzione difende il diritto al ritratto: una foto realizzata con lo smartphone ha lo stesso identico valore di un ritratto, in quanto si rende riconoscibile l’identità e l’immagine della persona ritratta.

Ciascun genitore può impedire all’altro di pubblicare foto online dei propri figli, in base all’art. 709 del Codice penale e all’art. 614 del Codice civile. Se un genitore viola tale richiesta, si potrà richiedere l’intervento del giudice, affinché vengano rimosse le immagini – oltre alla richiesta del risarcimento del danno.

La situazione cambia nel caso in cui i genitori siano divorziati o separati: negli accordi di separazione o divorzio verranno infatti inserite anche le clausole che regolano la pubblicazione delle foto online. Il problema, comunque, può riguardare anche la mancata volontà da parte del figlio stesso per la pubblicazione delle sue foto online.

All’estero esistono già casi di figli che hanno deciso di portare in tribunale i genitori, in quanto contrari all’aver visto gran parte della loro vita condivisa online. I genitori, prima di tutto, hanno il compito di preservare l’incolumità dei figli.

Succede, in particolar modo nelle coppie separate, che ci sia un genitore che pubblica online le foto del figlio, all’insaputa dell’altro. Ma abbiamo detto che pubblicare online le immagini dei figli richiede un accordo comune, che nelle coppie separate potrebbe mancare.

Se c’è disaccordo, l’autorità giudiziaria procederà a decidere in base agli interessi del minore. L’unica eccezione riguarda l’affido esclusivo del minore, nel quale il genitore affidatario agisce senza dover interpellare l’altro.

Pubblicare video dei figli su TikTok

Al Tribunale di Trani (ord. 3445/2021) si è proceduto a giudicare una madre separata che aveva pubblicato su TikTok dei video della figlia di 9 anni. Il giudice aveva disposto la rimozione urgente, condannando la madre al pagamento di 50 euro per ogni giornata di avvenuta violazione ma anche di ritardo nell’esecuzione di tale provvedimento.

Il denaro avrebbe dovuto essere versato su un conto corrente appositamente intestato alla figlia. Per il collegio, «l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi, in quanto determina la diffusione delle immagini tra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo aver visto le loro foto online».

Consenso del minore o dei genitori?

In Italia, il limite della legge per la manifestazione del consenso in maniera autonoma (art. 2 quinquies D.Lgs. n. 101/2018) viene fissato ai 14 anni d’età. La persona, dopo il compimento del quattordicesimo compleanno, potrà pubblicare le proprie immagini sui social, dopo aver acconsentito al trattamento delle sue informazioni personali.

Dunque, chiunque vorrà procedere alla pubblicazione della foto di un minore che abbia compiuto 14 anni, dovrà ottenere il consenso dal minore, e non dai genitori – eccezion fatta nei casi in cui, come stabilito dall’art. 97 L. n. 633/194, «la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico».

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Martedì 11 aprile 2023

È arrivata una modifica da parte del Ministero dell’Interno: con la Riforma Cartabia viene ufficialmente modificata la legge Severino. Chi in passato ha patteggiato una pena sino a 2 anni, dunque, potrà candidarsi alle elezioni.

In sostanza, chi ha patteggiato una pena sino a 2 anni, evitando in tal modo la condanna definitiva all’interno di un processo ordinario, potrà candidarsi alle prossime elezioni. Questo è quanto stabilito da una recente circolare del ministero dell’Interno, che contiene un parere del Dipartimento per gli Affari interni e per gli Enti locali.

La legge Severino, risalente al 2012 e nata al fine di mettere un freno alle infiltrazioni criminali e alla corruzione, d’ora in poi sarà meno stringente. Tutto questo per un motivo tecnico: la riforma Cartabia, nata con il Governo Draghi, ha stabilito che gli effetti non penali derivanti da una condanna non debbano essere applicati in caso di patteggiamento.

Con la legge Severino, che fu approvata sotto il governo Monti nel 2012, si stabilì che coloro che avevano ricevuto una condanna superiore a 2 anni «per delitti non colposi», non avrebbero potuto candidarsi alle elezioni per 6 anni.

Ma con la Riforma Cartabia, per il governo, coloro che patteggiano non hanno diritto a perdere la possibilità di candidarsi. Leggiamo nel parere come l’incandidabilità «perde i suoi effetti», e quindi i condannati che hanno patteggiato «non incorrono più in una situazione di incandidabilità, potendo così concorrere alle prossime elezioni».

Tale modifica ha valore retroattivo, e per questo potrà essere applicata già dalle prossime elezioni. Ma la modifica riguarda soltanto alcuni casi: per esempio, se il giudice decide di applicare una pena accessoria, quale l’interdizione dai pubblici uffici, resta l’incandidabilità nonostante il patteggiamento.

Si tratta della stessa identica legge che ha condotto, nel 2013, al decadimento di Silvio Berlusconi dalla sua carica di senatore, in quanto condannato a 4 anni per frode fiscale.

Nel passato, anche il Guardasigilli aveva criticato la legge anticorruzione. Nel 2021 aveva sostenuto i referendum della Lega finalizzati alla sua abrogazione, definendola «incostituzionale e inopportuna», dichiarando inoltre che era nata «per ragioni di demagogia politica e nata male come tutte le norme che nascono con questa motivazione».

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Martedì 11 aprile 2023

FdI ha deciso di dichiarare guerra agli eco-vandali con un nuovo disegno di legge che mira a rafforzare le misure di sicurezza per quanto riguarda la tutela del decoro, con maggiori sanzioni penali per coloro che imbrattano beni ambientali e culturali.

Negli ultimi tempi, infatti, come abbiamo visto, sono aumentate le azioni dimostrative degli attivisti di “Ultima Generazione”, giovanissimi in prima linea per la lotta contro il cambiamento climatico. Si pensi, per esempio, al liquido nero che è stato versato in Piazza di Spagna, nella fontana della Barcaccia, oppure alla vernice arancione lanciata a Firenze contro Palazzo Vecchio. La stessa, tra l’altro, utilizzata per imbrattare la sede del Senato, Palazzo Madama.

Tali iniziative sono decisamente stigmatizzate dal governo Meloni, che oggi vorrebbe ricorrere ai ripari da queste azioni grazie ad un decreto legge ad hoc, che vede il senatore Marco Lisei come primo firmatario.

Attualmente la bozza del testo è in fase di perfezionamento, e sembra essere composta da un unico articolo, contenente le modifiche al DL 14/2017 e all’art. 635 del Codice Penale. In particolare, chi riporta una o più denunce oppure ha subito una condanna per danneggiamento volontario di beni culturali o per vandalismo, non potrà più avvicinarsi per minimo sei mesi o massimo un anno, ad una distanza inferiore a 10 m, agli edifici che sono sottoposti a tutela.

Se tale divieto viene trasgredito, ci sarà una multa dai 500 euro a 1000 euro. Il DL di Fratelli d’Italia punisce anche con la reclusione, da sei mesi a tre anni, coloro che deturpano o imbrattano edifici di culto e pubblici, oppure quelli sottoposti a tutela in quanto beni culturali.

Il relatore Lisei, nella relazione illustrativa del DL, sottolinea che «il diritto di scegliere di compiere azioni di disobbedienza civile non può essere assolutamente confuso con il diritto a compiere azioni vandaliche per porre all’attenzione delle persone a questo o a quel problema o esigenza». Si tratta di «un non-principio che non può essere in alcun modo legittimato».

Ma Ultima Generazione non è spaventata dal ddl. Dichiara infatti il portavoce Simone Ficicchia: «Siamo molto sorpresi nel vedere una maggioranza che invece di occuparsi della crisi climatica è sempre più attiva nel promuovere leggi ad hoc per punire azioni non violente messe in campo da persone preoccupate per il futuro di tutti».

Aggiunge Ficicchia: «Segnalo che esiste già il reato di danneggiamento, che ci è stato anche contestato come ipotesi di reato per le nostre azioni: ma probabilmente questo reato non può essere perseguito in tribunale proprio perché il danneggiamento non c’è mai stato».

Dunque, «si punta a punire l’imbrattamento, ma questo rischia di portare a una interpretazione arbitraria della legge. È una cosa molto pericolosa. Il ddl di Fratelli d’Italia non ci ferma e non ci spaventa. Siamo pronti a qualsiasi rischio legale e anche ad andare in carcere», conclude.

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Venerdì 7 aprile 2023

A palazzo Madama è stato presentato un disegno di legge, firmato da Alberto Balboni, finalizzato all’abbattimento delle spese di giustizia per le procedure di recupero crediti da parte dei professionisti. In tal modo, si equipara la situazione ai lavoratori dipendenti.

La proposta punta all’estensione delle «esenzioni dal pagamento delle spese processuali e le riduzioni delle medesime spese previste per le controversie di lavoro alle procedure di recupero del credito relativo a compensi professionali».

Entrando ancor più nello specifico, la proposta vorrebbe estendere «il regime delle spese di giustizia previsto per le controversie individuali di lavoro ai procedimenti aventi ad oggetto il recupero dei crediti riguardanti compensi o rimborsi derivanti dall’esercizio di una libera professione organizzata in ordine o collegio, entro la competenza di valore del giudice di pace».

Tutto questo, secondo Balboni, poiché «lavoro subordinato e lavoro autonomo sono uguali e devono garantire le stesse tutele. Questa proposta mira quindi a garantire uguaglianza non solo sul piano costituzionale, ma anche nei fatti e nella vita processuale».

La proposta è stata accolta positivamente da Elisa Demma, presidente del Movimento Forense: «In un momento difficile per l’avvocatura risulta quanto mai essenziale essere vicini alle colleghe e ai colleghi. Il tema è importante e fortemente politico. L’iniziativa supera una concezione ideologica per cui il lavoro, ed i diritti ad esso riconosciuti e connessi, è solo quello subordinato e non quello autonomo».

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Addio alle raccomandate: ecco la Piattaforma delle notifiche digitali

Venerdì 7 aprile 2023

La Piattaforma delle notifiche digitali è un nuovo e rivoluzionario sistema che stravolgerà il modo in cui verranno inviati ai cittadini gli atti legali dei pubblici uffici, che ad oggi vengono spediti tramite raccomandata oppure Pec.

La nuova Piattaforma delle notifiche digitali è un progetto che fa parte del Pnrr, che in questo caso prevede lo stanziamento di 200 milioni.

Entro il prossimo dicembre, almeno 800 Comuni trasmetteranno degli avvisi attraverso la Piattaforma, rispettando, in tal senso, gli impegni presi con la Commissione Ue. I Comuni, invece, sono tentati dall’infrastruttura di PagoPa, che promette di tagliare tempi e costi delle notifiche di tributi, multe o atti per i quali è necessario essere sicurissimi che il cittadino abbia ricevuto e letto l’avviso.

Ad oggi 5.121 municipi hanno deciso di aderire al bando da 80 milioni di euro, raddoppiato ad ottobre con altri 70 milioni. Sul piatto, ancora 51,7 milioni.

Il Progetto è stato lanciato nel 2022. Quando sarà ufficialmente operativo, cambierà completamente il modo in cui cittadini ed enti pubblici gestiranno raccomandate e documenti pubblici.

Se Maria Rossi, per esempio, prende una multa perché è entrata in una ZTL nel Comune di Bugliano, avrà cinque giorni di tempo per pagare una multa con importo ridotto. Se la signora Rossi non paga, il Comune rileverà il debito: ma non spedirà a casa della signora una sanzione cartacea, poiché depositerà l’atto direttamente sulla Piattaforma delle notifiche digitali.

Sarà la stessa piattaforma a cercare Maria Rossi, avvisandola della multa. Spiega Federica Amoroso, di PagoPa: «La ricerca si fonda su un dato imprescindibile, il codice fiscale». Se la signora ha un domicilio digitale, come nel caso delle Pec, allora le arriveranno almeno due Pec con il link alla piattaforma per visualizzare l’atto.

Inoltre, scatterà anche una notifica di cortesia, come un messaggio sull’app Io, oppure un sms. Tuttavia, se l’invio digitale per qualsiasi motivo non dovesse andare a buon fine, la Piattaforma farà partire la classica raccomandata.

A tutti i cittadini che, invece, non possiedono un domicilio digitale, arriverà comunque una raccomandata con ricevuta di ritorno.

App Io e PagoPA

Ma la Piattaforma, oltre a consegnare gli avvisi, conserverà tutti gli atti, creando cassetti specifici dedicati ai singoli destinatari. Verranno conservati per dieci anni anche gli atti delle persone irreperibili, al posto di distribuirli tra gli archivi dei Comuni o del pubblico ministero, costringendo, in tal modo, a continue notifiche, sprecando tempo e risorse.

Le vie cartacee, si sa, rallentano i tempi. Con il progetto si spera che si verifichi un accelerazione anche nei tempi dei pagamenti, che ad oggi richiedono una media di due mesi. Per questo, l’app Io e PagoPa verranno integrate sulla Piattaforma.

Inoltre, avendo certezza della consegna, si spera anche di abbattere il problema dei contenziosi, che per l’Agenzia delle entrate costano 55 milioni ogni anno.

Utilizzare il software dell’ufficio del protocollo

Verranno abbassati anche i costi degli avvisi: 2 euro per le notifiche digitali, 3,33 per le raccomandate con ricevuta di ritorno e 7,43 euro per le raccomandate ex legge 890 per gli atti giudiziari.

Il Pnrr copre anche l’affidamento degli appalti finalizzati al collegamento dei gestionali dei Comuni alla Piattaforma. Circa 70 aziende informatiche sono già state selezionate per poter agganciare i software locali alla nuova Piattaforma.

«La nostra strategia è usare il software dell’ufficio del protocollo come punto di snodo per agganciarci alla Piattaforma delle notifiche digitali», spiega Luigi Zanella di Deda Next. «Siccome tutti gli atti che vanno fuori sono protocollati, lo uso come punto di contatto e poi lascio che, all’interno, sia il protocollo a interfacciarsi con i gestionali degli altri uffici. Laddove non si può, come nel caso delle multe, che non vengono protocollate facciamo un collegamento diretto».

Continua Zanella: «Dal momento della sottoscrizione del contratto, ci sono 180 giorni per completare gli sviluppi. I Comuni dovranno tenere aperto d’estate per sviluppare l’integrazione». In caso contrario, perderanno i finanziamenti.  Per arrivare preparati ai traguardi di fine anno, occorrerà lavorare non soltanto alla Piattaforma, ma anche a tutte le condizioni per poter farla decollare.

In queste settimane, comunque, i Comuni sono coinvolti anche nel lancio di un’altra piattaforma nazionale prevista dal Pnrr: stiamo parlando della Piattaforma dei dati, ovvero, un sistema di interscambio delle informazioni tra i vari enti pubblici. Dunque, al posto di costringere un cittadino a ripetere molte volte gli stessi dati in moduli diversi, saranno le singole amministrazioni a far dialogare tra loro le banche dati.

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