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Negli Stati Uniti comincia il processo contro Google

Negli Stati Uniti comincia il processo contro Google; la big tech, infatti, è stata accusata dal governo USA di abuso di posizione dominante per quanto riguarda le ricerche online.

Il processo è molto importante, sia da un punto di vista pratico che simbolico. Infatti, questo è il primo processo antitrust avviato dal governo americano contro una big tech dai tempi del processo contro Microsoft del 1998, che apportò grandissimi cambiamenti nel settore.

Il processo avverrà a Washington ed è probabile che duri molti mesi. Il dipartimento di Giustizia sostiene che Google abbia abusato della propria posizione di monopolio nel settore delle ricerche online, al fine di danneggiare la concorrenza e di eliminare completamente innovazioni che avrebbero potuto favorire i consumatori.

In America non è illegale il monopolio di un settore dell’economia; tuttavia, secondo il dipartimento di Giustizia, Google avrebbe infranto la legge per ottenere e mantenere il monopolio.

Per Google, invece, tali accuse sono infondate: se l’azienda domina il settore, a suo dire, è perché offre un prodotto migliore, che viene preferito dalla maggior parte degli utenti. Per accedere alla concorrenza, sempre secondo Google, bastano pochi clic: dunque, non ci sarebbe alcun obbligo per l’utilizzo di un prodotto al posto di un altro.

Attualmente, Google detiene circa l’80% del mercato mondiale delle ricerche online.

Il caso sollevato dal dipartimento di Giustizia focalizza l’attenzione in un ambito limitato, e riguarda il fatto che Google, ogni anno, paghi miliardi di dollari ad un’altra big tech, Apple, per essere il motore di ricerca di default presente su tutti gli iPhone e gli iPad.

Dunque, ogni volta che un utente fa una ricerca online sul proprio iPhone, la fa automaticamente su Google. Negli USA gli iPhone sono molto più utilizzati rispetto all’Europa, ovvero da circa la metà della popolazione.

Google ha degli accordi economici molti simili anche con fondazione Mozilla, gestore di Firefox, e possiede il sistema operativo Android. Dunque, la maggior parte delle persone in tutto il mondo, se deve fare una ricerca online, utilizza Google.

Ebbene, per il Dipartimento Giustizia, tali accordi sarebbero illegali, poiché schiacciano la concorrenza utilizzando la gran disponibilità economica per evitare che prodotti simili possano emergere. Per Google, invece, non c’è nulla di illegale.

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Il caso verrà giudicato da un giudice, senza una giuria. Non è ben chiaro che cosa potrebbe succedere se l’accusa vince, visto che il dipartimento di Giustizia non ha ancora esplicitato le misure che ha intenzione di mettere in pratica in quel caso.

Il processo contro Google potrebbe comportare un grossissimo impatto anche su tutto il resto dell’industria. Si tratta, come detto in precedenza, del processo più rilevante nei confronti di un’azienda tech americana, dai tempi del 1998, ovvero quando si tenne il processo contro Microsoft.

All’epoca, Microsoft era l’azienda tech più importante di tutto il settore, e ricevette l’accusa di utilizzare delle pratiche illegali per la creazione di un monopolio e per la promozione di Internet Explorer ai danni della concorrenza.

Il processo contro Microsoft si concluse con un patteggiamento, e l’azienda dovette fare molte concessioni ed essere meno aggressiva nei confronti della concorrenza sul mercato. Secondo Bill Gates, allora capo di Microsoft, e secondo gli analisti, il ritiro dell’azienda dal mercato aprì le porte ad una nuova generazione di giovani aziende: Google, per esempio, nacque nel 1998.

Non è chiaro, comunque, se il processo intentato contro Google avrà lo stesso risultato. Per alcuni esperti legali, il processo potrebbe essere un modo per testare quanto siano efficaci le leggi antitrust americane, introdotte verso la fine dell’800, e che oggi potrebbero non essere più così adatte per gestire dei casi complessi come quelli relativi alle big tech.

L’importanza del processo si vede anche dalle risorse utilizzate dalle parti: per esempio, il dipartimento Giustizia prepara il caso da 3 anni, mentre Google ha speso milioni di dollari per la difesa.


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bandi cassa forense

Cassa Forense mette a disposizione mezzo milione di euro per gli Studi Legali

Cassa Forense ha predisposto due bandi di complessivamente mezzo milione di euro per la riorganizzazione degli studi professionali degli avvocati. Precisamente, sono stati stanziati 200mila euro per gli studi professionali retti da persone fisiche (bando 8/2023), mentre 300mila euro sono stati stanziati per gli studi legali a capo delle persone giuridiche (bando 9/2023).

Entrambi i bandi scadranno il prossimo 30 novembre.

Cassa Forense verserà un contributo pari al 50% della spesa complessiva al netto IVA, sostenuta dal 1° settembre al 30 novembre 2023.

Il contributo sarà compreso tra i 750 e i 5.000 euro. In caso di spese rimborsabili, per Cassa Forense «si va dalle certificazioni UNI 11871 all’adozione di software per procedere con la certificazione, dai costi sostenuti per acquistare la norma tecnica sul sito UNI ai costi per la licenza d’uso del marchio UNI, fino ai costi per la formazione e per l’adozione di modelli organizzativi per lo studio di cui al D. Lgs. n. 231/2001 con codice etico».

Tutte le domande dovranno essere inviate entro le ore 24 del 30 novembre 2023 attraverso la procedura online presente sul sito di Cassa Forense.


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Mondo legale e utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale: facciamo il punto

Gli strumenti di intelligenza artificiale generativa promettono di trasformare la maggior parte del lavoro quotidiano degli avvocati, nonostante le preoccupazioni riguardo le fughe dati.

In mezzo ad una raffica di aggiornamenti e di nuovi lanci, gli studi legali sembrano essere molto indecisi sull’utilizzo di tali strumenti, anche se aziende big-tech e fornitori di servizi sulle innovazioni affermano di essere in grado di trasformare la professione legale.

Ma com’è messo veramente il mondo legale per quanto riguarda l’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale?

Uno studio legale con sede nella Silicon Valley, Gunderson Dettmer, ha presentato uno strumento dedicato agli avvocati, utile per fornire accordi legali nelle interrogazioni. Lo studio legale Sullivan & Cromwell di New York, invece, promuove e sviluppa strumenti da vendere ad altri studi legali, finalizzati all’aiuto nell’esaminazione dei documenti e per condurre deposizioni.

OpenAI, alla rivoluzione con ChatGPT, ha lanciato un sistema aggiornato per i suoi clienti aziendali, affrontando la paura degli avvocati di perdere i dati dei clienti. Invece, Thomson Reuters, azienda di dati e media legali, ha ufficialmente acquisito Casetext, azienda nota per gli strumenti che si basano sull’IA, per 650 milioni di dollari.

I nuovi strumenti consentono di affrontare alcuni tipi di attività, almeno quelle maggiormente laboriose, con più velocità e facilità. Per esempio, possono confrontare e analizzare i contratti per ricercare le clausole chiave, riassumendo regole di conformità e riscrivendo le norme complesse in un linguaggio comprensibile.

In molti si aspettano, grazie a questo potenziale risparmio di tempo, che il mondo legale si trasformi, eliminando gran parte del lavoro degli avvocati. Secondo Thomson Reuters, l’obiettivo è quello di fornire un prodotto per la redazione legale, che possa essere collegato alla funzione assistente di Microsoft, per essere venduto entro la fine dell’anno.

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Visto il turbinio di lanci e di aggiornamenti dei sistemi, tanti studi legali sono titubanti sul come e sul quando imbarcarsi nel mondo dell’IA.

Quando è stato reso disponibile ChatGPT per la prima volta, in molti hanno cominciato a soffrire della FOMO (Fear of Missing Out), ovvero la paura e l’ansia sociale di venire esclusi da eventi e da esperienze. Tuttavia, dopo un gran entusiasmo iniziale, sono arrivate le preoccupazioni riguardo le fughe dati.

Gli Studi Legali non vogliono, infatti, che i loro prompt vengano in qualche modo catturati da estranei.

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Microsoft avrebbe addebitato più di 50.000 dollari ad ognuna delle 600 imprese invitate alla partecipazione della prova del suo assistente di intelligenza artificiale AI Copilot, che verrà venduto con un abbonamento di 30 dollari al mese.

Per esempio, l’ufficio legale interno della McKinsey & Company dovrà scegliere tra «costruire, acquistare o collaborare» al fine di sviluppare strumenti di intelligenza artificiale generativa.

Thomas Pfennig, invece, responsabile dei dati e della privacy della multinazionale Bayer ha già utilizzato l’intelligenza artificiale generativa per l’automatizzazione dei compiti legali ripetitivi con poco valore, per riuscire a ridurre significativamente i costi del lavoro.

Afferma Pfennig: «Un passo che abbiamo fatto è preparare l’organizzazione a un cambiamento operativo significativo, passando da interazioni basate sull’uomo a interazioni più tecnologiche».


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nuovo iPhone 15

Arriva iPhone 15: dobbiamo fare l’upgrade?

Apple, il 12 settembre, annuncerà i nuovi modelli iPhone 15. In molti si chiedono se fare o meno l’upgrade, e la risposta corretta è complicata, e cambia in base alla tipologia di utente e dal modello di smartphone che possediamo.

Dobbiamo tenere in considerazione alcuni elementi. Secondo un’analista di Goldman Sachs, Apple dovrà aumentare parecchio i prezzi a causa del processore A17, chip che renderà lo smartphone molto più veloce ed efficiente, realizzato su scala 3 nanometri.

Nei modelli Pro ci saranno miglioramenti anche per quanto riguarda il design, quali la cornice in titanio, maggior durata della batteria e più memoria. Il Pro Max, il modello più avanzato, avrà anche una fotocamera aggiornata, con maggior capacità di zoom ottico e obiettivo a periscopio.

Per Carolina Milanesi, analista del mercato degli smartphone, se l’iPhone «è più giovane di tre anni non dovresti avere bisogno di un upgrade. Le cose più importanti per un utente medio sono la batteria, la velocità di ricarica e la fotocamera. Ma queste cose hanno un upgrade limitato anno dopo anno. I miglioramenti, accumulati, diventano sostanziali solo dopo i tre anni».

Prosegue Milanesi: «Una certa quota di utenti, circa il 20%, farà l’upgrade comunque; perché lo fa ogni anno solo per avere sempre nelle mani lo smartphone migliore. Vale per gli iPhone come per i Samsung».

Gli utenti più esperti apprezzano il processore migliorato e il design di titanio: «Il titanio rende lo smartphone più leggero. È qualcosa che si apprezza però solo se lo prendi in mano ed è considerevole soprattutto per i modelli più grandi e più costosi».

Secondo l’esperta «il processore veloce fa la differenza invece quando si diffonderanno anche su smartphone l’IA generativa; ma anche questo è un vantaggio apprezzabile non da tutti gli utenti». L’intelligenza artificiale generativa ci permetterà di fare un editing evoluto delle nostre foto, creando immagini molto velocemente per i post sui social o per i messaggi, migliorando anche luci e inquadrature su FaceTime.

Molto probabilmente avremo bisogno di un upgrade nel caso in cui il nuovo iOS 17 non sia supportato dall’attuale iPhone, come nel caso di iPhone 8, 8 Plus e X. L’aggiornamento all’ultima versione di iOS offre nuove importanti funzionalità, correzioni di bug e aggiornamenti sulla sicurezza.

Utilizzare un software ormai obsoleto, infatti, potrebbe compromettere le prestazioni, mettendo a rischio i dati personali. Se ci siamo convinti a fare l’upgrade, comunque, dopo il 12 settembre Apple sconterà i modelli dal 12 al 14; per risparmiare ancora di più si può puntare su smartphone ricondizionati.

Se, invece, decidiamo che non è ancora arrivato il momento di cambiare iPhone, prestiamo attenzione ad alcuni segnali. Se lo stato della batteria scende sotto l’80%, meglio procedere con la sostituzione della stessa, che non migliorerà soltanto la durata, ma anche le prestazioni dello smartphone.


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Autovelox illegittimi: ecco la sentenza della Cassazione

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La Cassazione ha stabilito, con l’ordinanza 25544/2023 la nullità delle multe elevate con autovelox, nel caso in cui il cartello che riporta il limite di velocità si trovi a meno di 1 km dalla postazione della polizia.

Dunque, se l’apparecchio di controllo della velocità è presente a ridosso della segnaletica stradale, non consentendo al conducente di rallentare, si potrà presentare ricorso.

Si tratta di una vera e propria novità, visto che fino ad oggi la Cassazione si è sempre basata soltanto sulla distanza presente tra autovelox e cartello con avviso preventivo, ovvero Attenzione: controllo elettronico della velocità.

In particolare, la Corte ha sottolineato come non ci sia alcuna legge ad imporre uno spazio prestabilito tra l’avviso e l’autovelox. Dunque, dovrà essere rispettata soltanto ad una “ragionevole distanza”, che dev’essere valutata caso per caso, a seconda della strada e del limite di velocità.

E questo per permettere all’automobilista di fare una dolce frenata, visto che questo è lo scopo dell’avvertenza, non certo di consentire agli imprudenti di evitare le multe, ma di fare in modo che questi non frenino all’improvviso, determinando un gran rischio per la circolazione.

La prima cosa da tenere in considerazione è la riforma del 2017 introdotta con la direttiva Minniti, che ha disciplinato gli autovelox. Non si tratta di una circolare, ma di un decreto ministeriale: dunque, vincolante.

Al punto 7.5 del decreto leggiamo che la distanza minima tra il cartello e il limite di velocità non può essere inferiore ad 1 km. Questo a patto che:

  • La postazione dell’autovelox sia fuori dai centri abitati;
  • Il limite di velocità sia inferiore a quello consentito dal codice della strada per quel determinato tipo di strada.

Il limite minimo di 1 km tra la segnaletica e l’autovelox deve essere calcolato a partire dal secondo cartello.

La Cassazione ribadisce l’obbligo di apporre un cartello con velocità minima inferiore al limite legale, con l’avviso del controllo elettronico della velocità dopo ogni intersezione. Se tutte le prescrizioni non vengono rispettate la contravvenzione non è valida.

Tra il cartello con l’autovelox e l’avviso preventivo ci devono essere almeno 4 km di distanza.


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Un contratto è valido se viene firmato con un pollice emoj?

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Un contratto è valido se viene firmato con un pollice emoji?

Gli emoji sono dei simboli pittografici divenuti famosi in Giappone alla fine dello scorso secolo. La maggior parte di noi li utilizza, per esempio, su WhatsApp.

Tra gli emoji maggiormente utilizzati troviamo il pollice in alto che, nonostante non abbia un’attribuzione univoca, viene spesso utilizzato per indicare consenso oppure accettazione.

Sulla base di questo emoji, un agricoltore canadese si è ritrovato obbligato ad eseguire un contratto sottoscritto proprio con il pollice in alto. L’agricoltore, visto il mancato adempimento del contratto, è stato condannato al pagamento di 56mila euro, ovvero 82.000 dollari.

Per il giudice canadese, infatti, l’emoji del pollice in su risulta sufficiente per la determinazione dell’accettazione di un accordo, con lo stesso valore di una firma. Il giudice ha dichiarato che i Tribunali devono adeguarsi alla nuova realtà di oggi, dunque, anche alle nuove forme di comunicazione.

Una cooperativa agricola, la South West Terminal, nel 2021 avrebbe inviato un sms all’agricoltore Chris Achter richiedendo la fornitura di una partita di lino di 87 tonnellate. L’sms si concludeva con: «Per favore conferma il contratto di lino».

Achter avrebbe risposto al messaggio con il famoso emoji con il pollice in su; ma quando la cooperativa ha tentato di ottenere l’adempimento dell’agricoltore, questo si sarebbe opposto, dichiarando di non aver mai sottoscritto contratti con la South West Terminal.

Per l’agricoltore, l’emoji utilizzata comunicava semplicemente la presa visione della proposta: «Non era una conferma che ero d’accordo con i termini del contratto di fornitura lino. I termini e le condizioni completi del contratto di lino non mi sono mai stati inviati e ho capito che il contratto completo sarebbe seguito via fax o e-mail da rivedere e firmare».

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Il nostro ordinamento, secondo la dottrina più tradizionale, probabilmente sarebbe improntato sul principio di libertà della forma del contratto, salvo il caso in cui la legge richieda espressamente una determinata forma, in cui le parti decidano il mezzo idoneo con il quale manifestare il consenso.

Anche lo schema dell’articolo 1327 del codice civile prevede questo tipo di ipotesi, laddove sia permessa la conclusione del contratto in maniera indipendente dalla conoscenza dell’accettazione da parte del proponente.

Il contratto, in questo caso, dovrà ritenersi concluso se viene richiesta l’esecuzione urgente del contratto. L’accettante dovrà quindi procedere all’esecuzione senza fornire risposta alla proposta ricevuta, ma soltanto avvisando l’altro che inizieranno le attività che richiede il contratto.

Dunque, sembra ragionevole pensare che una pronuncia con tenore simile o uguale a quella della corte canadese possa essere presente anche nella giurisprudenza italiana.

Nonostante tutto, l’ordinamento ha determinato alcuni strumenti giuridici, che mirano ad evitare che un soggetto si ritrovi vincolato, senza volerlo, a clausole onerose. Questo è il caso della doppia sottoscrizione presente nell’articolo 1341 del codice civile e della nullità di protezione prevista dal codice del consumo.

In ogni caso, utilizzare la messaggistica veloce per trattare temi contrattuali è un rischio: canali più formali, come le mail, invitano a valutare più attentamente i contenuti del messaggio.


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25 anni di Google: da un garage ha conquistato tutto il mondo

Quanto inquina l’intelligenza artificiale?

25 anni di google

25 anni di Google: da un garage ha conquistato tutto il mondo

È il 25esimo compleanno di Google, colosso tecnologico che ha rivoluzionato il nostro approccio alla ricerca e all’accesso delle informazioni.

Il 4 settembre 1998, in un garage di Menlo Park, due studenti universitari, Sergey Brin e Larry Page fondarono Google, risolvendo una delle esigenze più urgenti dell’epoca, ovvero fare un po’ di ordine alla confusione presente online.

La rete, in quegli anni, si stava popolando di informazioni di tutti i generi, rendendo molto complesso per gli utenti trovare quello di cui avevano bisogno. Anche se esisteva già un motore di ricerca, questo non era capace di fornire dei risultati che seguissero dei criteri specifici.

Allora i due ebbero un’intuizione, ovvero la creazione di un algoritmo capace di analizzare la rete e ordinare le varie pagine web, basandosi sulla qualità e sul numero dei link ricevuti. Gli utenti, dunque, ricevevano dei risultati precisi e validi, partendo da quello più importante.

Fu un’idea di enorme successo, che rese Google, sin da subito, il motore di ricerca preferito dagli utenti, che convinse i proprietari delle pagine web a fare qualsiasi cosa, anche investire grandi somme di denaro, pur di apparire nelle prime posizioni dei risultati.

Page e Brin, poco dopo aver fondato la società, decisero di ampliare le possibilità di monetizzare, andando ad introdurre nel motore di ricerca degli annunci pubblicitari targettizzati, che si basavano sulle ricerche degli utenti.

Nacque Google AdWords, piattaforma pubblicitaria, che si rivelò un booster per la crescita del progetto. L’azienda infatti guadagnò migliaia di dollari dalla pubblicità, ed ora è uno dei principali colossi tech.

Senza Gmail, Maps e YouTube, molto probabilmente, ci sentiremmo persi. Auguri Google!


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Quanto inquina l’intelligenza artificiale?

A che punto siamo con l’identità digitale delle persone giuridiche?

inquinamento intelligenza artificiale

Quanto inquina l’intelligenza artificiale?

Una delle contraddizioni poco esplorate in tema di intelligenza artificiale riguarda l’impronta ambientale e l’impatto energetico di questo tipo di tecnologia.

Ma quali sono gli elementi da prendere in considerazione per riuscire a valutare la situazione?

Certamente, l’energia che viene utilizzata per mettere in moto tutto il sistema è strettamente connessa alla potenza dell’hardware. La stessa quantità di energia viene poi utilizzata al fine di educare l’algoritmo o per alimentare i data server.

Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale generativa, quella che troviamo alla base di ChatGPT, ha bisogno di una grandissima potenza di calcolo. Dobbiamo tenere conto che l’intelligenza artificiale generativa usa alcune architetture che si basano su delle reti neurali, quindi prevede tantissimi parametri che dovranno essere in qualche modo addestrati.

In questa fase di addestramento, il consumo di energia è ai massimi livelli, visto che all’algoritmo dovranno essere forniti tantissimi esempi affinché possa apprendere.

È noto che l’industria ITC abbia generato delle emissioni di carbonio pari a quelle emesse dal sistema di aviazione. Sappiamo bene, inoltre, che l’utilizzo di acqua fredda per raffreddare i data center e l’utilizzo di metalli rari per la costruzione dei componenti degli hardware rendono le nuove tecnologie non così green.

Alcune ricerche testimoniano come i data center cinesi vengano alimentati per il 73% da elettricità generata da carbone. Tutto questo rende evidente come la fonte energetica abbia un peso importante sull’impronta ecologica complessiva della tecnologia digitale.

È stato calcolato il consumo per l’addestramento di ChatGPT-3, ovvero 700.000 litri di acqua soltanto per raffreddare i server. Si pensi che scambiare 20 messaggi con ChatGPT equivale al consumo di mezzo litro d’acqua.

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Visto che l’intelligenza artificiale sta gradualmente diventando sempre più importante per lo svolgimento delle nostre attività, misurare l’impatto ambientale di tali meccanismi diviene fondamentale.

L’intelligenza artificiale, senza dubbio, comporta parecchi vantaggi, anche a livello ambientale. Per esempio, questo strumento può essere utilizzato nel settore petrolifero, migliorandone la sicurezza e le prestazioni operative, fornendo anche modelli di tipo predittivo.

Tuttavia si corre il rischio di andare incontro a contraddizioni, visto che l’intelligenza artificiale, nonostante i potenziali scopi positivi, diventa una lama a doppio taglio in assenza di una corretta valutazione dell’impronta ecologica e del reale fabbisogno energetico.


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A che punto siamo con l’identità digitale delle persone giuridiche?

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A che punto siamo con l’identità digitale delle persone giuridiche?

Sin dalla loro prima definizione normativa, le identità CIE e SPID sono state pensate dal legislatore per identificare sia le persone fisiche che quelle giuridiche. Tutto questo si evince anche dalle notificazioni da parte della Commissione UE di entrambe le identità.

Nella proposta di regolamento eIDAS2 si prevede come il wallet UE debba identificare persone fisiche e giuridiche, oltre a persone fisiche che rappresentano persone giuridiche.

Il concetto di persona giuridica a livello europeo risulta più ampio rispetto a quello nazionale. Nelle norme Ue, infatti, per persona giuridica vengono intese le varie entità conformi al diritto di uno Stato membro oppure disciplinate da questo.

Vengono considerate persone giuridiche anche le entità che vengono normalmente escluse dalla definizione nazionale, in quanto prive di personalità giuridiche, come associazioni non riconosciute, società di persone e ditte individuali con partita iva.

Dunque, un professionista che ha partita iva è una persona giuridica e per questo dovrebbe operare non solo con l’identità personale ma con una che viene attribuita ad una persona giuridica.

In Italia oggi troviamo soltanto uno Spid professionale, che può essere rilasciato ad un professionista oppure ad un rappresentante di persona giuridica. Non c’è alcun modo per dichiarare di essere una persona giuridica oppure rappresentante di questa con CIE.

Tutti noi accediamo ai vari servizi online in diversi modi: ci sono account personali o aziendali. Nel caso di quest’ultimi si possono utilizzare due sistemi: il primo è quello di chiedere se l’utente ha intenzione di accedere con l’account personale oppure con quello aziendale.

In tal modo, viene identificata con certezza tale persona, pur mantenendo la responsabilità sul device provider di accedere al servizio in veste di rappresentante aziendale.

Nel service provider, dunque, confluiscono gli oneri amministrativi per riuscire ad identificare una persona giuridica collegata alla persona fisica, determinando se la persona fisica, effettivamente, abbia titolo per accedere in quanto rappresentante della persona giuridica.

È necessario, dunque, oltre allo SPID professionale, una reale identità elettronica della persona giuridica.

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La proposta di Regolamento eIDAS2, nei confronti dell’identità elettronica delle persone giuridiche sembra essere maggiormente dettagliata rispetto all’attuale regolamento eIDAS.

Stabilisce inoltre l’equivalenza tra l’identità elettronica e quella della persona che la può rappresentare. E già questo potrebbe essere un bel problema, visto che le persone giuridiche possono avere più rappresentanti, che spesso non hanno gli stessi poteri.

Tuttavia sembra che si stia aprendo la porta per i servizi integrativi del wallet, normalmente associati all’utilizzo da parte della persona giuridica. Le caratteristiche che mancano della persona giuridica dovrebbero essere integrate dalle piattaforme che meglio declinano le attribuzioni dell’identità da parte della persona giuridica.

Il wallet, infatti, ha valenza UE, e per questo motivo potrebbe divenire un elemento molto importante per le varie transazioni commerciali transfrontaliere.


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Il Cnf ha stabilito, con sentenza 116/2023, la conferma della sospensione per due mesi inflitta dal Cdd dal professionista.

Una linea dura quella del Cnf nei confronti dell’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie da parte dell’avvocato nei confronti di terzi. Con la sentenza 116 del 7 giugno 2023, il Cnf conferma la sospensione di due mesi inflitta all’avvocato da parte del Cdd di Catanzaro. Il legale, infatti, non aveva pagato le obbligazioni dei propri clienti.

Secondo il Consiglio Distrettuale di Disciplina, «proprio in ragione della professione svolta, l’incolpato disponeva di mezzi a sufficienza per comprendere la portata vincolante della obbligazioni assunte». Di conseguenza, «aveva determinato una violazione dei doveri di lealtà, probità, correttezza e decoro, nonché una compromissione dell’affidamento dei terzi nella capacità dell’avvocato di rispettare i propri doveri».

L’avvocato avrebbe dovuto tenere un comportamento «adeguato al prestigio della classe forense, che impone comportamenti individuali ispirati a valori positivi, immuni da ogni possibile giudizio di biasimo, etico, civile o morale».

Commette illecito deontologico chi non adempie alle proprie obbligazioni nei confronti di terzi. Questo indipendentemente dalla natura del debito, vista lo scopo di tutela dell’affidamento di terzi nella capacità dell’avvocato rispetto ai propri doveri professionali e la pubblicità negativa derivante da tale inadempimento, che si riflette sulla reputazione stessa del professionista ma soprattutto sull’immagine della classe forense.

Il mancato adempimento degli obblighi che vengono assunti nei confronti di terzi «costituisce illecito disciplinare ai sensi dell’art. 64 del CDF».

Nella norma sono contenuti due precetti: «uno di ampia portata, che impone l’obbligo di adempiere alle obbligazioni assunte nei confronti di terzi sempre e comunque, e l’altro, di portata più ridotta, che sanziona l’inadempimento delle obbligazioni estranee all’esercizio della professione, quando per modalità o gravità sia tale da compromettere la dignità della professione e l’affidamento dei terzi».

Ritornando ai fatti contestati al legale, questi rientrano nel primo comma art. 64, visto che le obbligazioni che vengono assunte nei confronti di terzi «non possono dirsi estranee all’esercizio della professione forense, essendo state contratte spontaneamente dall’avv. in favore del suo cliente, confondendo, peraltro, il rapporto professionale con quello personale con il medesimo soggetto».

Secondo il Collegio la sanzione è inoltre adeguata «in relazione alla misura edittale, alla reiterazione del comportamento e alla condotta complessiva dell’incolpato» e non si può ritenere mitigata dalla prescrizione accertata dei fatti relativi ad uno dei due capi d’imputazione.

Conclude: «La pronuncia di prescrizione non giustifica l’applicazione della sanzione attenuata della censura».


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Nel corso degli anni SM - Servicematica ha ottenuto le certificazioni ISO 9001:2015 e ISO 27001:2013.
Inoltre è anche Responsabile della protezione dei dati (RDP - DPO) secondo l'art. 37 del Regolamento (UE) 2016/679. SM - Servicematica offre la conservazione digitale con certificazione AGID (Agenzia per l'Italia Digitale).

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