VIDEO: Quando passione e professione si incontrano: intervista all’Avv. Stefanutti sul diritto d’autore

Cesare Pavese disse che “finché si avranno passioni non si cesserà di scoprire il mondo”.E questo è particolarmente vero per chi ha, come passione, la fotografia.
Con la macchina davanti agli occhi, l’appassionato di fotografia osserva il mondo da un punto di vista unico, individuando forme, colori ed emozioni precluse agli altri.

E se l’appassionato di fotografia fosse anche un avvocato?

L’Avv. Massimo Stefanutti di Marghera (VE) è uno dei maggiori esponenti di fotografia stenopeica a livello nazionale e internazionale, membro dell’Osservatorio Nazionale per la Fotografia Stenopeica presso il Museo dell’Arte e dell’Informazione (MUSINF) di Senigallia dal 2008 al 2012 e curatore d’importanti rassegne.
Ma è anche un avvocato dal 1985 ed è il primo photography lawyer italiano, esperto di diritto della fotografia e della proprietà intellettuale.

Chi meglio di lui può raccontare il rapporto tra passione e lavoro e spiegarci come le nuove tecnologie stanno impattando sul diritto d’autore?

D: Avv. Stefanutti, la sua passione per la fotografia come ha inciso sulla sua professione?

I mercati cambiano e bisogna adeguarsi.
Le crisi, in particolare quelle degli anni 2000, quando la tecnologia ha iniziato a entrare nella professione, hanno imposto un cambio nella mia professione.
In particolare, la consapevolezza di dover cambiare e capire cosa volesse il mercato è arrivata con la grande crisi del 2008.

Mi interesso di fotografia da quando avevo 20 anni e proprio intorno nei primi 2000, quasi per caso, ho seguito una causa legata alla fotografia e agli avvenimenti di Genova.
Da lì mi sono accorto che le mie competenze da fotografo amatoriale ma serio e quelle di avvocato si incrociavano!

Guardandomi attorno e confrontandomi con altri fotografi, anche molto grandi, mi sono avvicinato allo studio del diritto d’autore e nel 2010 ho iniziato a fare corsi di diritto della fotografia, l’unico in Italia.

Il fatto di essere io stesso fotografo mi facilita il lavoro: quando un cliente fotografo si rivolge a me, so benissimo di cosa stiamo parlando.

Il problema maggiore riguarda la legislazione in materia, che risale al 1941 ed è ormai sorpassata.

Durante il precedente governo, con gli Stati generali della fotografia, si era iniziato un processo di rinnovamento, ma con la caduta dell’esecutivo il processo si è fermato.

Il diritto della fotografia richiede poi uno studio che non finisce mai, perché non esiste solo l’Italia e testi di diritto comparato ce ne sono pochi.   

D: Perché gli utenti faticano a capire che le immagini pubblicate su Internet non sono svincolate dal diritto d’autore?

C’è un primo problema culturale e poi ce n’è uno etico.
Il problema culturale sta nel fatto che un utente dovrebbe intuire, se non proprio conoscere, l’esistenza del diritto d’autore.
Quello etico è più grave: se il 50% degli usi impropri di fotografie è dettato dall’ignoranza, un altro 40% è fatto con consapevolezza. C’è dolo. Il rimanente 10% ne è parzialmente consapevole, sta attento, ma ritiene di poter usare le immagini.

Questo vale non solo per i privati, ma anche per le aziende e i giornali.

Un tempo questo problema non si presentava, poiché all’interno dei giornali esisteva il fotoeditor, una figura che sapeva come trattare la fotografia, cosa poteva essere usato e cosa no. Ora questa figura spesso manca, soprattutto nell’online.

Si potrebbe credere che siano i giornali di gossip ad avere i maggiori problemi legati al diritto d’autore, ma le cose sono cambiate moltissimo.
Se un tempo c’era l’abitudine di usare foto prese da tutte le parti, senza l’autorizzazione dell’autore, oggi la quasi totalità delle fotografie viene commissionata dagli stessi vip.

D: Cosa ne pensa del rapporto tra avvocati e tecnologie?

Noi avvocati facciamo fatica ad adattarci ai cambiamenti tecnologici, ma non credo che verremo sostituiti da robot, poiché il rapporto professionale e personale col cliente non può essere gestito da un mero algoritmo.
In ogni caso, ad oggi le tecnologie sono indispensabili per svolgere il mio lavoro.

La tecnologia va però controllata.
Pensi che, recentemente, un dispositivo Alexa Echo di Amazon è stato chiamato a testimoniare in un caso di omicidio, poiché potenzialmente in ascolto al momento del delitto.

E se un robot facesse una foto, di chi sarebbe la foto? Di chi sono le foto di Google Street View? E le foto dei satelliti? Esiste un diritto d’autore in questi casi?
In linea di massima no, poiché non vi è un autore riconosciuto.

A tal proposito le racconto del caso del Macaco di Slater.

Un giorno David Slater, fotografo naturalista, piazza delle fotocamere nella foresta del Borneo lasciando il comando dello scatto a distanza inserito. Un macaco si avvicina e inizia a giocare con la macchina, facendo scattare l’obiettivo. Il risultato sono alcune bellissime foto, dei veri e propri selfie, che Slater pubblica sul suo sito.
Wikipedia le prende e le ripubblica.
Slater ne rivendica la proprietà, ma gli viene ribattuto che l’autore è la scimmia, priva di personalità giuridica, e quindi le foto sono di dominio pubblico.
La vicenda si conclude con una sentenza USA di 1200 pagine in cui si dice che piante e animali non possono essere considerati autori di fotografie, tanto meno possono esserlo divinità o entità soprannaturali!
Se però il processo si fosse tenuto in Gran Bretagna il risultato sarebbe potuto essere diverso, poiché vi è una norma che stabilisce che il proprietario del mezzo è anche proprietario della foto.

In Italia siamo un po’ indietro per quanto riguarda il diritto di autore in materia fotografica. Secondo me dovrebbe esserci un solo principio: tutte le foto sono coperte dal diritto d’autore.
Se così fosse, il mercato reagirebbe in modo diverso e i fotografi avrebbero il loro riconoscimento.

D: Se ci fosse una maggior tutela del diritto d’autore si potrebbe vedere un miglioramento della qualità dei contenuti. Ora è troppo facile: apro Google e prendo una foto senza farmi problemi.

Non è detto che in futuro sarà ancora possibile attingere a Google Immagini.

Si sta spingendo perché Google pubblichi solo ciò che è vincolato da un accordo con il creatore/editore in modo che quest’ultimo si veda riconosciuto il suo compenso.
In Francia esiste già una legge.
La difficoltà sta nel gestire questa novità: se per i testi è possibile creare una piccola anteprima del contenuto, un estratto, per le immagini come si può fare?

C’è poi da dire che il diritto d’autore deve essere tutelato, ma la cultura deve circolare.

Ciò che serve è un principio di condivisione che permetta di far girare le opere quando queste non sono usate a scopo di lucro e che riconosca il diritto d’autore quando invece lo sono.

Arrivare a questo risultato è un po’ difficile, soprattutto considerando che le reti locali (basti pensare ai vincoli all’uso di internet in Cina o in Russia) stanno prendendo spazio rispetto al concetto di Internet libero e internazionale.
Internet dei primi tempi ormai non esiste più.

Al momento, l’unico modo per tutelare le proprie foto online è l’uso di un watermark, anche se rovina un po’ il risultato.

D: Qual è la sua visione del futuro del diritto d’autore?

Il diritto d’autore serve, ma non come è oggi: troppo ottocentesco, legato al concetto di creatività e genio che produce delle cose.

La realtà è cambiata.

Il diritto d’autore dovrebbe servire a distinguere, appunto, tra ciò che è d’autore e ciò che non lo è. Nella fotografia questo è quasi impossibile: dov’è la creatività? Cos’è la creatività? Ben pochi giudici sono in grado di capirlo.
I più giovani un po’ ci riescono, ma le generazioni passate non capiscono lo strumento, il perché.
Per capirlo, bisogna studiare la fotografia, e le più grandi idee a riguardo sono successive alla seconda guerra mondiale. Se uno è appassionato le scopre, ma se non lo è e si limita a riferirsi alle sentenze della Cassazione, prodotte da giudici di 60 anni, finisce a parlare di fenomeni che non comprende.

D: Cosa pensa della democratizzazione dei mezzi fotografici?

È una questione di mercato.

Oggi un fotografo deve pagare per entrare nel mercato.
Certamente esistono risultati di qualità più alta o più bassa, come in ogni settore, ma con la fotografia è più difficile distinguere.

Io sostengo che la fotografia sia un flusso di coscienza, infatti possiamo far fotografare lo stesso soggetto a 10 persone diverse e avremo 10 foto diverse.

Più che una democratizzazione della fotografia, c’è solo una facilitazione del mezzo d’uso.
Una volta la fotografia era ‘di nicchia’ perché aveva procedimenti complessi e, all’interno della nicchia, c’era chi creava cose belle e chi ne creava di meno belle.
Oggi che tutti hanno accesso alla fotografia e tutti possono ottenere ottimi risultati tecnici, dov’è la differenza tra una foto bella e una brutta?

La fotografia è un atto e non un fatto (un risultato). Non è la tecnica o la creatività a fare la differenza. È il linguaggio usato.
È lo sguardo del fotografo, quel qualcosa che porta via dalla realtà.

Ogni foto è un prelievo dal mondo.

validità del registro INI-PEC

Corretta l’ordinanza sulla mancata validità del registro INI-PEC

Con ordinanza n. 29749/2019 pubblicata il 15 novembre 2019 la Cassazione ha corretto la precedente 24160/2019 cancellando la frase relativa alla mancanza di validità del registro INI-PEC ai fini della regolarità dell’indirizzo di posta elettronica certificata al quale inviare le notifiche pec.

La correzione riguarda la seguente frase:

«questo a prescindere dal fatto che il ricorso è stato notificato a mezzo pec […] e a un indirizzo di posta elettronica del Protocollo del Tribunale di Firenze, estratto dall’indice nazionale degli indirizzi INI-PEC, elenco che […] è stato dichiarato non attendibile da Cass. n. 3709 del giorno 8 febbraio 2019, secondo cui “per una valida notifica tramite PEC si deve estrarre l’indirizzo del destinatario solo dal pubblico registro REGINE e non sal pubblico registro INI-PEC” […]»

Convertita in:

«questo a prescindere dal fatto che il ricorso è stato notificato a mezzo pec […] e a un indirizzo di posta elettronica del Protocollo del Tribunale di Firenze, estratto dall’indice nazionale degli indirizzi INI-PEC»

Il riferimento alla precedente ordinanza e alla presunta invalidità del registro INIPEC sono quindi stati eliminati.

LA MANCATA VALIDITÀ DEL REGISTRO INI-PEC

La dichiarazione di invalidità di INI-PEC ha comportato un problema non da poco, poiché è nel registro INI-PEC che sono contenuti gli indirizzi di posta elettronica certificata di aziende e società.

Inoltre, tale invalidità si poneva in contrasto con quanto indicato nel CAD, Codice dell’Amministrazione Digitale, e nel DL. 179/2012, che indicano chiaramente come pubblici elenchi validi ai fini delle notifiche pec:

  • il registro PP.AA,
  • – il Registro Imprese,
  • – il Reginde,
  • – l’INI-PEC.

L’incoerenza mostrata dalle ordinanze aveva sollevato diverse perplessità tra gli avvocati, spingendo il presidente del CNF, Avv. Mascherin, a inviare una nota al Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, Dott. Giovanni Mammone, in cui sottolineava l’inadeguatezza dell’ordinanza 29749/2019 e i problemi che questa avrebbe potuto generare.

La Cassazione ha ascoltato tali perplessità e ha corretto la sua stessa ordinanza per «evitare che detto principio venga inteso come espressione di un effettivo convincimento esegetico della Corte nei termini in cui figura letteralmente espresso».

Dopo aver riconosciuto espressamente l’errore materiale contenuto nell’ordinanza 29749/2019, la Cassazione ha preannunciato che un simile procedimento di correzione di errore materiale verrà applicato anche alla sentenza 3709/ 2019, che per prima aveva suggerito l’inadeguatezza delle notifiche pec verso indirizzi tratti dal registro INI- PEC.

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errori giudiziari

Esiste un metodo scientifico per evitare gli errori giudiziari?

Gli errori giudiziari rappresentano però una macchia sull’immagine della Giustizia, nonché un costo: dal 1992 al 2017 lo Stato ha versato circa 656 milioni di euro in risarcimento alle vittime di ingiusta detenzione.

Interrogarsi sulle cause di questi errori e cercare soluzioni affidabili sono stati i temi al centro del recente convegno “Gli errori giudiziari e la loro riduzione, le linee guida psicoforensi” tenutosi presso la sede del Consiglio Nazionale Forense e che ha visto la partecipazione di psicologi forensi, avvocati e magistrati.

Durante il convegno, Guglielmo Gulotta, professore, psichiatra e anche avvocato, ha presentato le “linee guida psicoforensi” che, come suggerisce il loro nome, hanno lo scopo di offrire dei riferimenti per evitare o gestire una serie di bias cognitivi che possono portare a errori giudiziari.

ESEMPI DI BIAS COGNITIVI CHE PORTANO AD ERRORI GIUDIZIARI

Uno di questi bias è la cosiddetta ‘visione a tunnel’.
Una volta formulata un’ipotesi, la mente umana tende a riconoscere e a sottolineare tutto ciò che la conferma, mentre tende a ignorare o a riconoscere poca importanza a ciò che la confuta.
Un esempio di come questo bias possa influenzare un caso giudiziario riguarda le identificazioni: il comportamento dell’ufficiale può essere condizionato dal sapere o meno se, dall’altra parte del vetro, si trovi o meno il sospettato, e questo condizionamento si ripercuote sul giudizio della vittima chiamata a identificare.

Un altro bias riguarda l’effetto di domande che possono spingere un testimone verso alcune dichiarazioni e non altre o a revisionare i propri ricordi.

Anche la valutazione di malattie psichiatriche che possano modificare la percezione del delitto è soggetta a inciampi. Infatti, tale valutazione si basa soprattutto su quanto dichiarato dal ‘paziente’ stesso e sono, quindi, fortemente influenzate da aspetti soggettivi.

Che dire poi del peso che stereotipi e pregiudizi hanno sul giudizio dei sospettati?

COME PREVENIRE GLI ERRORI GIUDIZIARI

Trovare un metodo scientifico che possa aiutare ad evitare errori giudiziari non è cosa semplice.

Il primo problema evidenziato da Guglielmo Gulotta è la mancanza di un sistema simile a quello presente nei paesi anglosassoni, dove esistono database creati a partire dalle sentenze di revisione e che consentono di riconoscere e analizzare gli errori più comuni.
Un simile lavoro di analisi permetterebbe di riconoscere i punti deboli del sistema e, conseguentemente, di individuare più facilmente eventuali contromisure.

Uno di questi punti deboli si trova, secondo il penalista Antonio Forza, nella fase investigativa, almeno per quanto riguarda i processi penali: “l’investigatore rischia di orientarsi in una determinata direzione perdendo di vista tutti gli elementi non in linea con questa”.

Neuroscienze e tecnologie rappresentano un valido aiuto nella prevenzione dell’errore.
Riprendendo l’esempio della valutazione di una malattia psichiatrica come attenuante, una semplice risonanza magnetica al cervello permetterebbe di avere un dato oggettivo, non manipolabile, a supporto o meno della percezione del ‘paziente’.

Studi e ricerche affidabili rappresentano un’ottima fonte dalla quale trarre informazioni che possano portare a un giudizio meno influenzato da bias cognitivi.

Ma, poiché gli errori giudiziari sono fondamentalmente errori umani, uno degli aspetti su cui è indispensabile lavorare è la consapevolezza dei soggetti coinvolti nel procedimento.
Le “linee guida psicoforensi”offrono indicazioni concettuali e metodologiche che avvocati, giudici e altri soggetti possono applicare facilmente e che permettono, già da sole, di gestire alcuni dei processi mentali più rischiosi.

Leggi il testo originale delle “linee guida psicoforensi”.

[Parte delle informazioni contenute in questi articolo sono tratta da “Il convegno, gli psicologi, i legali e le toghe insieme per ridurre gli errori giudiziari “pubblicato su Il Dubbio il 7 novembre 2019]

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segreto professionale

Il segreto professionale in caso di testimonianze e intercettazioni

Il segreto professionale è uno dei capisaldi della professione forense (e non solo) ed è chiaramente indicato nell’art. 13 del Codice Deontologico.
Tale articolo stabilisce che “l’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali.

Da ciò si intuisce che la riservatezza è un dovere e che ricade non solo sul rapporto coi propri assistiti, ma anche su quello con gli ex clienti e con chi si rivolge all’avvocato per un consulto, anche senza un mandato accettato.

L’importanza di questo principio è facile da intuire: solo in un contesto di riservatezza è possibile che si crei fiducia tra avvocato e assistito.

Ma come si combina questo diritto/dovere alla segretezza con le esigenze richieste da mezzi di prova come le testimonianze o le intercettazioni?

SEGRETO PROFESSIONALE E TESTIMONIANZE

L’esenzione dalla testimonianza è ben chiarito nell’art. 200 del Codice di Procedura Penale, in cui vengono anche indicati su quali soggetti ricada. Tra questi figurano:
– i ministri di confessioni religiose i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano;
– i medici e i chirurgi, i farmacisti, le ostetriche e altri professionisti del settore sanitario;
  gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici, i notai e gli avvocati.

A regolamentare tale esenzione per gli avvocati interviene l’art. 58 del Codice Deontologico Forense (esteso anche ai praticanti) indicando che “per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto. L’avvocato non deve mai impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio.”

Si deduce che l’esenzione ha quindi dei limiti. Infatti, essa ricade solo su fatti e informazioni raccolte durante il proprio ministero difensivo e non si estende affatto, come molti comuni cittadini potrebbero credere, a qualsiasi tipo di intervento.

Inoltre, possiede una certa facoltatività.

Sempre l’art.58 dice che “qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo

L’obbligo alla rinuncia del mandato in caso di testimonianza è giustificato dalla necessità di non confondere il ruolo di difensore con quello di testimone, ruoli che presentano profonde differenze e non possono certamente sovrapporsi.

Potremmo quindi dire che l’esenzione dalla testimonianza intercorre solo in presenza di due fattori. Il primo, legato all’effettivo ruolo di difensore ricoperto dall’avvocato, e il secondo, che lega il contenuto della testimonianza a quanto appreso durante il proprio mandato. 

SEGRETO PROFESSIONALE E INTERCETTAZIONI

L’art.103 c.p.p. prevede:

  • il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari e di quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite;
  • il divieto di utilizzazione di tali intercettazioni;
  • il divieto di trascrizionequando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate”.

Il divieto di intercettare le comunicazioni tra avvocato e assistito rientra nella tutela del segreto professionale e del rapporto di fiducia fra i due soggetti.

La difficoltà nel rispettare tale divieto si nasconde nel fatto che non è sempre possibile sapere a priori se l’intercettato stia parlando con il proprio avvocato.

Questo discernimento è possibile solo a posteriori, dopo aver raccolto e ascoltato l’intercettazione.

E cosa succede se il contenuto dell’intercettazione riguarda attività illegali?

Così come per l’esenzione dalla testimonianza, anche il divieto di intercettazione (e il suo uso) ha dei limiti.

In tal senso, emblematico è il caso di un commercialista intercettato mentre suggeriva a un cliente di aprire un conto corrente estero e far figurare la propria attività in un Paese extra Ue al fine di eludere la tassazione italiana.
Il contenuto illecito dell’intercettazione ha permesso l’uso della stessa e ha decretato la condanna del professionista.

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Nuove tecnologie: le sfide future della professione legale

Sfruttamento dei dati e sicurezza, velocità di esecuzione, specializzazione e clienti più esigenti. Queste sembrano essere le sfide future della professione legale che spingono gli avvocati a considerare sempre più l’uso delle tecnologie.

Un quadro preciso ci viene fornito dal report Future Ready Lawyer Survey 2019 di Wolters Kluwer Legal & Regulatory, realizzato intervistando 700 avvocati di law firm, uffici legali e società di consulenza aziendale negli Stati Uniti e in 10 Paesi europei (Regno Unito, Germania, Paesi Bassi, Italia, Francia, Spagna, Polonia, Belgio, Ungheria e Repubblica Ceca) nel periodo compreso tra dicembre 2018 e gennaio 2019..

L’obiettivo della ricerca era proprio analizzare in che modo la tecnologia e altri fattori influenzeranno la professione legale e come gli studi si stanno preparando al cambiamento.

AVVOCATI E MERCATO

Con “clienti sempre più esigenti” intendiamo clienti desiderosi di ottenere più servizi ma a costi inferiori, di pagare per i servizi ricevuti e non per le ore lavorate, alla ricerca di rapidità e alla competenza. In un simile contesto, molti avvocati vedono la tecnologia come un valido alleato.

Ma il rapporto con l’innovazione non è semplice.

Il cambiamento è spesso ostacolato da resistenze culturali, scarse risorse economiche e difficoltà organizzative.

Lo stesso concetto di tecnologia applicata agli studi legali merita di essere approfondita.

3 TIPI DI TECNOLOGIA

Il report suggerisce 3 tipi di tecnologia.

Tecnologie fondamentali
Tecnologie di base per lo svolgimento delle proprie attività: software per la fatturazione (e, nel caso italiano, per il processo telematico), gestione elettronica della documentazione, gli strumenti di sicurezza dei dati, ecc.
Sono tecnologie molto diffuse.

Tecnologie abilitanti
Tecnologie che migliorano la produttività, l’efficienza e i risultati: gestionali dei contratti, software per la gestione dei rapporti con la clientela o l’analisi dei dati, ecc.
Sono tecnologie meno diffuse ma che riscuotono un crescente interesse.

Tecnologie trasformazionali
Tecnologie che producono nuovi risultati aziendali tangibili: l’intelligenza artificiale, il machine learning, le analisi predittive e la blockchain.
Sono tecnologie poco diffuse ma che avranno un’importanza sempre maggiore nei prossimi anni.

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visualizzare le mail pec su iphone

Meglio tardi che mail! Si possono di nuovo visualizzare le mail PEC su iphone

Se siete utenti Apple e utilizzate la posta elettronica certificata, avrete vissuto anche voi la brutta esperienza di non riuscire a compiere due azioni molto importanti: visualizzare le mail pec e aprire correttamente gli allegati tramite iPhone.

Gli utenti hanno iniziato a riscontrare qualche difficoltà all’epoca di iOS 12, aggiornamento che ha reso impossibile visualizzare gli allegati inclusi nei messaggi PEC. 
Con l’avvento di iOS 13 si sperava in una risoluzione e, invece, le cose sono peggiorate, lasciando gli utenti incapaci di aprire i file .eml nel loro complesso.

Giunti a quel punto, l’unica alternativa per poter utilizzare la propria mail pec su iPhone, e visualizzare correttamente messaggi e allegati, era affidarsi a servizi offerti da aziende terze.

Finalmente, il problema è stato risolto e con l’ultimo aggiornamento ad i iOS 13.2.2 gli utenti hanno riacquisito la facoltà di visualizzare le mail pec e aprire correttamente gli allegati tramite iPhone.

Questa è un’ottima notizia per chiunque usi il proprio smartphone per lavoro e abbia necessità di accedere comodamente e velocemente alla propria casella PEC ovunque si trovi.

Se non avete ancora aggiornato il vostro iPhone, fatelo subito. L’aggiornamento non porta nessuna grande novità nel software ma risolve diversi piccoli bug oltre al problema delle PEC.

Per aggiornare il vostro iPhone, cliccate sulla notifica che dovreste aver ricevuto, oppure entrate in Impostazioni, cliccate su “Generali” e, poi, su “Aggiornamento Software“.

Una volta scaricato l’aggiornamento, potete riconfigurare la vostra casella PEC su iPhone.
Se non sapete come procedere, vi invitiamo a visionare la guida cartacea o la video guida che abbiamo appositamente creato.

 

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notifica teleamtica

Notifica telematica dopo le 21: valida o no?

Uno dei vantaggi delle tecnologie digitale è la possibilità di svolgere compiti in orari svincolati dall’apertura degli Uffici.

Grazie alle modalità telematiche, possiamo lavorare di notte, durante i weekend persino nei giorni di festa! In altre parole, sempre.

Decidere se questa è un’evoluzione positiva o meno, sta a voi deciderlo.
Ciò che è certo è che, se ai tempi del processo cartaceo era necessario recarsi ad orari ben precisi presso un Ufficio per notificare l’atto introduttivo, con l’introduzione del PCT gli avvocati avrebbero dovuto godere di maggiore libertà.

Eppure, l’art. 147 cpc indica che le notifiche non possono essere eseguite tra le 21 e le 7 e che, se eseguite dopo le 21, vengono perfezionate alle 7 del giorno successivo, sia per il mittente che per il destinatario.

Nato in un contesto cartaceo, tale articolo è stato esteso anche alla dimensione digitale, come confermato dall’art. 16-septies del D.L. 179/2012 che stabilisce che «la disposizione dell’art. 147 c.p.c. si applica anche alle notificazioni eseguite con modalità telematiche. Quando è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo».

A sostegno di ciò anche la sentenza 21915 della Cassazione civile, sez. III, del 21 settembre 2017.

La Cassazione all’epoca sentenziava che l’articolo sopraindicato «espressamente disciplina i tempi per il corretto ed efficace svolgimento di una attività (a tutela del diverso interesse, rafforzato dalle possibilità tecniche offerte dalla notifiche telematiche, di non costringere i professionisti alla continua verifica, a qualsiasi ora del giorno e della notte, dell’arrivo di atti processuali)».

In altre parole, conservando il divieto temporale tra le 21 e le 7, la Cassazione tutelava il periodo di riposo del destinatario o dei suoi rappresentanti.

In realtà, spesso questa disposizione ha complicato la vita degli avvocati. Infatti, una notifica telematica effettuata dopo le 21 e perfezionata solo alle 7 del giorno successivo non poteva essere considerata valida per un’impugnazione tempestiva, anche se compiuta entro le 24 dell’ultimo giorno utile.

Sotto richiesta della Corte d’Appello di Milano, la Corte Costituzionale ha valutato la legittimità dell’art. 16-septies in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione.

Con la sentenza n. 75 del 9 gennaio 2019 la Corte Costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità della parte in cui si indica che la notifica telematica la cui ricevuta di accettazione sia generata dopo le 21 ed entro le 24 ore, si perfezioni per il notificante alle 7 del giorno successivo e non al momento in cui viene generata la ricevuta.

Come suggerito dalla Corte d’Appello, l’incostituzionalità deriva dal fatto che la tutela del domicilio espressa nell’art.3 della Costituzione non trova sostanza nel mondo digitale.

Per quanto riguarda gli arti. 24 e 111, l’incostituzionalità nasce dalla violazione del diritto del notificante di sfruttare pienamente il limite giornaliero di notifica che la legge gli riconosce.

Gli effetti di questa decisione sono semplici.

In caso di notifica telematica effettuata entro i termini, questa verrà perfezionata in due momenti diversi a seconda del soggetto preso in considerazione.

Per il notificante, al momento in cui viene generata la ricevuta di consegna; per il notificato, alle 7 del mattino successivo.

In questo modo, il notificante potrà godere delle libertà orarie concesse dalle tecnologie telematiche, mentre il notificato vedrà tutelato il suo diritto al riposo.

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Come creare password sicure e facili da ricordare

In questo articolo vogliamo darvi alcuni suggerimenti per creare password sicure, difficili da decifrare e facili da ricordare.

Le nuove tecnologie, lo sviluppo di internet e l’introduzione del processo telematico hanno  obbligato molti avvocati a fare i conti con il tema della sicurezza informatica.
Indipendentemente dal grado di interesse e competenze tecniche che potete avere, c’è un aspetto della sicurezza informatica con il quale siamo certi abbiate a che fare ogni giorno. Si tratta proprio delle password!

Le password sono il baluardo della nostra sicurezza online. Pertanto, è importante sceglierle con attenzione.

Dunque, come si crea una buona password?

COME FANNO GLI HACKER A RUBARE LE PASSWORD

Potreste pensare che l’abilità degli hacker nel rubare le password sia dovuta solo alle loro competenze informatiche, decisamente superiori alla media.

In realtà, il motivo principale è di tipo “psicologico”.

Gli hacker conoscono molto bene come ragionano le persone comuni e, quindi, sanno quali siano le formule più utilizzate per creare le password.

Del resto, chi non ha mai usato date di nascita, nomi di figli e partner, nomi di animali domestici, soprannomi o sequenze di numeri come 1111 o 12345678?

Si tratta di password molto frequenti, prevedibili e facili da individuare.  

All’hacker basta una visita al vostro profilo Facebook o Instagram per capire quando siete nati, chi sono le persone a voi care, se avete degli animali, dove vivete, cosa vi piace o quando vi siete laureati.

A facilitargli la vita concorre anche la brutta abitudine di utilizzare la stessa password per siti/servizi diversi.

COME CREARE PASSWORD SICURE

Ora che abbiamo capito come gli hacker sfruttano la nostra prevedibilità, il nostro obiettivo sarà quello di limitarla il più possibile.

Il segreto per creare password sicure è la casualità degli elementi che le compongono.
Più gli elementi sono casuali e più le password sono complesse, imprevedibili e, quindi, sicure.

La casualità si crea mescolando elementi diversi.

Una password è valida quando:

– ha almeno 8 caratteri (più lunga, più sicura),

– contiene lettere maiuscole e minuscole,

– contiene dei numeri, meglio se alternati alle lettere

– contiene caratteri speciali (!@&%#£”…)

Potete inventarvi sequenze di lettere e numeri a vostro piacimento oppure usare i generatori di password disponibili online.

L’unico difetto di questo tipo di password sicure potrebbe essere la difficoltà nel ricordarle.

COME CREARE PASSWORD SICURE E FACILI DA RICORDARE

Una delle tecniche più semplici per creare password sicure e anche facili da ricordare è quella degli acronimi.

Tecnicamente, queste password si chiamano passphrase perché, come suggerisce il nome, “nascondono” una frase che solo voi conoscete.

Anche nel caso delle passphrase è bene inserire numeri, maiuscole e minuscole e caratteri speciali.

Se non sapete come inserire numeri e caratteri speciali, potete sfruttare la loro somiglianza con le lettere.
Per esempio, il 3 richiama la E; la a può essere sostituita dalla @; la I con !, la O con lo 0, e così via.

Ecco un esempio di passphrase.

Frase:  il mio piatto preferito è la pasta alla carbonara
Acronimo: imppelpac
Password: !Mpp3Lp@C

VADEMECUM FINALE

Ecco alcune regole riassuntive per creare password sicure e facili da ricordare:

  1. evitate parole o serie di numeri  troppo comuni (“password”, “principessa”, “1111”, ecc),
  2. evitate di utilizzare dati personali che possano essere recuperabili online o sui vostri profili social (date di nascita o di eventi importanti, nomi di persone care e animali, soprannomi, preferenze sportive, ecc.);
  3. create password di almeno 8 caratteri;
  4. utilizzate numeri, lettere maiuscole e minuscole e caratteri speciali,
  5. utilizzate la tecnica degli acronimi;
  6. usate password diverse per diversi siti/servizi.

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Atto di Indirizzo Politico e Istituzionale

Atto di Indirizzo Politico e Istituzionale: le novità 2020 del Ministero della Giustizia

Con la pubblicazione dell’Atto di Indirizzo Politico e Istituzionale il Ministero della Giustizia ha condiviso le proprie priorità politiche per il 2020.

Tra queste, trovano spazio progetti di digitalizzazione e informatizzazione della Giustizia, tra le quali l’estensione del PCT e l’introduzione del Processo Penale Telematico.

Come indicato nel documento, l’obiettivo principale è velocizzare i processi civili e penali e migliorare la qualità dei servizi amministrativi garantiti ai cittadini.

L’idea è che l’utilizzo degli strumenti digitali e l’integrazione tra sistemi operativi già esistenti facilitino lo scambio di informazioni tra uffici e istituzioni, garantendo la sicurezza dei dati personali.

Vediamo nel dettaglio le novità più interessanti.

NOVITÀ 2020 PCT

1) Il Processo Civile Telematico potrebbe dire addio alle PEC.
L’intenzione è quella di modificare quanto disposto nell’art. 16 bis del d.l. 179/2012, dando la possibilità di
effettuare i depositi anche tramite altri sistemi, primo fra tutti l’upload dei documenti su PST.

2) Partirà poi la sperimentazione che estenderà alla Corte di Cassazione la possibilità di depositare gli atti, consultare i fascicoli e effettuare i pagamenti telematici.

3) L’estensione del PCT agli Uffici Minorili è ancora in fase di analisi per meglio capire come consentire il deposito degli atti e la consultazione telematica dei fascicoli tutelando i dati personali dei soggetti coinvolti.

4) Ai Giudici di Pace verranno consentiti la consultazione dei fascicoli e, successivamente, il deposito telematico.

5) Un’altra novità riguarda lo sviluppo a livello nazionale della “nuova infrastruttura distrettuale evoluta” (GSU – Gestione Servizi Unep) già attivata sul Circondario di Milano.
La sperimentazione prevede la possibilità per gli avvocati di notificare telematicamente agli UNEP.

NOVITÀ 2020 PPT

1) Secondo l’Atto di Indirizzo Politico e Istituzionale, il 2020 vedrà l’introduzione ufficiale del Processo Penale Telematico, a partire dalla realizzare del deposito degli atti e della consultazione dei fascicoli.

2) Verrà incoraggiato l’uso della multivideoconferenza in modo che i dibattiti possano essere svolti a distanza e in conformità all’introduzione dalla legge 103/2017 che ha ampliato il numero di soggetti che possono fare richiesta di partecipazione a distanza.
Al momento, il servizio di multivideoconferenza è possibile in quasi 400 locali adibiti presso 29 istituti penitenziari e 95 uffici giudiziari. Sarà quindi necessario aumentare il numero di spazi attrezzati e implementarne le tecnologie.

3) Un altro intervento riguarda l’unificazione dei registri dei carichi pendenti sul territorio. Uniformando il sistema di ricerca si faciliterà l’ottenimento di informazioni utili alle indagini, soprattutto quelle relative alla criminalità organizzata.

4) Verranno implementati i sistemi di sicurezza per garantire la protezione dei dati relativi alle intercettazioni. Il Team centrale di gestione e coordinamento del Security Operation center del Ministero della Giustizia realizzerà le misure necessarie a proteggere le risorse informatiche e i dati in esse ospitati.

NOVITÀ 2020 BANCHE DATI

1) Si prevede la configurazione della banca dati nazionale integrata collegata all’istituzione della “Squadra Speciale di giustizia per la protezione dei minori” che si occuperà dei dati relativi agli affidi familiari.
L’obiettivo è consentire una maggiore vigilanza sulle procedure di affidamento. Sarà quindi necessario un censimento di tutti gli affidi e delle motivazioni che hanno spinto l’allontanamento dei minori dalle famiglie. Questo permetterà di comprendere la situazione a livello nazionale e individuare quali interventi tecnici e normativi sono necessari.

2) Un’altra banca dati che verrà coinvolta nei processi di ammodernamento è quella della magistratura onoraria di primo grado (giudici onorari di pace e viceprocuratori onorari). Questa banca dati è ormai obsoleta e necessita di essere aggiornata in base a quanto previsto dal d.lgs. 116/2017. Sarà necessario creare un software gestionale che consenta tale rinnovamento.

Potete leggere il testo integrale dell’Atto di Indirizzo Politico e Istituzionale del Ministero della Giustizia cliccando qui.

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Obbligo di formazione continua non valido dopo 25 anni di iscrizione all’albo

L’art. 11 della legge 247/12 stabilisce che gli avvocati sono soggetti all’obbligo di formazione continua e costante al fine di assicurare la qualità delle loro prestazioni professionali nell’interesse dei clienti e dell’amministrazione della giustizia.

Lo stesso articolo, al comma 2, prevede anche l’esenzione o l’esonero dall’obbligo di formazione continua per gli avvocati iscritti all’albo da almeno 25 anni.

Tale esenzione può essere applicata anche retroattivamente in base al superamento del principio del tempus regit actum, ossia l’idea che a un illecito disciplinare debba applicarsi la sanzione vigente nel momento stesso in cui l’illecito è commesso e non quella successiva, più favorevole al colpevole.

IL CASO DI RIFERIMENTO

Nell’ottobre 2014 un avvocato impugnava la decisione del COA di Brescia che gli infliggeva la sanzione della censura.

A seguito di verifiche, il COA scopriva infatti che l’avvocato aveva conseguito solo 19 crediti formativi e non i 31 previsti. Lo invitava pertanto a fornire chiarimenti indicando che, in mancanza quantitativa o qualitativa di questi, avrebbe provveduto all’avvio di un procedimento disciplinare.

L’avvocato ammetteva la propria mancanza giustificandola con la difficoltà nell’uso degli strumenti informatici necessari a individuare i corsi formativi e a iscrivervisi.
Aggiungeva poi di essersi impegnato a tenersi aggiornato con “i metodi della sua epoca”.
Si diceva disponibile a porre rimedio alla sua mancanza, a rispettare l’obbligo di formazione in futuro e confidava nella comprensione dell’Ordine territoriale che però finiva col ritenerlo responsabile e decideva di applicare la sanzione.

Il COA ha valutato inadeguate le ragioni dell’avvocato e ha concluso che la difficoltà nell’utilizzo delle tecnologia non potesse essere considerata un’attenuante. Anzi, quest’ultima poteva risultare addirittura un ostacolo all’esercizio della professione in previsione dell’introduzione del PCT.

DECADENZA DELL’OBBLIGO DI FORMAZIONE CONTINUA

A questo punto l’avvocato ricorreva riferendosi al già citato art. 11, comma 2, della Legge n. 247 del 31 dicembre 2012 e all’esenzione dall’obbligo di formazione continua per gli avvocati iscritti all’albo da almeno venticinque anni.

Il ricorrente inoltre adduceva che “l’intervento del legislatore integrava per i soggetti esentati l’ipotesi della c.d. “abolitio criminis” e che, comunque, la disposizione integrava e costituiva norma più favorevole per l’incolpato con ogni conseguente effetto, anche in ordine alla sua retroattività.”

L’avvocato ricorrente risultava essersi iscritto all’albo nel febbraio 1982, ricadendo pienamente nella casistica indicata dall’art.11.

A fronte della non ravvisabilità della violazione contestata, il ricorrente chiedeva il proscioglimento e solo l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento.

Leggi la sentenza.

 

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