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Obbligo Green Pass, cos’è cambiato per gli avvocati

Con l’estensione dell’obbligo del Green Pass sui luoghi di lavoro a partire dallo scorso 15 ottobre, cosa è cambiato per gli avvocati?

Le disposizioni di interesse per il mondo forense sono contenute nel D.L.n. 127 del 21 settembre 2021, in particolare:
– nell’art. 1, dedicato al lavoro nel settore pubblico;
– nell’art. 2, sull’accesso di magistrati, avvocati e altri negli uffici giudiziari,
– nell’art. 3 dedicato al lavoro nel settore privato.

Con una news specifica pubblicata sul sito, il CNF ha riassunto le misure che ricadono sugli avvocati. Vediamole insieme

GREEN PASS E CONDOTTE PRESSO GLI STUDI DEGLI AVVOCATI

Il decreto non parla esplicitamente degli avvocati, così come non cita alcuna altra specifica categoria di lavoratori.

L’unica differenziazione riguarda le aziende con meno di 15 dipendenti, alle quali è consentito di sospendere un lavoratore privo di Green Pass dopo 5 giorni di assenza e di sostituirlo per un massimo di 10 giorni, e con un solo rinnovo.

Gli avvocati rientrano nella sfera del settore privato, pertanto devono rispettare le disposizioni relative all’obbligo di Green Pass, sia per se stessi che per gli eventuali dipendenti e collaboratori.

Ricordiamo che i datori di lavoro sono tenuti a:
verificare il possesso del Green pass al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro da parte dei dipendenti e dei collaboratori;
− definire le modalità operative per le verifiche, anche a campione;
individuare, con atto formale, i soggetti incaricati di accertare eventuali violazioni degli obblighi.

Per quanto riguarda la presenza di altri soci, tendenzialmente dovrebbe essere richiesto il Green Pass anche a loro nel momento in cui accedono allo studio, ma vi sono alcuni dubbi. 
Trattandosi di liberi professionisti non è infatti possibile individuare un datore di lavoro, dunque a chi dovrebbero essere affidati gli incarichi organizzativi e di controllo?

Sul cliente, invece, non grava l’obbligo di avere il Green Pass per accedere allo studio. Il cliente non ha nemmeno il potere di verificare il possesso del certificato da parte del professionista.

ACCESSO AGLI UFFICI GIUDIZIARI

Come indicato dall’art. 2 al comma 8, ad avvocati, difensori, consulenti, periti, altri ausiliari del magistrato estranei alle amministrazioni della giustizia, testimoni e parti del processo non è richiesto di possedere il Green Pass per accedere agli uffici giudiziari.

L’obbligo ricade invece su magistrati, dipendenti e collaboratori.

Il Consiglio dei Ministri ha spiegato che questa differenza esiste «al fine di consentire il pieno svolgimento dei procedimenti» ed evitare che il mancato possesso della certificazione possa limitare il diritto di difesa o bloccare lo svolgimento dei procedimenti.

Qui il testo completo della news del CNF sull’obbligo di Green Pass per gli avvocati.

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Requisiti per ritenere valido il disconoscimento della copia di un documento

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Requisiti per ritenere valido il disconoscimento della copia di un documento

Quali sono i requisiti che permettono di ritenere valido il disconoscimento della copia di un documento nell’ambito di un giudizio civile?
La Cassazione si è espressa a tal proposito con la sentenza n. 24634/2021.

IL DISCONOSCIMENTO DELLE COPIE

L’art. 2719 del Codice Civile spiega che le copie fotografiche di documenti hanno la stessa efficacia degli originali, se la loro conformità con questi è attestata da un pubblico ufficiale competente o non è espressamente disconosciuta.

IL CASO

Nell’ambito di una procedura fallimentare, il giudice delegato esclude la prelazione sugli interessi convenzionali a causa della mancata produzione da parte della banca delle note di iscrizione ipotecaria.

La banca si oppone ai sensi dell’art. 98 delle legge fallimentare, ma il Tribunale rigetta l’azione.
Il Tribunale ritiene infatti valido il disconoscimento formulato dal fallimento, ai sensi dell’art. 2719 del Codice Civile, sulla conformità agli originali delle copie delle note di iscrizione ipotecaria presentate dalla banca. La banca, a seguito del disconoscimento, non aveva esibito né prodotto gli originali.

La mancata produzione degli originali ha reso impossibile, secondo il Tribunale, l’accertamento della conformità delle copie.

La banca porta allora la questione in Cassazione.
L’istituto è convito che la decisone del Tribunale sia errata poiché ha conferito “valore assorbente” al disconoscimento della conformità agli originali delle copie dei documenti, senza considerare che il fallimento si era limitato a un disconoscimento generico delle copie, senza indicare in quali punti queste costituissero un “falso”.

I REQUISITI PER RITENERE VALIDO IL DISCONOSCIMENTO DELLE COPIE

La Cassazione accoglie il ricorso.
Questi i motivi:

– Il disconoscimento delle scritture private non è soggetto alle disposizioni dell’art. 215 c.p.c. comma 1, n. 2.
Ciò significa che il disconoscimento della conformità della copia all’originale non contempla l’inutilizzabilità del documento in difetto di istanza di verificazione, poiché il giudice può accertare la conformità anche aliunde, tramite altre prove, anche presuntive;

– ai fini del disconoscimento di cui all’art. 2719 del Codice Civile, la giurisprudenza ha introdotto un ulteriore requisito: l’indicazione specifica degli elementi che differenziano copia e originale;

– l’orientamento giurisprudenziale di legittimità ritiene che il disconoscimento formale debba avvenire, pena l’inefficacia, “attraverso una dichiarazione che evidenzi in modo chiaro ed univoco sia il documento che si intende contestare, sia gli aspetti differenziali di quello prodotto rispetto all’originale”.

Nel caso in questione, il Tribunale ha sbagliato nel ritenere efficace il disconoscimento, poiché il fallimento non ha evidenziato differenze fra gli originali e le copie presentate dalla banca ricorrente. Non sono nemmeno state rilevate segni (es.: cancellature.) che potessero generare dubbi sulla conformità delle seconde ai primi.

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Qual è il termine entro il quale è possibile contestare la CTU?

Con l’ordinanza n. 23457/2021 del 26 agosto 2021, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul termine entro il quale è possibile contestare la CTU nell’ambito civile.

IL CASO

Un cliente chiede al Giudice di Pace il rimborso dopo aver acquistato un capo d’abbigliamento, a suo parere difettato. Durante il giudizio viene disposta una consulenza tecnica d’ufficio per verificare la presenza del difetto e il Giudice alla fine dà ragione al cliente. La condanna al rimborso viene confermata anche dal Tribunale in sede gravame, e la venditrice decide di rivolgersi alla Corte di Cassazione.

Fra i vari motivi portati dalla venditrice, anche l’omessa pronuncia da parte del giudice di merito sulle eccezioni da lei formulate a proposito delle modalità di svolgimento della CTU. Dopo il primo incontro, il consulente tecnico d’ufficio non avrebbe comunicato alle parti le successive date per lo svolgimento delle indagini tecniche e non avrebbe inviato la bozza del suo riscontro prima del deposito in Cancelleria.
La ricorrente dice di aver sollevato queste eccezioni nel corso del giudizio e per poi ribadirle con la comparsa conclusionale.

CTU CONTESTATA, SERVONO PROVE SULLA TEMPESTIVITÀ

La Cassazione rigetta il ricorso, ritenendo inammissibile il motivo portato dalla venditrice e dichiarando che:

«le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d’ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto, sicché sono soggette al termine di preclusione di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2, dovendo, pertanto, dedursi – a pena di decadenza – nella prima istanza o difesa successiva al suo deposito».

Nel caso specifico, la ricorrente non ha indicato con sufficiente precisione in quale momento processuale siano state sollevate per la prima volta le doglianze rispetto alla CTU:

«non è sufficiente, al riguardo, la sola affermazione secondo cui ciò sarebbe avvenuto all’udienza del XX.X.XXXX, poiché il motivo non riporta, neanche per riassunto, il verbale di detta udienza, né precisa per quale adempimento essa fosse stata fissata, né specifica che la stessa fosse la prima udienza utile dopo il deposito della CTU oggetto di contestazione

La Cassazione ritiene che tali carenze siano decisive. La ricorrente avrebbe dovuto dimostrare di aver sollevato tempestivamente le eccezioni nel corso del giudizio di merito, con la prima difesa utile dopo il deposito del resoconto del CTU. Poiché tale prova manca, la sua richiesta non può essere accolta.

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Ottobre è il mese della sicurezza informatica e Check Point Research (CPR), che si occupa di ricerche legate alla cyber security, ha condiviso la classifica dei paesi EU più colpiti da attacchi.

L’Italia si colloca sul gradino centrale del podio, sotto la Spagna.
E se ciò non fosse già abbastanza preoccupante, bisogna anche aggiungere che le ricerche si basano sui cyber attacchi denunciati. Molti sono quelli di cui non si ha notizia, quindi la situazione è più grave di quel che sembra.

La CPR ha riportato che, nel corso del 2021, a livello mondiale, gli attacchi informatici verso le aziende sono cresciuti del 40% a settimana rispetto al 2020.

La modalità di cyber attacco più diffusa è il ransomware.

I settori più colpiti sono:
istruzione/ricerca (+ 60% rispetto al 2020),
pubblica amministrazione/ esercito (+ 40%),
sanità (+ 55%).

Questi settori hanno subito una fortissima digitalizzazione durante la pandemia, senza necessariamente avere la struttura e le competenze necessarie ad affrontare tutti i rischi connessi. Le falle hanno attirato i cyber criminali, che sanno approfittare bene di qualsiasi carenza tecnica o umana.

Stefano Zanero, professore associato di Computer Security al Politecnico di Milano, spiega così la situazione:

«Il volume dei cyber attacchi è in forte crescita, a causa dell’aumentare dell’interesse a colpire organizzazioni e a causa del crescente utilizzo dell’IT: prima venivano colpiti i singoli, ora sono nel mirino, soprattutto dei ransomware, le organizzazioni e la pubblica amministrazione. […]

Man mano che la digitalizzazione fa passi avanti in Industria 4.0 e nella trasformazione digitale di imprese e pubbliche amministrazioni, i cyber attacchi aumentano. 
Nella PA, arretrata sul fronte sicurezza, c’è poi l’elemento della grande visibilità: un cyber attacco blocca tutto, magari fermando una campagna vaccinale di massa, e guadagna le prime pagine.»

LA SITUAZIONE IN ITALIA

L’Italia ha registrato un aumento dei cyber attacchi dal 2020 al 2021 pari al 36%. Ogni settimana si contano circa 903 casi.

Anche qui, come nel resto del mondo, la forma più frequente è il ransomware.

COSA FARE PER PROTEGGERSI

Ogni azienda è un caso a sé, ma certamente ci sono alcune buone pratiche che possono ridurre i rischi e che sono facilmente applicabili:
aggiornare sempre i sistemi operativi e le app,
aggiornare antivirus e anti-malware,
– dotarsi di un firewall,
cambiare regolarmente le password scegliendone di efficaci (qui alcune istruzioni su come creare password efficaci),
– eseguire i backup,
– investire in formazione del personale.

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Decreto Capienza e trattamento dati personali: Garante della Privacy scavalcato

Nel Decreto Capienza in vigore dal 9 ottobre 2021 si legge che:

Il trattamento dei dati personali da parte di un’amministrazione pubblica (…) è sempre consentito se necessario per l’adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l’esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti.

La finalità del trattamento, se non espressamente prevista da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento, è indicata dall’amministrazione, dalla società a controllo pubblico o dall’organismo di diritto pubblico in coerenza al compito svolto o al potere esercitato”.

Oltre a rafforzare la spinta all’uso del Green Pass, questo decreto scavalca dunque il Garante della Privacy, che non potrà più svolgere controlli preventivi e al quale vengono concessi solo 30 giorni per dare pareri preventivi.

Oltre a ciò, il decreto apre la strada all’uso incrociato da parte della PA di diverse banche dati, utilissimo per la lotta all’evasione fiscale.

DECRETO CAPIENZA ESAGERATO?

In un comunicato, Palazzo Chigi ha spiegato che queste misure sono “in coerenza con il quadro europeo” e che consistono in “alcune semplificazioni alla disciplina prevista dal decreto legislativo 196/2003 del trattamento dei dati con finalità di interesse pubblico”.

Modifiche in materia di privacy sono contemplate dal GDPR (Regolamento UE 2016/679), che all’art. 6.3 indica che agli stati è concesso di fissare regole proprie sui trattamenti, quando questi sono necessari ad adempiere a obblighi legali, svolgere compiti di interesse pubblico o l’esercizio di pubblici poteri.
Il Regolamento impone però dei limiti: le modifiche devono perseguire un obiettivo di interesse pubblico e devono essere ad esso proporzionate.

COSA È CAMBIATO

Sebbene la situazione precedente fosse restrittiva e impedisse una costruttiva circolazione dei dati tra le pubbliche amministrazioni, il Decreto Capienza sembra andare all’estremo opposto.

L’avv. Luca Bolognini, Presidente dell’Istituto Italiano per la Privacy e la Valorizzazione dei Dati, spiega così la situazione:

«Ora sembra essere stato introdotto un “liberi tutti” per le comunicazioni di dati personali comuni tra soggetti pubblici e per la loro diffusione all’esterno, nei limiti dell’adempimento di compiti di pubblico interesse o dell’esercizio di pubblici poteri.
Prima, cioè, per legittimare la comunicazione o la diffusione di dati personali comuni, non sensibili o giudiziari, da parte di soggetti pubblici (e assimilati) serviva una norma di legge o di regolamento previsto da legge, o in alternativa un’istanza al Garante con 45 giorni di tempo per ottenere un rigetto o per maturare il silenzio-assenso. In questo istante, post Decreto Capienze, no. Per capirci, potremmo perfino tornare alla pubblicazione sul web dei redditi degli italiani, a certe condizioni.»

Anche casi come quelli dell’App Io o del Green Pass, per le quali il Garante ha chiesto correzioni a favore di una maggiore tutela dei dati personali, oggi non sarebbero più possibili.

Il decreto abroga poi anche il comma 5 dell’art. 132 Codice Privacy, che prevedeva che il trattamento e la conservazione di dati personali derivanti dai tabulati telefonici, raccolti per l’accertamento e la repressione di reati, fosse svolto nel rispetto delle tutele indicate dal Garante Privacy.

I contenuti del decreto preoccupano molti esperti della privacy. L’avv. Luca Bolognini ritiene opportuno fare delle correzioni con la conversione in legge per permettere la comunicazione di dati tra soggetti pubblici senza l’autorizzazione del Garante e o ulteriori basi normative di legge o di regolamento solo in casi specifici e critici per il PNRR.

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Smart working con o senza green pass?

Smart working con o senza green pass?

Come è facilmente intuibile, se si lavora in smart working non è necessario avere il green pass. Non avere il green pass non significa però accedere automaticamente allo smart working.

PERCHÈ NON SERVE IL GREEN PASS SE SI È IN SMART WORKING

Il buon senso di capire che il green pass è del tutto inutile quando si lavora da casa è confermato dalla L. 87/2021.

Il decreto:
– impone il green pass in azienda ai lavoratori che accedono ai luoghi di lavoro, intesi come i luoghi veri e propri dove si opera;
– spiega che l’obiettivo della misura è prevenire la diffusione del COVID, eventualità che non sussiste nel momento in cui il dipendente non si trova nel luogo di lavoro.

Altra conferma viene dall’art. 26 del D.L. 18/2020 e dal Messaggio INPS n. 3653 del 9 ottobre 2020, in cui si contempla l’ipotesi che un lavoratore positivo al COVID e sottoposto a quarantena possa svolgere le proprie mansioni in smart working.

Infine, come si potrebbe mai procedere al controllo del green pass da remoto?

PERCHÈ LO SMART WORKING NON È UN DIRITTO IN MANCANZA DI GREEN PASS

La consequenzialità tra assenza di green pass e smart working è particolarmente vera per i dipendenti della PA.
Il Ministro Renato Brunetta, ha spiegato che:

«Lo smart working, non potrà essere un’alternativa al lavoro in presenza per chi non ha il Certificato verde».

Nella bozza delle linee guida in preparazione per la riapertura degli uffici pubblici si legge che il dipendente sprovvisto di green pass dal 15 ottobre non è «adibito a lavoro agile in sostituzione della prestazione non eseguibile in presenza». E ancora:  «non è consentito in alcun modo – in quanto elusivo dell’obbligo di Green Pass – individuare i lavoratori da adibire al lavoro agile dal mancato possesso della certificazione».

Nel settore privato, invece, il datore di lavoro può decidere liberamente se concedere o meno lo smart working ai dipendenti privi di green pass, a cui però viene chiesto di esibirlo qualora dovessero recarsi in sede.

Molto più nebulosa è la posizione dei lavoratori autonomi e delle ditte individuali, come consulenti o idraulici, e delle collaboratrici domestiche e delle badanti.

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Liti temerarie: rafforzata la responsabilità aggravata

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Tra gli obiettivi della riforma della Giustizia vi è anche la riduzione del 40% dei tempi dei processi. Per arrivare a questo risultato si punta al rafforzamento degli strumenti alternativi al processo e a modificare il codice di procedura civile. Alcune novità riguardano anche la responsabilità aggravata legata alle liti temerarie.

LITI TEMERARIE E RESPONSABILITÀ AGGRAVATA

La responsabilità aggravata è trattata all’art.96 c.p.c..

Il primo comma prevede che:

«Se risulta che la parte soccombente (1) ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (2), il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni (3), che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.»

Al secondo comma:

«Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.»

E al terzo:

«Quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.»

LA RIFORMA

La riforma del codice di procedura civile punta a rafforzare i doveri di leale collaborazione delle parti e di soggetti terzi e stabilisce che l’Amministrazione della Giustizia venga riconosciuta come soggetto danneggiato nei casi il cui alla parte soccombente sia riconosciuta la responsabilità aggravata. In tali eventualità, la parte soccombente verrà sanzionata a favore della Cassa delle ammende.

Altre sanzioni sono contemplate in caso di:
rifiuto di ispezione di persone o cose, ordinata dal giudice alle parti o a terzi per meglio conoscere i fatti (art. 118 c.p.c.);
rifiuto di esibizione in giudizio documenti o altro, ordinata dal giudice istruttore a una delle parti o a terzi, su istanza di parte (art. 210 c.p.c.).

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Il difensore d’ufficio ha diritto al rimborso delle spese sostenute nel tentativo di recuperare il credito che gli era dovuto. Così ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza n. 24522/2021.

IL CASO

Un avvocato ha assistito, in qualità di difensore d’ufficio, un imputato in un processo penale, senza però ottenere alcun pagamento del proprio lavoro.
L’avvocato ha dunque tentato tutte le procedure possibili per recuperare il credito, senza successo. Ha dovuto così passare per le vie giudiziarie, richiedendo il pagamento delle spettanze dovute, nonché il rimborso delle spese anticipate ai sensi dell’art. 116 d.p.r. n. 115/2002.

In un primo momento l’istanza viene rigettata, e poi accolta in sede di opposizione, ma solo per la liquidazione del compenso professionale, del rimborso forfetario e degli accessori di legge. Il Tribunale non riconosce al difensore d’ufficio il rimborso delle spese sostenute per le iniziative volte a recuperare il credito non andate a buon fine.

RECUPERO DEL CREDITO: I MOTIVI DEL DIFENSORE D’UFFICIO

L’avvocato non ci sta e porta la questione in Cassazione, sulla scorta di 3 motivi:

1) la violazione delle norme sulla competenza con riferimento all’art.15, secondo comma, del d.lgs. n. 150/2011 e la nullità assoluta dell’ordinanza impugnata;

2) denuncia la violazione e falsa applicazione degli art..82 e 116 d.p.r. n. 115/2002 e dell’art.15, comma 5, del d.lgs. n. 150/2011. Secondo l’avvocato, il Tribunale ha errato a ritenere che il difensore di ufficio non abbia diritto alla liquidazione degli onorari e delle spese connesse alle procedure per il recupero del credito non andate a buon fine.

«L’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in materia, il difensore d’ufficio, in quanto esercente un munus publicum, non può accollarsi gli oneri economici connessi alle imprescindibili attività di recupero del proprio credito al compenso professionale, oneri di cui inevitabilmente l’erario deve farsi carico».

3) violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 92 e 132 c.p.c.
Il Tribunale ha errato a compensare integralmente le spese del giudizio di opposizione in considerazione dell’accoglimento solo parziale dell’opposizione e della mancanza costituzione del Ministero.

LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE

La Cassazione respinge il primo motivo, ma conferma l’interpretazione presentata dall’avvocato nel secondo:

«il difensore d’ufficio di un imputato in un processo penale ha diritto, in sede di esperimento della procedura di liquidazione dei propri compensi professionali, anche al rimborso delle spese, dei diritti e degli onorari relativi alle procedure di recupero del credito non andate a buon fine” (cfr. Cass. ord. n. 22579/2019)».

Ne consegue che il difensore d’ufficio non si deve accollare gli oneri economici di una attività che è prevista dalla legge. Pertanto, l’ordinanza del Tribunale viene cassata con rinvio allo stesso in persona di diverso magistrato, con il compito di regolamentare le spese del giudizio di legittimità.

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Le FAQ non sono utilizzate solo per fornire spiegazioni su prodotti e servizi, ma anche quando si parla di concorsi, bandi e contratti pubblici. Hanno dunque valore giuridico?

COSA SONO LE FAQ

Le FAQ, Frequently Asked Questions, ovvero le “domande poste frequentemente” che troviamo nei siti web, sono uno strumento molto utile perché evitare di rispondere ogni volta agli stessi quesiti posti dagli utenti.

Spesso infatti un argomento fa sorgere negli utenti la necessità di avere chiarimenti, e ancor più spesso questi chiarimenti sono più o meno gli stessi.

Creare una pagina all’interno del sito dove si raccolgono tutte queste domande e se ne offre la risposta permette all’utente di avere immediatamente maggiore chiarezza e al fornitore di risparmiare tempo.

IL VALORE GIURIDICO DELLE FAQ

Con il parere 1275 del 20 luglio 2021, il Consiglio di Stato ci offre qualche chiarimento sul valore giuridico delle FAQ pubblicate dalla PA, dichiarando che esse non sono contemplate tra le fonti del nostro ordinamento. Infatti, l’art. 1 delle preleggi del Codice Civile cita come fonti del diritto solo le leggi, i regolamenti, le norme corporative e gli usi.

Il Consiglio di Stato spiega:

“Esse svolgono una funzione eminentemente pratica né, in genere, indicano elementi utili circa la loro elaborazione, la procedura o i soggetti che ne sono i curatori o i responsabili. Non sono pubblicate a conclusione di un procedimento predefinito dalla legge. È quindi da escludere che le risposte alle FAQ possano essere assimilate a una fonte del diritto, né primaria, né secondaria. Neppure possono essere considerate affini alle circolari, dal momento che non costituiscono un obbligo interno per gli organi amministrativi. In difetto dei necessari presupposti legali, esse non possono costituire neppure atti d’interpretazione autentica.”

Nonostante ciò, il Consiglio non sottovaluta gli effetti che le FAQ (e le loro risposte) producono sia sulla pubblica amministrazione che le condivide che sul cittadino che le legge:

“In definitiva, le risposte alle FAQ, pur nella loro atipicità, si pongono a metà strada tra le disposizioni di carattere normativo, per loro natura (almeno di regola) generali e astratte e inidonee quindi a prevedere ogni loro possibile applicazione concreta, e il singolo esercizio della funzione amministrativa da parte di una pubblica amministrazione. Essenziali criteri di affidamento del cittadino nella pubblica amministrazione richiedono tuttavia di tenere conto dell’attività svolta dall’amministrazione stessa con la pubblicazione delle FAQ sul proprio sito istituzionale.”

Il Consiglio di Stato si era già espresso sulle FAQ con la sentenza n. 846/2020 nella quale si legge che le FAQ non hanno alcun valore normativo, né integrativo (nel caso di specie di un decreto ministeriale) e rappresentano una semplice risposta a un quesito. S

Della stessa opinione anche la sentenza n. 904/2021 del TAR del Lazio.

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Esame avvocato, la proposta per continuare con le modalità straordinarie

Il Ministero della Giustizia è all’opera su una proposta legislativa che estenda anche alla prossima sessione dell’esame per diventare avvocato le modalità attualmente utilizzate.

Nella nota dello scorso 18 settembre si legge:

«Per lo svolgimento dell’esame di abilitazione alla professione di avvocato, la Ministra della Giustizia Marta Cartabia sta lavorando, insieme ai tecnici del Ministero, per proporre anche per la prossima sessione 2021 la stessa formula adottata per la sessione 2020, iniziata lo scorso mese di maggio. Il perdurare dello stato di emergenza sanitaria, correlata alla pandemia da Covid-19, rende opportuno evitare ancora che si svolgano a dicembre le tradizionali prove scritte, con il successivo assembramento di migliaia di candidati per più giorni e molte ore».

ESAME AVVOCATO, LE MODALITÀ ATTUALI

Dato lo stato di emergenza fino al 31 dicembre 2021, e i rischi di aggregare migliaia di aspiranti avvocati in un unico luogo, anche per il 2021 l’esame di avvocato sarà strutturato con due prove orali e nessuna prova scritta.

La prima prova orale sostituisce le tre prove scritte e si configura come una discussione su una questione pratico-applicativa. In particolare, consiste nella soluzione di un caso in materia civile, penale o amministrativa.

La discussione non si svolge dal vivo, bensì con la commissione esaminatrice collegata da remoto.
Il candidato non può collegarsi da casa propria, ma deve recarsi presso gli uffici giudiziari del distretto della Corte d’Appello di appartenenza o presso i Consigli dell’Ordine degli Avvocati.

Alla prima prova orale segue la seconda, la cui formulazione non è diversa da quella classica, se non per il fatto che anche questa è svolta tramite videoconferenza.

Questa seconda prova prevede la discussione di brevi questioni relative a 5 materie che il candidato sceglie al momento dell’iscrizione all’esame, oltre alla deontologia professionale. Tra le materie deve esserci almeno una procedura, civile o penale.

RISOLTO IL PROBLEMA DEI RITARDI?

Il Ministero della Giustizia comunica che le modalità straordinarie utilizzate per lo svolgimento dell’esame di abilitazione forense, introdotte con il Decreto Legge n. 31 del 13 marzo 2021, hanno anche permesso di recuperare il ritardo dovuto al rinvio delle precedenti prove scritte, fissate a dicembre 2020:

«Ad oggi, il 90% dei candidati praticanti-avvocati ha infatti già sostenuto la prima prova orale, sostitutiva delle prove scritte, avente ad oggetto l’esame e la discussione di una questione pratico applicativa, nella forma della soluzione di un caso, in una materia a scelta tra diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo. L’inizio delle seconde prove orali, che si dovrebbero concludere entro la fine dell’anno, è imminente».

Si attendono ulteriori sviluppi.

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