Violazione della privacy e danno non patrimoniali. Il risarcimento non è scontato

Violazione della privacy e danno non patrimoniale. Il risarcimento non è scontato

Come funziona il risarcimento dei danni derivante dalla violazione della privacy? Una sentenza della Cassazione ci offre qualche informazione in più.

Con l’ordinanza n. 16402 del 10 giugno 2021, la Cassazione si è discostata dal tenore di decisioni precedenti in materia, rigettando la richiesta di risarcimento economico del danno non patrimoniale.

QUALI DANNI DALLA VIOLAZIONE DELLA PRIVACY

La violazione delle norme sulla protezione dei dati personali difficilmente causa un danno materiale vero e proprio.
Solitamente, il danno riguarda la sfera emotiva, la reputazione sociale o la serenità dell’individuo che subisce la violazione. Pensiamo, per esempio, all’effetto che può avere la condivisione di informazioni personali che dovevano rimanere private o il trasferimento illecito dei dati.

Si tratta di danni non patrimoniali.

COME FUNZIONA IL RISARCIMENTO DI UN DANNO NON PATRIMONIALE

Per stabilire se il danno non patrimoniale porti a una forma di risarcimenti economico è necessario dimostrare la gravità della lesione subita.
Sarà il giudice a stabilire se ci si trova davanti a un danno reale e serio o se si tratta si una “semplice” violazione delle norme sulla privacy.

Nella recente ordinanza, la Cassazione ha ripreso quanto deciso nella pronuncia n. 17383 del 20/8/2020, ribadendo che un danno non patrimoniale derivante dalla violazione della normativa privacy, sebbene questa rappresenti una lesione di un diritto fondamentale (artt. 2 e 21 della Costituzione e art. 8 della CEDU), è soggetto alla valutazione della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”, poiché tale diritto va bilanciato con il principio di solidarietà (ex art. 2 della Costituzione) che prevede di tollerare la lesione minima dello stesso.
In sostanza, la semplice violazione delle norme sulla protezione dei dati personali non rappresenta di per sé un buon motivo per ottenere un risarcimento, possibile solo nel caso in cui vi siano le prove che la stessa ha causato un’offesa considerevole al diritto dell’individuo.

Ciò si pone in accordo con quanto previsto dal GDPR (art. 79 e 82) e dalla Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art. 47).

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green pass valido 12 mesi

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Arriva l’ok del cts alla proposta di prolungamento della scadenza del green pass

Tanto auspicato quanto atteso, arriva l’ok del Comitato tecnico scientifico all’estensione del Green pass fino a 12 mesi. Quindi, nel momento in cui si sarà completato il ciclo vaccinale, il certificato verde avrà validità di un anno. Tuttavia, a tutte le questioni aperte, come ad esempio quella sulla terza dose del vaccino, l’esecutivo dovrà dar risposta in tempi rapidi.

Green pass: categorie in scadenza e soggetti guariti

Medici, infermieri e lavoratori della sanità hanno iniziato il loro ciclo vaccinale tra fine dicembre 2020 ed inizio gennaio 2021. Dunque, considerando che, attualmente, il green pass ha una validità di nove mesi, per il personale sanitario, il tempo a disposizione è poco. Inoltre, la medesima situazione si presenterà, entro poche settimane, per gli insegnanti, altra categoria prioritaria.

 

 

In questo quadro, l’estensione della validità temporale del green pass è strumento che permette di arrivare alla terza dose proprio per questi soggetti maggiormente esposti. Linea, per altro, adottata in piena condivisione con altri paesi, tra cui la vicina Francia. Nel frattempo proseguono le vaccinazioni in vista del rientro tra i banchi a settembre: più del 90% del personale scolastico e universitario ha ricevuto almeno una dose; nei giovanissimi tra i 12-15 anni la percentuale arriva al 40%, mentre nella fascia 16-19 si arriva al 67%.

Vale la pena ricordare che in molti casi il certificato verde sarà obbligatorio dal primo settembre. Questo accadrà, per esempio, per gli operatori scolastici (professori e personale Ata), per trasporti a lunga percorrenza (treni, navi, aerei) e per tutte le attività come bar e ristoranti, per i quali -in realtà- l’obbligo è già in vigore. Un’altra questione da affrontare rimane quella dei guariti che, proprio alla luce delle disposizioni, si sono sottoposti ad una sola dose di vaccino ed ora si vedono negare il lasciapassare.

 

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Avvocati l’età aumenta il reddito

Avvocati: l’età aumenta il reddito

Report di Cassa Forense: 13 mila gli iscritti in pensione ancora in attività

In Italia, un avvocato in pensione di età compresa tra i 65 e i 69 anni ha un reddito medio superiore agli 80.000 euro annui. Invece, un under 40 in attività non arriva a 25.000 euro. Tale disparità emerge prepotente dall’analisi del report di Cassa Forense sui numeri dell’avvocatura del 2020 che, come ogni anno dagli anni ’80, raccoglie i dati sui suoi iscritti.

Cassa Forense, Report 2020: il reddito medio più alto è maturato dai legali pensionati

Secondo quanto si legge nello studio della Cassa Forense relativo all’anno 2020, sono 13.735 gli avvocati pensionati ancora in attività. Per altro, tra questi rientrano coloro i quali maturano il reddito medio più alto; si tratta dei legali pensionati di età compresa tra i 65 ed i 69 anni, con 83.615 euro l’anno. Una somma notevolmente differente da quella invece percepita da tutte le altre fasce di iscritti, frutto della somma tra pensione e guadagni per l’attività che ancora si continua a svolgere.

 

 

Nella fattispecie, la differenza diventa notevole nel momento in cui si vanno ad accostare questi numeri con quelli degli avvocati più giovani: in Italia, un under 40 percepisce mediamente 23.226 euro all’anno. Ora, escludendo dal conteggio i pensionati ancora in attività, la fascia d’età che percepisce il reddito maggiore è quella compresa tra i 60 ed i 64 anni: 65.515 euro. Segue la fascia 55-59: 60.498; chiudono la serie gli under 30, con 12.844 euro. Dunque, è dopo i 40 anni che si inizia a migliorare, con 30. 245 euro di reddito annuo.

Volendo andare ulteriormente a fondo con l’analisi, la differenza diventa ancor più netta inserendo la variante di genere nel paragone. Infatti, le donne percepiscono un reddito medio di 24.889 euro: meno della metà di quello maschile, che si attesta invece attorno ai 53.849 euro. Anche a livello geografico si registrano notevoli differenze: al nord si percepiscono 57.600 euro mentre al sud e nelle isole 24.124 euro (al centro 44.245).

 

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Diritti di copia. Aggiornamento 2021 Servicematica

Diritti di copia. Aggiornamento 2021

Con il decreto dirigenziale del 7 luglio 2021 (G.U. n. 184 del 3 agosto), il capo del Dipartimento per gli affari di giustizia del Ministero della Giustizia ha comunicato l’aggiornamento degli importi dei diritti di copia e di certificato per gli atti giudiziari.

L’adeguamento tiene conto della variazione dell’indice ISTAT (+1,4%) nel triennio luglio 2017 – giugno 2020, ai sensi dell’ Art. 274 del DPR n. 115/2002.

Il diritto di copia e certificato passa da € 3,87 a € 3,92.

Il Decreto è in vigore dal 18 agosto 2021. Qui di seguito il testo integrale.

AGGIORNAMENTO DIRITTI DI COPIA. IL DECRETO DEL 9 LUGLIO 2021

IL CAPO DEL DIPARTIMENTO
per gli affari di giustizia
del Ministero della giustizia

di concerto con

IL RAGIONIERE GENERALE DELLO STATO
del Ministero dell’economia e delle finanze

   Visto l’art. 274 del testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con decreto
del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, a norma del
quale «la misura degli importi del diritto di copia e del diritto di
certificato e’ adeguata ogni tre anni, in relazione alla variazione,
accertata dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le
famiglie di operai ed impiegati verificatasi nel triennio precedente,
con decreto dirigenziale del Ministero della giustizia, di concerto
con il Ministero dell’economia e delle finanze»;

Visti gli artt. 267, 268 e 269 del medesimo decreto del Presidente
della Repubblica n. 115/2002, che disciplinano, rispettivamente, gli
importi del diritto di copia senza certificazione di conformita’, del
diritto di copia autentica e del diritto di copia su supporto diverso
da quello cartaceo, nonche’ l’art. 273 dello stesso decreto, che
disciplina il diritto di certificato;

   Visti gli importi previsti per il diritto di copia dalle tabelle
contenute negli allegati n. 6, 7 e 8 al citato testo unico, nonche’
l’importo previsto per il diritto di certificato dalle lettere a) e
b) dell’art. 273 del medesimo decreto;

   Viste le disposizioni introdotte con l’art. 4, commi 4 e 5, del
decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24;

   Ritenuto che l’adeguamento della misura degli importi del diritto
di copia e del diritto di certificato vada effettuato tenendo conto
degli importi attualmente vigenti, adeguati con decreto
interdirigenziale sottoscritto in data 20 giugno 2018 – 4 luglio
2018, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana –
Serie generale n. 172 del 26 luglio 2018, sulla base della variazione
dell’indice ISTAT dell’andamento dei prezzi al consumo per le
famiglie di operai ed impiegati registrata nel triennio 1° luglio
2014 – 30 giugno 2017;

   Ritenuto di dover adeguare la misura degli importi previsti per il
diritto di copia e per il diritto di certificato sulla base della
variazione del citato indice ISTAT registrata nel triennio 1° luglio
2017 – 30 giugno 2020;

   Rilevato che, nel triennio considerato, l’Istituto nazionale di
statistica ha rilevato una variazione in aumento dell’indice dei
prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati pari
all’1,4%,

Decreta:

Art. 1

Diritto di certificato

1. L’importo del diritto di certificato prevista dalle lettere a) e
b) dell’art. 273 del testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con decreto
del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e’ aggiornato
ad euro 3,92.

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Sentenza Lexitor non applicabile all’ordinamento italiano

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Niente rimborso dei costi up-front dopo l’estinzione anticipata del mutuo

La sentenza “Lexitor” della Corte di Giustizia dell’Unione Europea non sarebbe pertinente all’ordinamento italiano. Ciò significa che il mutuatario che estingue anticipatamente il contratto non può ottenere il rimborso dei costi up front. Questa è la decisione espressa nella sentenza -resa il 23 agosto- del Giudice di Pace di Ferentino (dott. Antonio Velucci).

Sentenza Lexitor: esclusa l’efficacia di quella Direttiva Europea nel nostro ordinamento

Succede che l’attore estingua anticipatamente il contratto di un mutuo e che, perciò, decida di convenire in giudizio con l’istituto bancario. Il suo scopo sarebbe l’ottenimento del rimborso pro quota dei ratei residui di tutti gli oneri finanziari di tipo recurring (quelli continuativi, connessi alla durata del finanziamento ma non alla durata del contratto -spese di istruttoria, commissioni per gli intermediari, apertura della pratica etc.) versati e non goduti. Tuttavia, succede che la banca convenuta evidenzi il fatto che il contratto esclude ogni rimborso di costi up front (accessori, collegati all’erogazione del finanziamento e non connessi alla durata del contratto), nel pieno rispetto della normativa nazionale.

 

 

Sull’argomento è intervenuta la Corte di Giustizia Europea (Causa C- 338/18, 11 settembre 2019) nella sentenza cosiddetta Lexitor, decidendo sulla questione pregiudiziale sottoposta da un giudice polacco. Così, secondo la CGUE, l’art. 16, paragrafo 1 direttiva n. 12008/48 “deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore”. Ora, nonostante tale presa di posizione, parte della giurisprudenza italiana si è pronunciata più volte con un indirizzo opposto.

E’ il caso del giudice di pace di Ferentino, il quale, per avallare la sua conclusione, richiama una serie di recentissimi provvedimenti (la maggior parte dei quali datati 2021) che ritengono la sentenza Lexitor europea non pertinente all’ordinamento italiano. Infatti, “[l’ordinamento italiano], rispetto a quello polacco, è certamente già più favorevole per il cliente, annoverando una puntuale disciplina dei diritti restitutori, in caso di estinzione anticipata del finanziamento”. Per questo motivo, la domanda del mutuatario viene respinta: in caso di estinzione anticipata del contratto di mutuo si ha diritto al solo rimborso dei costi recurring.

 

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Il Green Pass è revocabile in caso di positività

Il Green Pass è revocabile in caso di positività?

La logica potrebbe suggerire che, quando una persona si ammala di COVID, il suo Green Pass sia revocabile.

La realtà non è così semplice.

COME FUNZIONA IL GREEN PASS

Il Green Pass è la versione italiana del Digital Green Pass europeo, strumento nato per permettere alle persone muoversi tra stati che hanno regole sanitarie diverse e gestiscono in maniera diversa vaccinazioni e tamponi.

Nella certificazione sono raccolti i dati personali del detentore, un ID univoco e l’indicazione sulla validità. Inoltre, contiene anche dati relativi al motivo del rilascio (vaccinazione, guarigione o tampone).
Tutte queste informazioni sono presenti sia nel PDF scaricabile che nel QR code.

Una volta emesso, il Green Pass è firmato con una chiave digitale, prodotta dall’autorità emittente, che viene verificata ogni volta in cui si esibisce la certificazione. La verifica determina la corrispondenza tra la firma e il contenuto del certificato.

Strumenti che si basano su strutture come questa sono generalmente dotati anche di sistemi di revoca, basati su delle liste di firme o di certificati considerati non più validi, emesse dalla medesima autorità.

Il meccanismo è simile a quello dei passaporti: vengono emessi ma possono essere annullati e perdere di validità se il loro numero identificativo rientra in liste specifiche.

PERCHÈ IL GREEN PASS NON È REVOCABILE: IL NODO DELLE LISTE

Al momento il Green Pass manca di un sistema di revoca.

In realtà, le normative sul Digital Green Pass (Regolamento EU 2021/953 e le linee guida eHealth) prevedono delle liste di revoca, le Certificate Revocation List (CRL).

Il considerando (19) del Regolamento (UE) 2021/953 spiega che:

“Per motivi medici e di salute pubblica e in caso di certificati rilasciati o ottenuti fraudolentemente, è opportuno che gli Stati membri possano stilare e scambiare con altri Stati membri, ai fini del presente regolamento, elenchi di revoca dei certificati per casi limitati, in particolare per revocare i certificati rilasciati erroneamente, come conseguenza di una frode o a seguito della sospensione di una partita di vaccino anti COVID-19 risultata difettosa.”

L’Italia ha recepito il punto, tant’è che l’Allegato B sezione 2 del DPCM sul Green Pass specifica che:

“Le certificazioni verdi Covid-19 possono essere revocate mediante l’inserimento del codice univoco della certificazione verde all’interno di liste di revoca. […] La lista di revoca è oggetto di scambio con gli altri Stati membri…”

Ma il regolamento eHealth, al paragrafo 6.1, indica chiaramente che i certificati sanitari non possono essere revocati una volta emessi:

“It is anticipated that health certificates can not be reliably revoked once issued, especially not if this specification would be used on a global scale.”

Il motivo è tutto sommato semplice.
Il Green Pass è dotato di un identificativo univoco ed è nominativo, quindi consente di identificare chiaramente il suo possessore. La creazione di liste come le CRL si porrebbe in contrasto con la normativa sulla privacy:

“Publishing of recovation information containing identifiers may also create privacy concerns, as this information is per definition Personally Identifiable Information (PII).”

Da una parte, questo spiega la necessità di porre una validità temporale limitata al certificato. Dall’altro, rappresenta però il nodo che rende al momento il Green Pass non revocabile in caso di positività del suo detentore.

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vincolo-cinque-mandati-avvocato

Avvocati: definitivo addio ai cinque mandati

Le Commissioni alla Camera e al Senato approvano il decreto che elimina il vincolo dei cinque affari l’anno per rimanere avvocato

Secondo il decreto del Ministro della giustizia del 25 febbraio 2016, n.47, condizione sine qua non per rimanere iscritti all’albo degli avvocati è la dimostrazione di esercizio della professione forense in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente. Il che significa, trattare almeno cinque affari per ciascun anno, anche se l’incarico professionale è conferito da altro professionista (cfr. art.2, comma 2, lett. 2). Tuttavia, il vincolo dei cinque affari annui è chiaramente destinato ad avere vita breve.

Avvocati e obbligo cinque affari annui: l’UE bacchetta l’Italia, l’Italia risponde riformulando la norma

Già nel nostro articolo Avvocati: addio obbligo 5 affari avevamo introdotto il tema di come l’obbligo dei cinque affari annui previsto per gli avvocati, secondo l’UE, “[possa] di fatto comportare una restrizione quantitativa tale da incidere sull’esercizio della professione”. Di qui la necessità di rivedere la normativa in materia; nasce così lo schema di decreto elaborato dal Ministero della Giustizia che modificherebbe tale D.M. n. 47/2016 e che avrebbe già ottenuto sia l’avallo del Consiglio di Stato (n. 1012/2021), che il parere favorevole della Commissione Giustizia al Senato (lo scorso 20 luglio) proprio come della Commissione Giustizia alla Camera (4 agosto scorso). A questo punto, mancherebbe soltanto l’adozione definitiva del provvedimento da parte del Ministero della Giustizia.

 

 

Infatti, allo scopo di scongiurare un aggravamento della procedura di infrazione, il Ministero della Giustizia sopprime la lettera c) articolo 2, comma 2 del D.M. 47/2016. Ciò, in quanto l’accertamento dell’effettività, della continuità e dell’abitualità dell’esercizio della professione forense sarebbero già garantiti da requisiti quali: la titolarità di partita iva, l’uso di locali e di almeno una utenza telefonica riservata all’attività professionale, la titolarità di un indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al Consiglio dell’Ordine, l’assolvimento dell’obbligo di aggiornamento professionale, una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione.

Se, come avevamo già visto, il Cnf non si dice affatto concorde nell’appoggiare tale modifica, il Consiglio di Stato -invece- ne esprime parere favorevole. Su questa stessa linea si muovono le Commissioni alla Camera e al Senato, le quali ritengono ampiamente motivata la tesi sostenuta dall’ Unione Europea. Nello specifico, essi convengono nel sostenere che il vincolo dei cinque affari annui violi il principio di proporzionalità tra prescrizione imposta e obiettivo perseguito (garantire l’effettivo e corretto esercizio della professione). Alla luce di quanto detto, lo schema di D.M. consentirebbe di conformare la normativa nazionale a quella europea e, senza compromettere in alcun modo la tutela dei destinatari dei servizi, andrebbe ad interrompere la procedura di infrazione in atto.

 

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La lettera di Carruba a Il dubbio

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“Troppi avvocati, ora un esame di riabilitazione straordinario”

E’ di oggi la pubblicazione, da parte del giornale Il Dubbio, della lettera rivolta allo stesso giornale da parte dall’avvocato Carruba -Ordine degli Avvocati di Roma-. L’argomento centrale dell’epistola è il ruolo dell’avvocato e la progressiva perdita di credibilità dello stesso di fronte ad un incessante aumento nel numero degli iscritti ai vari albi territoriali. A questo punto, Carruba, nel proporre una soluzione avanza una provocazione; vediamo quale.

La proposta di Carruba: “esame di riabilitazione straordinario a cui sottoporci tutti”

La lettera firmata dall’Avvocato Carruba, dell’Ordine degli Avvocati di Roma, e pubblicata oggi da Il dubbio pone i riflettori su una problematica finora probabilmente poco affrontata, ma dall’indubbia rilevanza tanto etico-professionale quanto socio-culturale. Lo stesso incipit, utilizzando il sostantivo “ipertrofia” in riferimento alla professione forense, sembra subito mettere in chiaro tone of voice e personale punto di vista a riguardo. E, in effetti, solo due righe più in basso si arriva al punto: “In Italia siamo troppi”, e ciò pone la base ad alcuni importanti problemi.

 

 

Il riferimento è, innanzitutto, alla corsa al ribasso nei corrispettivi e, in secondo luogo, allo svilimento del valore della professione. Infine, l’effetto definito “peggiore”: il “decadimento complessivo della qualità e della competenza nell’esercizio della professione forense a discapito della difesa dei diritti di chi si rivolge alle toghe”. In questo ambito rientrano, a detta dello stesso Carruba, la decadenza del rispetto della deontologia, della dialettica con i Magistrati, della correttezza tra Colleghi, “sino alle qualità delle stesse difese messe in campo”.

Per altro, la riflessione dell’Avvocato non sembra voler in alcun modo ledere all’autorevolezza dei giovani avvocati: “chi è bravo, competente, all’altezza […] avrebbe tutto da guadagnare”. Da cosa? Dalla sua proposta, immediatamente conseguente: un esame di riabilitazione straordinario cui sottoporre tutti gli attuali iscritti all’albo, indipendentemente dall’età. L’obiettivo sarebbe quello di “dimezzare il numero degli iscritti agli Ordini territoriali”, ponendo così un freno alla deriva attualmente in atto.

 

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Alcoltest valido anche su incoscienti

Alcoltest: è valido anche su incoscienti

Conducente responsabile anche senza avviso difensivo se l’incoscienza deriva da condotta illecita

La Quarta sezione Penale della Corte di Cassazione, sentenza n. 28466/2021, si esprime circa il caso di un conducente in stato di ebbrezza sottoposto ad alcoltest in stato di incoscienza. Nello specifico, il soggetto in questione non sarebbe nemmeno stato avvisato dalla polizia giudiziaria di farsi assistere dal difensore di fiducia.

Alcoltest: paradossale sarebbe “immunità” a conducenti la cui incoscienza sia conseguenza della loro stessa condotta illecita

Succede che la Corte d’Appello confermi la sentenza di primo grado che vede responsabile Tizio per il reato art. 186, comma 2 lett. C), 2-bis e 2- sexies, cod. strada. Succede quindi che il difensore dell’imputato ricorra in Cassazione lamentando la nullità della sentenza per omesso avviso all’imputato (ex art. 114 disp. Atto cod. proc. Pen.) degli accertamenti alcolimetrici. Nella fattispecie, sarebbe contestata l’affermazione secondo cui l’imputato si trovasse in stato di incoscienza al momento dell’accertamento da parte della Polizia giudiziaria.

 

 

Succede allora che la Cassazione giudichi il ricorso come inammissibile, per i seguenti motivi:

  • L’imputato entra in ospedale in codice rosso, dunque incosciente: è lo stesso operante a confermarlo;
  • Gli avvisi difensivi non possono essere dati a soggetti in stato di totale incoscienza (art. 114 disp. Atto cod. proc. Pen.);
  • Affermare la correttezza della misura secondo la quale, essendo incosciente, allora non è possibile espletare valido accertamento equivarrebbe ad introdurre una sorta di causa di non punibilità;

Infine, (4)) sarebbe paradossale attribuire un’”immunità” a soggetti il cui stato di incoscienza sia conseguenza della loro stessa illecita condotta. In effetti, lo scopo dell’Alcoltest -proprio come di ogni articolo del codice della Strada- è di assicurare l’incolumità degli utenti della strada. Esimere dal controllo soggetti la cui condotta è talmente illecita da costituire condizione eccezionale significherebbe introdurre una sorta di causa di non punibilità in nessun modo prevista dalla legge.

 

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“Se si vuole stare in società, si ha il compito e l’onere di vaccinarsi”

Sono chiare le affermazioni del presidente della Consulta di Bioetica, Maurizio Mori, riguardo il tema dell’obbligatorietà vaccinale in Italia. Nel corso della sua intervista all’Ansa, infatti, Egli ha dichiarato che il vaccino “è un diritto del cittadino, un servizio che le persone in tutto il mondo dovrebbero chiedere agli Stati”. Inoltre, “Il senso è che se si vuole stare in società e non chiusi in casa, si ha il compito e l’onere di vaccinarsi”.

Maurizio Mori: “Il vaccino salva la vita”

Mentre il governo va verso un prolungamento della durata del green pass dagli attuali 9 a 12 mesi, la società civile continua ad interrogarsi circa l’eticità dell’obbligo vaccinale. Così, sui dubbi sollevati in merito alla limitazione della libertà individuale, esattamente come sulla possibilità di una terza dose estesa agli over 12, è interessante comprendere il parere della Consulta di Bioetica.

 

 

In effetti, trattandosi di un’associazione di cittadini di diverso orientamento politico ed etico di diversa formazione che conta tra i suoi soci medici autorevoli, giuristi e filosofi, operatori sanitari, cittadini e studenti interessati a seguire il dibattito razionale e laico sulla bioetica, la Consulta di Bioetica è in grado di offrire un quadro concreto e affidabile sulla condotta generale da seguire circa temi delicati come quello in questione. Alla base delle conclusioni cui la Consulta è giunta ci sono gli assunti secondo i quali “il senso dell’esistenza è enormemente superiore a cento anni fa” dunque “anche l’attenzione alla preservazione della vita è più alta”.

Per questi motivi, la Consulta si dice “favorevole all’obbligo del vaccino anti-Covid per tutti”: “il vaccino salva la vita”. Ne consegue il sì all’obbligo di vaccino per chi svolge servizi pubblici, in attesa della discussione in Parlamento per la conversione in legge del decreto sul Green pass. Infine, seguendo il parere della Consulta, di terza dose si potrà parlare a partire dai più fragili: immunodepressi, trapiantati e over 80.

 

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