Come cancellare i nostri dati personali da Google

Non è piacevole trovare il proprio numero di telefono o l’indirizzo di casa, anzi, potrebbe essere spaventoso. Tuttavia, ci sono dei modi per proteggere la nostra privacy. Google, infatti, ha ampliato le modalità per richiedere la rimozione dei risultati contenenti informazioni personali. Prima, bisognava soddisfare requisiti decisamente stringenti per riuscire a cancellare i propri dati sensibili dai risultati dei motori di ricerca.

Google, oltre a rimuovere le informazioni personali, valuta anche eventuali richieste di cancellazione di deepfake pornografici, immagini di minori e contenuti espliciti. Nessuna garanzia che tali contenuti vengano rimossi, ma verranno sicuramente deviati e non risulteranno tra i principali risultati su Google.

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Scrive Michelle Chang, responsabile delle politiche globali Google, dopo aver annunciato le nuove funzioni: «L’accesso aperto alle informazioni è un obiettivo fondamentale della ricerca, ma lo è anche mettere le persone in condizione di avere gli strumenti necessari per proteggersi e mantenere private le proprie informazioni sensibili e di identificazione personale».

Dunque, le nuove procedure aiutano a tutelarci da minacce quali fughe di informazioni e doxxing, ovvero, quando qualcuno decide di pubblicare online informazioni private su qualcun altro, senza averne il permesso.

Come funziona la procedura per la richiesta di rimozione dei dati personali

Per cominciare, visitiamo la pagina per l’assistenza di Google e clicchiamo sul pulsante Avviare la richiesta di rimozione. Viene chiesto se sono stati contattati i proprietari del sito web dove sono pubblicati i contenuti da cancellare: operazione non necessaria, quindi basta cliccare su No, preferisco non farlo.

Google, poi, chiederà che cosa vogliamo eliminare, e noi potremo specificare quali sono le informazioni che vorremmo rimuovere. Tutti questi passaggi valgono per la rimozione di risultati da siti web attivi. Esiste un modulo separato, invece, per le pagine memorizzate nella cache.

Google chiederà se la richiesta riguarda la condivisione di dati per finalità di doxxing, che definisce come «condivisi o meno con un intento dannoso oppure a scopi di minaccia o di molestia». Per inoltrare la richiesta dovremmo inserire anche il nome completo, paese di residenza e mail. Le richieste di rimozione valgono soltanto per informazioni che riguardano la persona che presenta la domanda oppure qualcuno che si rappresenta ufficialmente.

Nel modulo possono essere inviati sino a 1000 link contemporaneamente. Google richiede anche di inserire l’url che rimanda al contenuto o all’immagine. Alla richiesta va allegato uno screenshot che aiuti a capire in che punto della pagina appaiono le informazioni personali da rimuovere.

Alla fine di tutto verrà richiesta la condivisione di un elenco dei termini di ricerca pertinenti, come il nome completo e il soprannome. Arriverà una mail da Google nella quale viene confermato che la richiesta è stata correttamente ricevuta. Non ci sono delle tempistiche, ma Google vi avviserà dopo aver deciso se rimuovere quanto richiesto o se non fare nulla, fornendo adeguate spiegazioni in qualsiasi caso.

Meglio prevenire che curare. Dai un’occhiata ai prodotti Servicematica, pensati appositamente per la privacy di tutti, privati e aziende. Se hai qualche domanda, non esitare a contattarci al 041 309 4509. Oppure scrivici direttamente sui social 😊

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Aiga, l’Associazione Italiana Giovani Avvocati chiede al Ministero della Giustizia di «dare immediati chiarimenti sul calendario delle seconde prove orali e sulle modalità d’esame per la sessione 2023-2024», viste le «numerose segnalazioni provenienti da diverse Corti d’Appello, sulla attuale situazione di incertezza sulle date di inizio della seconda prova orale».

Dunque, Aiga spera nel «rispetto delle tempistiche tipiche dell’esame d’avvocato, con la fissazione dei preappelli nell’immediato e delle prove ordinarie a far data dal mese di settembre». Francesco Paolo Perchinunno, presidente di Aiga, chiede di «sollecitare le commissioni territoriali a pubblicare nel più breve tempo possibile il calendario per le seconde prove, garantendo ai candidati adeguato periodo di preparazione e di organizzazione dello studio».

Continua Perchinunno: «Vista l’attuale situazione di incertezza anche sulle modalità d’esame per la sessione 2023/2024, appare improcrastinabile dare precise indicazioni sulla tipologia scelta per il prossimo esame di abilitazione».

In tutta Italia sono già cominciati i corsi di preparazione: alcuni si basano sulle vecchie modalità di redazione di atti e pareri, altri preparano i candidati al cosiddetto orale rafforzato. Per Giulia Pesce, Coordinatrice Aiga, «ciò contribuisce ad ingenerare ancora maggiore, inaccettabile, confusione nella vasta platea dei praticanti interessati a sostenere l’esame».

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Matteo Piantedosi, il Ministro dell’Interno, ha intenzione di introdurre il riconoscimento facciale negli ospedali, nelle stazioni e nelle aree commerciali di Milano, Roma e Napoli. Tecnicamente, installare telecamere biometriche o sistemi simili in luoghi pubblici è vietato ai privati e soggetto al parere del Garante della Privacy se chi richiede di installare tale misura è una PA o la magistratura.

Inoltre, in Italia l’utilizzo delle tecnologie per il riconoscimento facciale viene regolato da una moratoria, che vieta di adottare la tecnologia almeno fino alla fine del 2023. Tale provvedimento lascia alle autorità lo spazio legislativo per poter richiedere al Garante l’autorizzazione, nel caso serva per indagini da parte della magistratura oppure per prevenzione di alcuni reati.

La moratoria è entrata in vigore nel 2021, e da allora ha bloccato ogni tentativo di installazione di tali sistemi nei luoghi pubblici. Questo è anche il caso del dispositivo Sari Real Time, appartenente alla Polizia di Stato.

Falsi positivi: il caso Alonzo Sawyer

Nonostante queste tecnologie vengano utilizzate sempre più, non sembrano essere del tutto affidabili e spesso generano falsi positivi, che impattano molto sulle minoranze etniche, violano il diritto alla privacy ed espongono a condotte discriminatorie.

Si pensi, per esempio, al caso Alonzo Sawyer. Per riuscire a fare uscire di prigione il marito, Carronne Sawyer ha dovuto prendere una settimana di ferie. Sawyer, infatti, è stato formalmente accusato di aver aggredito un autista di bus nel Maryland, a Baltimora, e di avergli successivamente rubato lo smartphone.

Tuttavia, la donna sapeva con certezza che il marito era innocente, dato che nel momento del “delitto” stava dormendo con lei sul divano. Tutto questo è avvenuto a causa di un software per il riconoscimento facciale, che ha attestato una probabile corrispondenza tra il sospettato e Alonzo.

Sorveglianza di massa in Real Time

Ricordiamo il parere negativo dal Garante della Privacy nei confronti di Real Time di Sari, sistema delle forze dell’ordine che identifica un volto, confrontandolo successivamente con le immagini delle persone foto-segnalate alle autorità.

Il sistema, attualmente non attivo, attraverso una serie di telecamere installate analizza in Real Time i volti delle persone riprese, confrontandole con una banca dati, una watch-list, che contiene 10 mila volti.

Ma per il Garante, «oltre ad essere privo di una base giuridica che legittimi il trattamento automatizzato dei dati biometrici per il riconoscimento facciale ai fini di sicurezza, realizzerebbe, per come è progettato, una forma di sorveglianza indiscriminata/di massa».

Il Garante, «in linea con quanto stabilito dal Consiglio d’Europa, ritiene di estrema delicatezza l’utilizzo di tecnologie di riconoscimento facciale per finalità di prevenzione e repressione dei reati. Va considerato in particolare che Sari Real Time realizzerebbe un trattamento automatizzato su larga scala che può riguardare anche persone presenti a manifestazioni politiche e sociali, che non sono oggetto di “attenzione” da parte delle forze di polizia».

Tale decisione è arrivata dopo un’istruttoria del 2018, nella quale il Garante ha acquisito alcune informazioni, come la valutazione d’impatto realizzata dal ministero dell’Interno, dove viene spiegato che le immagini vengono subito cancellate.

Tale spiegazione, tuttavia, non ha convinto il Garante, poiché «l’identificazione di una persona sarebbe realizzata attraverso il trattamento dei dati biometrici di coloro che sono presenti nello spazio monitorato, allo scopo di generare modelli confrontabili con quelli dei soggetti inclusi nella watch-list».

«Si determinerebbe», aggiunge, «una evoluzione della natura stessa dell’attività di sorveglianza, che segnerebbe un passaggio dalla sorveglianza mirata di alcuni individui alla possibilità di sorveglianza universale».

Ingannare l’algoritmo con la moda

Nel 2019, ad una studentessa in scambio culturale a New York, Rachele Didero, viene l’idea di far combaciare il fashion design con una particolare tecnologia che contrasta il riconoscimento facciale: nasce Cap_able, una startup fashion tech.

Spiega Didero: «L’idea si basa su quelli che si chiamano adversarial textiles. Si tratta della trasposizione su tessuto di alcune immagini, che sono in grado di confondere gli algoritmi di riconoscimento facciale. In particolare noi ci basiamo su Yolo, che è il software di riconoscimento in tempo reale più veloce che esista».

Per riuscire ad avere degli abiti che effettivamente proteggano i dati biometrici delle persone che le indossano, non è soltanto necessario lavorare sulle immagini, ma anche sulla tipologia di tessuto. Il modello brevettato dalla startup di Didero permette di incorporare l’algoritmo all’interno della trama degli indumenti.

«Bisogna creare l’immagine in digitale. Arriva poi la programmazione della macchina di maglieria, che deve rispettare determinati criteri in modo che riesca a riprodurre il tessuto, che può essere anche composto da diversi filati», continua Didero.

Gli abiti progettati da Cap­_able riescono a confondere le telecamere, per impedire loro di riconoscere correttamente un volto, portandola ad identificare animali, oggetti e cibi. «L’adversarial textile funziona un po’ al contrario rispetto a un codice QR. Invece di dare un’informazione, la scherna».

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Lunedì 1° maggio 2023 si è tenuto un Consiglio dei ministri per approvare un DL riguardante misure collegate al mondo del lavoro, come, per esempio, la riduzione del cuneo fiscale, la definitiva sostituzione del reddito di cittadinanza e l’ampliamento delle possibilità di proroga dei contratti a tempo determinato.

Sono stati illustrati, con un comunicato stampa, i punti fondamentali del DL, già anticipati nei giorni scorsi da varie bozze divulgate alla stampa, grazie alle quali si è sviluppata una discussione molto accesa tra sindacati e governo, vista anche la decisione di approvare il DL proprio nel giorno della festa dei lavoratori.

Domenica sera i rappresentanti del governo hanno incontrato i leader di Cgil, Cisl e Uil, per spiegare le novità contenute nel decreto. Ma le cose non sembrano essere andate proprio benissimo. Per esempio, il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha detto che l’approvazione del DL nel giorno della festa dei lavoratori è stato «un atto di arroganza offensivo».

Taglio del cuneo fiscale

Nel DL, il principale intervento riguarda l’abbassamento del cuneo fiscale per i redditi sino a 35mila euro all’anno. Il decreto incide sul cuneo fiscale con una misura temporanea, che parte dal prossimo luglio e arriva a dicembre.

Per i redditi annui di 25mila euro, il taglio corrisponderà al 4%, aggiungendosi a quello del 3% entrato in vigore dal 2022, corrispondente a 96 euro mensili in più a fine mese. Fino a 35mila euro annui, invece, il taglio corrisponderà sempre al 4%, aggiungendosi a quello precedente del 2%, con una media di 99 euro mensili in più.

In totale, la misura costa 4,1 miliardi di euro. Landini commenta il taglio dicendo che risponde ad una richiesta avanzata dai sindacati, criticando anche le modalità di attuazione in quanto «si tratta di una misura temporanea, non strutturale».

Vengono ampiamente contestate, invece, le altre due principali misure, ovvero la decisione di cancellare il reddito di cittadinanza e la “liberalizzazione” dei contratti a tempo determinato. Per questo, Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di manifestare il 6, il 13 e il 20 maggio a Bologna, Milano e Napoli.

Addio al reddito di cittadinanza

Il decreto va a sostituire il reddito di cittadinanza, che dal prossimo 2024 corrisponderà ad un “Assegno di inclusione”, che si rivolge soltanto ai nuclei familiari con persone che hanno più di 60 anni, persone con disabilità o minori.

Per conoscere i dettagli dobbiamo aspettare la pubblicazione in GU, ma basandoci sulle bozze che sono circolate, l’assegno ammonterà al massimo a 500 euro mensili, ai quali possiamo aggiungere un contributo sino a 280 euro se il nucleo familiare risulta essere in affitto.

Verrà erogato per 18 mesi, ai quali seguirà un mese di interruzione e successivamente un rinnovo di 12 mesi. Se nel nucleo familiare è presente una persona “occupabile”, questa dovrà cominciare un percorso di ricerca di lavoro mediante un centro per l’impiego. Rifiutare un’offerta di lavoro che prevede un contratto di un mese comporta la perdita dell’assegno, a meno che non ci siano particolari condizioni, come l’eccessiva distanza dell’impiego dalla propria abitazione.

Il DL incide sui contratti a tempo determinato, cambiando quanto deciso del decreto-dignità del 2018, approvato da M5S e Lega. Tale DL riduceva le possibilità di proroga di questa tipologia di contratti dopo i primi 12 mesi.

Il governo Meloni ha deciso di introdurre nuove causali, aumentando la possibilità di proroga da 12 a 24 mesi. Ciò avverrà «nei casi previsti dai contratti collettivi; per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, individuate dalle parti, in caso di mancato esercizio da parte della contrattazione collettiva, e in ogni caso entro il termine del 31 dicembre 2021; o per sostituire altri lavoratori».

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Guidare dopo aver assunto alcol o sostanze stupefacenti e provocare incidenti stradali fa automaticamente scattare la revoca della patente. Inoltre, non si può in alcun modo sostituire la pena detentiva e quella pecuniaria con i lavori socialmente utili.

Un automatismo analogo fu introdotto grazie alla legge 41/2016 per quanto riguarda tutte le ipotesi di lesioni stradali colpose e di omicidio stradale. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha ridimensionato il tutto con la sentenza 88/2019, secondo la quale la sanzione amministrativa fissa non è ragionevole, e comunque non compatibile con i principi di proporzionalità e uguaglianza.

La revoca della patente, da allora, scatta in maniera automatica, ma soltanto se le lesioni o la morte della vittima sono state causate da un guidatore sotto effetto di alcol superiore a 1,5 g/l e/o sostanze stupefacenti. In qualsiasi altro caso sarà il giudice a disporre la revoca o la sospensione della patente di guida.

Nonostante la Consulta abbia riconosciuto le «connotazioni sostanzialmente punitive» della revoca della patente di guida, rimarrà comunque una sanzione amministrativa. Per questo, secondo la sentenza 21369/2020 della Cassazione, la sanzione non è negoziabile: la misura della revoca, dunque, non potrà essere sostituita con la sospensione, dato che ciò non è previsto dalle legge (Consiglio di Stato 4136/2019).

Si auspica un intervento per consentire al prefetto, in caso di esito positivo della messa alla prova, di irrogazione della sospensione della patente, al posto della revoca obbligatoria, in tutti i casi di incidenti privi di feriti, anche se causati da un conducente che ha assunto droghe e/o alcol.

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In questo mondo costantemente connesso ad Internet, risulta fondamentale tenere al sicuro i propri account online. Tuttavia, nonostante vengano adottate tutte le precauzioni possibili, accade che le nostre password o gli indirizzi mail siano al centro di azioni malevole da parte di cybercriminali.

Ed ecco che entra in gioco il portale Have I Been Pwned: è un servizio che ci aiuta a comprendere, nel giro di pochissimo tempo, se il nostro indirizzo mail si è ritrovato al centro di un data breach.

Leggi anche: Data Breach: cosa significa e cosa è meglio fare

Un data breach è, sostanzialmente, una fuga di dati, ovvero una situazione nella quale un cybercriminale riesce ad impossessarsi di alcune informazione protette dai sistemi collegati ad un servizio al quale siamo iscritti.

Per farla breve: la nostra mail potrebbe venire riconosciuta da terzi, comportando, di conseguenza, accessi malevoli, che potrebbero proseguire per tantissimo tempo.

Nel corso degli anni queste problematiche, che coinvolgono anche centinaia di milioni di mail, si sono verificate molte volte. Have I Been Pwned è un sito che aiuta a capire gli utenti se sono vittime di questi data breach.

E’ molto semplice utilizzarlo: digitate il vostro indirizzo mail e cliccate sul pulsante “pwned?” per capire se siete vittime di un data breach e soprattutto di quali e quanti, ottenendo anche le informazioni relative.

Il sito aiuta ad aver maggior consapevolezza del livello di sicurezza del proprio indirizzo mail, per capire anche se potrebbe essere stato pubblicato in portali dove le mail vengono vendute ai cybercriminali.

Per accedere al sito, basta cliccare sopra questo link. In ogni caso, la navigazione online richiede sempre molte precauzioni da adottare, per evitare situazioni spiacevoli. Servicematica potrebbe aiutarti, in questo senso: dai un’occhiata ai nostri prodotti, pensati appositamente per la tua sicurezza online!

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Il reato di “Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone”, art. 659, comma 1 del codice penale, è diventato procedibile a querela grazie alla Riforma Cartabia. La Corte, dunque, dovrà esaminare i ricorsi agli effetti penali.

Questo è quanto ribadito dalla Suprema Corte, sentenza 16570 del 19 aprile 2023. Si stabilisce che non ricorre il difetto di querela, come richiesto dall’art. 3 del DL 150/2022, poiché, per quanto riguarda il reato per il quale si procede, sono rimaste ferme costituzioni di parte civile. Una delle parte civili, inoltre, ha presentato le proprie conclusioni durante l’udienza.

Infatti, secondo un principio delle Sezioni Unite, «la sussistenza della volontà di punizione da parte della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere riconosciuta dal giudice anche in atti che non contengono la sua esplicita manifestazione».

Dunque, «può essere riconosciuta anche nell’atto con il quale la persona offesa si costituisce parte civile, nonché nella persistenza di tale costituzione nei successivi gradi di giudizio». Di conseguenza, comportamenti e atti si possono ritenere equivalenti a querela se la proposizione dell’ultima è diventata necessaria alle disposizioni normative sopravvenute durante il giudizio (Cassazione 40250/2018 e DL 10 aprile 2018, n.36).

Oltre a ciò, la Cassazione aggiunge che a tale principio deve essere collegata una «consolidata elaborazione giurisprudenziale». Si cita la sentenza 5193/2019, che si riferisce ad una condanna per appropriazione indebita aggravata, procedibile a querela successivamente alla sentenza di primo grado. In relazione a quest’ultima la Corte rileva che la sussistenza di tale condizione di procedibilità si poteva desumere dalla riserva di costituzione di parte civile da parte della persona offesa.

Si chiarisce anche che la parte civile è legittimata ad impugnare ogni sentenza di proscioglimento e che ha interesse specifico ad impugnare una sentenza di assoluzione poiché se essa diventa irrevocabile «ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile per le restituzione e i risarcimento del danno».

«Deve ritenersi consentito», quindi, «che la parte civile proponga appello avverso una sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado in relazione a reato in quel momento già prescritto per ottenerne la riforma agli effetti civili in sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, e che il giudice, in accoglimento del precisato gravame, decida in conformità con tale richiesta».

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Nel mondo di oggi le relazioni coniugali fanno i conti con la costante esposizione delle vite online, tra chat, social network e motori di ricerca. Che cosa accade, dunque, se le infedeltà vengono scoperte proprio nel mondo di Internet?

Google Maps

Nel 2018, il Tribunale di Milano si è occupato della vicenda di un marito che, attraverso Google Maps, avrebbe scoperto l’auto della moglie parcheggiata in un luogo strano. Dopo aver fatto pressione alla donna, questa ha dovuto ammettere di aver intrapreso una relazione extraconiugale, ponendo fine quindi al loro matrimonio.

La donna ha portato in tribunale…Google, chiedendo il risarcimento per i danni subiti. Infatti, la società non avrebbe avvertito che erano in corso le riprese fotografiche per Maps, e inoltre non aveva nemmeno criptato il numero di targa dell’auto.

Il tribunale meneghino, con una decisione confermata successivamente dalla Cassazione, avrebbe rigettato la domanda. Infatti, sarebbe stata chiamata in causa una società di Google che non fornisce tale servizio, e non è stata prodotta nessuna prova di un nesso causale tra i danni subiti e il comportamento della società.

Un selfie di troppo e siti d’incontri

Se essere paparazzati su Maps è un evento piuttosto raro, lo è anche scoprire un tradimento dando un’occhiata allo smartwatch del proprio partner, come avvenuto di recente a Benevento. Tuttavia, i rischi più grandi per i coniugi infedeli passano per situazioni decisamente più comuni, come, per esempio, un selfie di troppo. Nel 2019, un uomo, davanti alla Corte d’Appello dell’Aquila, ha portato dei selfie che la moglie si sarebbe scattata insieme all’amante.

Autoscatti che non lasciavano molti dubbi, dato che l’amante era a petto nudo sul loro letto. Nonostante tutto, i giudici non hanno ritenuto che le foto fossero sufficienti per provare un effettiva relazione extraconiugale, poiché non vi era alcun atteggiamento intimo tra i due.

Insomma, per i giudici ci potrebbero essere altri motivi dietro alle foto, e per questo hanno escluso l’addebito della separazione alla moglie. Nello stesso anno, due sentenze del Tribunale di Catania e della Corte d’Appello di Palermo hanno stabilito che foto, messaggi e status non sono sufficienti per poter provare un tradimento, ma potrebbero essere validi indizi.

Attenzione anche alla navigazione online sui siti di incontri, che potrebbe determinare la fine di una storia. Si pensi alla sentenza 9284/2018 della Cassazione, per la quale un coniuge che ha cercato una relazione extraconiugale online ha violato l’obbligo di fedeltà del matrimonio.

Un comportamento che rappresenta una causa legittima di addebito di separazione e di allontanamento dal tetto coniugale. Tale orientamento è stato recentemente confermato dalla sentenza 3879/2021 della Suprema Corte, che ha dato rilevanza anche ai pagamenti effettuati online sui siti d’incontri.

Reati e privacy

Ma attenzione, perché a volte si commette un reato nello svelare l’infedeltà del coniuge. Se ci si intrufola nella mail del proprio partner, come stabilito da una sentenza della Cassazione del 2017, nonostante si sia a conoscenza della password, ecco che si inciampa del reato di accesso abusivo ad un sistema telematico o informatico, che può essere punito con reclusione sino a 3 anni.

La stessa cosa vale anche per i social: nel 2019, la Cassazione ha ribadito che la conoscenza delle credenziali d’accesso al profilo Facebook del proprio partner non può escludere il reato. Nello specifico, un marito, che conosceva le credenziali Facebook della moglie, ha deciso di entrare nel profilo di questa, fotografando le conversazioni della donna con un altro uomo per portarle in giudizio.

Insomma, sarebbe meglio acquisire un po’ più di consapevolezza per quanto riguarda la privacy online, che sia la propria o quella del partner.

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Ogni anno vengono prodotti circa 3 miliardi di biscotti della fortuna, i tipici biscotti serviti a fine pasto nei ristoranti cinesi. I biscotti della fortuna sono noti principalmente per i messaggi che contengono al loro interno, come messaggi benauguranti, aforismi e frasi ironiche.

Le aziende principali che li producono si trovano negli Stati Uniti, ovvero il paese dove se ne consumano di più. Di solito sono i dipendenti o i proprietari di queste aziende a scrivere le frasi, lasciandosi ispirare da proverbi antichi oppure giocando con la fantasia.

Ma con l’avvento dell’intelligenza artificiale anche questo mercato comincia a cambiare.

Il fascino dei biscotti della fortuna

I biscotti della fortuna non sono così comuni in Cina, e non sono nemmeno un’invenzione cinese. Di solito non si trova due volte lo stesso messaggio, visto che le aziende produttrici creano continuamente messaggi diversi per evitare questa possibilità. Ma ovviamente, questo richiede tempi lunghi e molta fatica.

Per esempio, Charles Li, proprietario e CEO della Winfar Foods, azienda che rifornisce 11mila ristoranti americani di biscotti della fortuna, ha detto che trascorre tantissime ore per inventare le frasi, affidandosi anche a collaboratori esterni per riuscire a crearne di nuove.

La sua azienda ha cominciato a sfruttare ChatGPT per creare un elenco potenzialmente infinito di aforismi e messaggi. Secondo Li, l’intelligenza artificiale è un’ottima risorsa per risparmiare un bel po’ di tempo, ed è ritenuta uno strumento per produrre messaggi simili a quelli che producono le persone, ma nel giro di pochissimi secondi.

Nonostante il chatbot sia stato addestrato per tenere in considerazione intelligenza emotiva e la correttezza grammaticale, capita che i messaggi creati dal software risultino leggermente criptici. Ma gli esperti ritengono che questo non sia un problema, poiché anche le frasi scritte dagli umani non sono poi così perfette: ma questo fa parte del loro fascino.

Non tutte le aziende produttrici sono convinte che le intelligenze artificiali possano contribuire al miglioramento della qualità dei biglietti o al risparmio del tempo impiegato. Per Kevin Chan, proprietario di un’azienda di San Francisco, far creare i biglietti ad un chatbot indica che «la società si sta muovendo troppo velocemente».

Di certo, da un lato vengono date le giuste istruzioni per evitare che i software creino messaggi estremi oppure offensivi. Tuttavia, gli esperti sono preoccupati che le limitazioni contribuiscano a creare messaggi troppo noiosi.

Infatti, «c’è qualcosa di molto giocoso nei biscotti della fortuna, alleggeriscono la giornata», dichiara Grace Young, storica della cucina. «E’ come se avessimo bisogno di un qualcosa dall’universo, una piccola notizia positiva o un messaggio di saggezza». Ma questa saggezza può essere data da un’intelligenza artificiale?

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In questo periodo a molti utenti sono arrivate delle mail da parte di Netflix, che sembravano vere in tutto e per tutto…tranne per il fatto che non provenivano da Netflix. Si tratta di mail di phishing, o meglio, di brand phishing.

Secondo quanto riferito da Check Point Software, durante il primo trimestre del 2023 sono arrivate delle mail ingannevoli da parte di Netflix, da un indirizzo che comincia con “support”. L’oggetto di queste mail era “Aggiornamento richiesto – Account bloccato”.

Nel messaggio si leggeva che il profilo Netflix del destinatario della mail sarebbe stato bloccato in quanto non aveva ricevuto l’autorizzazione per il pagamento del ciclo di fatturazione successivo.

Nella mail era presente un invito al rinnovo dell’abbonamento, tramite un link che la vittima doveva cliccare per inserire i dati per il pagamento. Il link, ovviamente, non portava al vero sito di Netflix, ma ad uno fraudolento, nel quale le informazioni inserite venivano prontamente rubate dai cybercriminali.

Ribadisce Omer Dembinsky di Check Point Software: «I gruppi criminali organizzano campagne di phishing sempre più convincenti per indurre il maggior numero di persone a fornire i loro dati personali. In alcuni casi, gli attacchi vengono sferrati per rubare i dettagli dei pagamenti, come si vede qui con un servizio di streaming popolare come Netflix».

Difendersi con la consapevolezza

La miglior difesa contro queste truffe, come sempre, «è la consapevolezza: i dipendenti delle aziende, così come gli utenti, devono avere una conoscenza adeguata per individuare gli elementi sospetti, come indirizzi scritti male, errori di battitura, date errate e altri dettagli che possono rivelare una mail malevola o un link pericoloso».

In questi casi, basta passare il mouse sopra il link, senza cliccare: apparirà l’anteprima dell’indirizzo, che ovviamente non porta al sito di Netflix. Nel brand phishing, infatti, i criminali cercano di imitare il sito ufficiale di un brand noto, utilizzando un dominio o una Url simile all’originale.

Il link a questo sito falso solitamente viene inviato tramite mail o sms, ma esistono casi in cui vengono create delle app apposite. Lo scopo è sempre quello di conquistare la fiducia delle persone, spingendole alla compilazione di un modulo che ruba credenziali, dettagli di pagamento e varie informazioni personali.

Da gennaio a marzo 2023, i brand più colpiti da questa tipologia di phishing sono stati: Walmart, DHL, FedEx, Microsoft, LinkedIn, Google, Netflix e PayPal.

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