Lavorare per non tornare: così il carcere diventa rieducazione vera

Roma, 24 luglio 2025 – Non una concessione, ma un investimento in sicurezza e dignità. È così che il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari descrive il lavoro in carcere nel suo editoriale pubblicato oggi su Il Sole 24 Ore, in occasione del bilancio del progetto governativo “Recidiva Zero”. Un piano avviato dal Governo Meloni fin dall’insediamento nel 2022, con l’obiettivo dichiarato di ridurre il tasso di recidiva attraverso la rieducazione effettiva dei detenuti, a partire dal lavoro.

Il richiamo alla dignità delle persone detenute è il filo conduttore dell’intervento di Ostellari. Ricorda che la detenzione non può e non deve mai significare esclusione o annientamento sociale. Anche chi ha sbagliato ha diritto a un percorso di riscatto e reinserimento, tanto più se ciò contribuisce alla sicurezza collettiva. È in questa logica che la rieducazione – prevista dalla Costituzione come fine della pena – assume una funzione concreta, utile alla comunità prima ancora che all’individuo.

Nel testo, il sottosegretario ripercorre simbolicamente la data del 17 giugno, ricordando l’arresto di Enzo Tortora, esempio di grave errore giudiziario e di profonda ingiustizia. Ma affianca a questo anche il tributo a coloro che lavorano nel sistema penitenziario, spesso in condizioni difficili: dagli agenti ai funzionari, fino alle vittime del sistema stesso, come i tanti suicidi tra la popolazione detenuta.

Il lavoro come antidoto alla recidiva

Ostellari sottolinea con forza i dati che supportano la strategia del Governo: il 98% di chi svolge un’attività professionale durante la detenzione, una volta uscito, non torna a delinquere. Un risultato che giustifica – spiega – il forte impegno politico per ampliare le opportunità lavorative dietro le sbarre. Al momento, circa 21.200 detenuti lavorano, pari al 34,3% della popolazione carceraria. La maggior parte sono impiegati direttamente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma cresce significativamente il numero di quelli assunti da imprese private e soggetti del Terzo settore, che offrono – osserva Ostellari – regole, disciplina e percorsi concreti di reinserimento.

Dal 2022 al 2024, il lavoro alle dipendenze del DAP è aumentato del 5%, mentre quello esterno ha registrato un +30%. Merito anche del rilancio della Legge Smuraglia, potenziata dal decreto “Sicurezza”, che prevede agevolazioni fiscali per le imprese che assumono persone detenute. Il numero delle aziende coinvolte è passato da 519 nel 2023 a 730 nel 2024, con un incremento del 40,6%.

Misure innovative e riforme in arrivo

Il Governo ha introdotto anche ulteriori novità, tra cui un elenco nazionale delle strutture esterne in grado di accogliere detenuti in misura alternativa che non dispongano di un domicilio. Questa misura, contenuta nel decreto “Carcere sicuro”, mira a ridurre il sovraffollamento e a garantire percorsi alternativi realmente attuabili, anche per i soggetti più fragili.

Ostellari richiama poi l’attenzione su un’altra urgenza: l’edilizia penitenziaria. Gran parte delle carceri italiane sono vecchie, inadeguate e inadatte ad accogliere laboratori o attività trattamentali. Per questo il Governo punta anche sul Commissario straordinario per l’edilizia carceraria, figura chiamata a intervenire con risorse mirate e rapidità di esecuzione.

Comunicare per costruire consenso

Non manca un appello alla comunicazione: è necessario – afferma il sottosegretario – spiegare ai cittadini che investire sul lavoro in carcere non è solo un atto di umanità o un dovere costituzionale, ma anche una scelta economicamente razionale e socialmente efficace. I vantaggi ricadono su tutta la collettività: meno recidiva, meno spese per la sicurezza, più reinserimento, più coesione sociale.

In conclusione, Ostellari definisce il progetto ambizioso ma realizzabile: un sistema penitenziario moderno, in grado di diventare modello europeo, capace di coniugare legalità, efficienza e umanità. Una giustizia che non sia vendetta, ma risarcimento alla società e occasione di riscatto per chi ha sbagliato.


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Nordio rilancia la sua giustizia: meno carcere preventivo, riforma del ricorso e separazione delle carriere

Roma, 24 luglio 2025 – Un’idea di giustizia più garantista, meno carcerazione preventiva, giudici realmente terzi e nuove regole sul ricorso dell’accusa. Sono questi alcuni dei punti chiave toccati dal ministro della Giustizia Carlo Nordio in un’intervista rilasciata oggi a Il Giornale, in cui rivendica le riforme fin qui approvate dalla maggioranza e rilancia la sua visione della giustizia.

Al centro della riflessione del ministro, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, da lui definita un traguardo atteso da decenni. Nordio ricorda di essersi espresso in favore di questa riforma già a metà degli anni ’90, dopo un’iniziale contrarietà motivata dal contesto post-Tangentopoli e dalla necessità di una magistratura compatta. Un ripensamento, spiega, maturato per esigenze di equilibrio costituzionale e oggi divenuto realtà legislativa. La separazione, a suo avviso, garantirà una magistratura più imparziale, sottraendo i giudici all’influenza valutativa dei pm nei consigli giudiziari e nel CSM, una “anomalia” rispetto agli standard europei.

Meno carcere prima del processo

Tra le priorità, Nordio indica una profonda revisione della custodia cautelare. Troppe persone, dice, restano in carcere in attesa di giudizio per poi essere assolte o ricevere condanne lievi e sospese. Un sistema inefficiente e costoso, che secondo il ministro richiede un intervento deciso sul codice di procedura penale.

In questo quadro si inserisce anche il progetto di limitare il diritto dell’accusa di ricorrere in appello, in particolare nei casi di assoluzione piena. L’intenzione è quella di evitare appelli generalizzati e di permettere la riapertura dei processi solo in presenza di evidenti violazioni di legge, da valutare in dibattimenti rinnovati. Una misura – spiega – che punta a garantire equilibrio e tutela dei diritti fondamentali senza trasformare l’assoluzione in una sentenza provvisoria.

“Garantismo è certezza della pena, non impunità”

Nordio difende poi l’introduzione di nuovi reati, rispondendo alle critiche dell’opposizione che accusa il governo di ipergiustizialismo. Secondo il ministro, la previsione di fattispecie penali specifiche (come per i rave party, le truffe informatiche o le occupazioni abusive di immobili) serve a colmare vuoti normativi e a garantire tutele moderne, senza aumentare in modo indiscriminato la repressione penale.

A sua volta, l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio – altro punto fortemente contestato – viene presentata come una misura necessaria per snellire i procedimenti giudiziari e liberare la pubblica amministrazione da un blocco decisionale causato dalla paura della denuncia.

Il garantismo, insiste Nordio, non è sinonimo di lassismo: significa applicare davvero il principio di presunzione di innocenza e al contempo garantire che le pene previste vengano effettivamente eseguite, non necessariamente in carcere, ma in modo certo.

Immigrazione e tensioni con la magistratura

Nel colloquio con Il Giornale, il ministro tocca anche il tema della giustizia in materia di immigrazione, lamentando che alcune sentenze abbiano di fatto bloccato l’efficacia delle politiche di contrasto alla clandestinità. Secondo Nordio, serve una risposta comune a livello europeo e una maggiore coerenza tra gli indirizzi politici e l’interpretazione giurisprudenziale.

Quanto alle tensioni con la magistratura, il Guardasigilli afferma di augurarsi un clima più sereno. Le riforme approvate – osserva – sono il frutto di una larga maggioranza parlamentare, che riflette la volontà del Paese. «Accettare questo dato – conclude – aiuterebbe a superare il conflitto e a costruire finalmente un terreno di collaborazione tra politica e giustizia».

Nordio assicura infine che nei prossimi due anni proseguirà l’impegno su altri fronti delicati, dalla responsabilità delle forze dell’ordine e dei medici, alla tutela della privacy, passando per la semplificazione del processo penale.


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Lo scontro tra Nordio e le toghe paralizza il CSM: il Colle osserva, Pinelli media

Roma, 24 luglio 2025 – Quello che inizialmente sembrava un’ordinaria contrapposizione tra la componente laica filogovernativa e i togati del Consiglio Superiore della Magistratura si è trasformato in un vero e proprio conflitto istituzionale, capace di mettere in discussione l’operatività dell’intero organo e, in prospettiva, di coinvolgere indirettamente anche il Quirinale, nella sua veste di Presidenza del CSM.

Il casus belli è stata la pratica a tutela del sostituto procuratore generale Raffaele Piccirillo, approvata con tempistiche ritenute “insolitamente rapide” dai consiglieri espressi da Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega, che l’hanno definita un’iniziativa “di natura esclusivamente politica”, in risposta al recente via libera del Senato alla riforma della giustizia voluta dal governo.

Il documento – proposto dai consiglieri togati e dai laici espressi da PD, M5S e Italia Viva – si poneva l’obiettivo di difendere non solo la libertà di espressione di Piccirillo, accusato dal ministro Nordio per una sua analisi giuridica relativa al caso Almasri, ma anche l’onorabilità della Sezione disciplinare del CSM, duramente criticata dal Guardasigilli per presunti condizionamenti correntizi.

Un boicottaggio che blocca i lavori

Il boicottaggio messo in atto dai laici di centrodestra – attraverso l’assenza ripetuta in aula – ha impedito per due volte il raggiungimento del numero legale, determinando la sospensione della seduta da parte del vicepresidente Fabio Pinelli, che ha rinviato la convocazione al giorno successivo nella speranza di trovare un’intesa.

La situazione è tutt’altro che marginale: senza l’esame della pratica contestata, l’intero plenum resta bloccato, e con esso anche l’esame di provvedimenti cruciali, inclusi quelli legati agli obiettivi del PNRR. Un’inerzia forzata, che pone interrogativi sulla tenuta dell’organo, soprattutto alla vigilia della pausa estiva e in assenza di un percorso istituzionale condiviso.

Il ruolo di Mattarella e lo spettro dello scioglimento

La gravità dello stallo, se protratto, potrebbe configurare un’impossibilità funzionale del CSM, uno scenario che – secondo la legge – giustificherebbe lo scioglimento dell’organo e nuove elezioni. Ma con l’attuale sistema elettorale, ritenuto da più parti una delle cause dei mali del CSM, si riprodurrebbero le stesse dinamiche che la riforma in corso punta a superare.

Una prospettiva istituzionale delicata, che non può non riguardare anche il Quirinale. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in qualità di presidente del Consiglio Superiore, ha il compito di approvare gli ordini del giorno del plenum, compreso quello finito al centro della polemica. La sua posizione, pur di garanzia, è dunque inevitabilmente toccata da uno scontro che ha smesso di essere tecnico per diventare politico.

Pinelli cerca una mediazione, ma la frattura resta

Proprio il vicepresidente Fabio Pinelli, leghista ma sempre attento al profilo istituzionale del Consiglio, ha cercato di stemperare i toni, pur riconoscendo la legittimità della tutela espressa nei confronti di Piccirillo. La sua posizione, moderata e rispettosa della dialettica interna, evidenzia la fragilità dell’equilibrio attuale: anche un rappresentante della maggioranza di governo, solitamente prudente su pratiche simili, ha condiviso la necessità di non lasciare isolato un magistrato per opinioni espresse in ambito tecnico-giuridico.

Il nodo politico: Nordio e il “tribunale delle toghe”

A riaccendere la miccia dello scontro è stata ancora una volta una dichiarazione del ministro Carlo Nordio, che ha definito “scandalosa” la difesa espressa da alcuni magistrati nei confronti di Piccirillo, accusandoli implicitamente di parzialità e di agire in base ad appartenenze correntizie. Una denuncia durissima, a cui il CSM ha risposto parlando di “gratuita e pregiudiziale denigrazione della giurisdizione”, priva di basi oggettive e lesiva della funzione costituzionale della Sezione disciplinare, che include anche membri eletti dal Parlamento.

La tensione, insomma, non è più confinata al piano delle opinioni o delle critiche reciproche, ma si è trasformata in uno scontro istituzionale che coinvolge funzioni, poteri e legittimità. In attesa del prossimo plenum e delle mosse del Colle, resta da capire se prevarrà la linea del confronto o quella della rottura.

Il rischio, sempre più concreto, è che la paralisi del CSM finisca per diventare la cartina al tornasole della fragilità dei rapporti tra poteri dello Stato, in un momento in cui l’Italia ha bisogno di stabilità e responsabilità, più che di veleni e fratture.


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Dalla rete ai cavi sottomarini: la nuova via tecnologica tra Italia e Algeria

Roma, 24 luglio 2025 – Si consolida il partenariato strategico tra Italia e Algeria. Il quinto vertice intergovernativo, svoltosi ieri nella cornice istituzionale di Villa Pamphilj a Roma, ha segnato un nuovo passo avanti nella cooperazione bilaterale, culminando con la firma di dodici intese istituzionali e oltre trenta accordi commerciali.

Al centro del vertice, presieduto dalla premier Giorgia Meloni e dal presidente algerino Abdelmadjid Tebboune, una visione condivisa che spazia dall’approvvigionamento energetico alla cooperazione tecnologica, passando per il sostegno alle imprese, lo sviluppo agricolo e il contrasto ai flussi migratori irregolari.

Energia: l’asse Eni-Sonatrach si rafforza

Il pilastro energetico resta il cuore pulsante del rapporto tra i due Paesi. L’intesa firmata tra Eni e Sonatrach consolida il ruolo dell’Algeria come fornitore chiave per l’Italia, soprattutto in un contesto di graduale disimpegno dal gas russo. L’accordo prevede un incremento della produzione algerina fino a 5,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno entro il 2028, sostenuto da investimenti superiori a 8 miliardi di dollari. L’obiettivo è chiaro: garantire stabilità energetica e trasformare l’Italia in un hub di distribuzione per l’Europa, come sottolineato dalla stessa Meloni.

Digitale, agro-tech e industria: nuove sinergie per la crescita

Ma l’energia non è l’unico ambito strategico. Il vertice ha aperto nuovi orizzonti di collaborazione su altri fronti industriali. Tra i memoranda firmati, spiccano:

  • L’accordo tra Invitalia e l’omologa algerina Aaapi, finalizzato alla promozione degli investimenti bilaterali;

  • L’intesa tra Sace e BF International per il sostegno alla creazione di aziende agricole modello e lo sviluppo di filiere agro-industriali in Africa;

  • Il progetto sperimentale avviato da Bonifiche Ferraresi per rendere coltivabili 36 mila ettari di deserto algerino, nel quadro del Piano Mattei.

Nel settore delle telecomunicazioni, un accordo firmato dal ministro italiano Adolfo Urso punta a rafforzare la cooperazione postale e digitale, con focus su reti di nuova generazione e infrastrutture. Anche Telecom Italia Sparkle e Algérie Telecom hanno sottoscritto un’intesa per la posa di un cavo sottomarino di trasmissione dati, a testimonianza della crescente integrazione tra i due sistemi tecnologici.

Automotive, cultura e migrazioni: altri ambiti di collaborazione

La cooperazione industriale tocca anche l’automotive: tra le intese, una lettera di intenti tra Stellantis e il governo algerino per rafforzare la presenza del gruppo nel Paese nordafricano.

Non è mancata l’attenzione ai valori culturali condivisi, con il lancio di una candidatura congiunta Italia-Algeria presso l’UNESCO per la valorizzazione dei luoghi legati alla figura di Sant’Agostino, vissuto tra le due sponde del Mediterraneo.

Infine, un tema delicato come l’immigrazione ha trovato spazio nel bilancio del vertice. Meloni ha parlato di “eccellente coordinamento” con l’Algeria nel contrasto all’immigrazione irregolare, sottolineando l’importanza di un approccio condiviso e strutturato.


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Sicurezza e welfare, la convergenza possibile: quando la spesa militare diventa investimento sociale

Il recente intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha segnato un punto di svolta nella narrazione pubblica sulla difesa. Ribadendo che una democrazia ha bisogno di sicurezza per poter vivere e prosperare, il Capo dello Stato ha implicitamente affermato un principio tanto semplice quanto potente: la spesa per la sicurezza non è una voce contrapposta al welfare, ma una sua componente strutturale.

Nel solco di questa riflessione, si apre un dibattito importante che coinvolge economia, politica industriale, relazioni internazionali e visione sociale. Può la spesa militare produrre effetti benefici per l’intera collettività? E, se sì, come combinarla con la spesa sociale senza generare conflitto o sacrifici?

Uno degli approcci più innovativi in tal senso arriva dal mondo della ricerca economica e geopolitica, dove si analizza la spesa per la difesa come fattore di attivazione di capitale pubblico, crescita occupazionale e progresso tecnologico. È quanto sottolinea anche l’economista Carlo Pelanda, che torna oggi a sviluppare una linea di studio avviata già vent’anni fa insieme a Paolo Savona, sulla definizione del “bene pubblico” come asset in grado di tenere insieme utilità sociale e produttività economica.

La chiave di volta è comprendere come la spesa militare – se ben orientata – non generi solo apparati difensivi, ma produca innovazione, posti di lavoro specializzati, nuove competenze e infrastrutture civili. I primi dati, ad esempio, provenienti dal programma congiunto anglo-statunitense-australiano sui sottomarini nucleari mostrano già effetti virtuosi: ampliamento di porti, rafforzamento delle università ingegneristiche, crescita occupazionale qualificata. Elementi che vanno oltre l’ambito bellico, toccando il tessuto economico e sociale del Paese.

Questo schema non è nuovo: già durante la Seconda Guerra Mondiale, il riarmo statunitense contribuì in modo determinante a superare gli effetti della grande depressione, laddove il New Deal non era bastato. Allo stesso modo, il complesso militare-industriale USA ha generato nel dopoguerra una spinta continua alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica, con effetti ricaduti largamente sull’economia civile.

Pelanda propone allora di distinguere tra spesa militare “orizzontale” e “verticale”: la prima, orientata a stipendi, funzioni e organizzazione del personale, genera benefici diretti in termini di reddito e stabilità sociale, e può essere letta come una forma di welfare “qualificante”. La seconda, legata alla ricerca, ai contratti industriali e allo sviluppo tecnologico, alimenta la crescita del PIL e consente allo Stato di rafforzare la spesa pubblica con risorse aggiuntive, senza aumentare il debito in modo insostenibile.

In questo modo, la spesa per la difesa smette di essere una voce “in concorrenza” con quella per la sanità, la scuola o l’assistenza, e diventa invece una componente funzionale alla resilienza sociale ed economica. È quanto sta già avvenendo in alcuni Paesi baltici, dove la pressione geopolitica ha imposto un rapido rafforzamento della sicurezza interna, con impatti che hanno coinvolto anche il mercato del lavoro, la formazione e le tecnologie emergenti.

Il nodo, dunque, non è tanto se aumentare la spesa per la difesa, ma come farlo: con una visione sistemica, trasparente e orientata agli interessi collettivi. Non per alimentare la logica della guerra, ma per ridurre la vulnerabilità democratica e costruire un modello di sicurezza che sostenga la crescita e la coesione sociale.


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Antonio Naddeo, presidente dell’Aran – l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni – offre una riflessione puntuale su questo squilibrio. A suo avviso, la spiegazione va cercata in un retaggio culturale che ha influenzato per anni le scelte formative e professionali tra uomini e donne. Tuttavia, qualcosa starebbe cambiando: si registra infatti una crescente partecipazione femminile ai concorsi pubblici e, secondo Naddeo, già nei prossimi cinque o sei anni si potrebbero osservare trasformazioni significative nella composizione delle posizioni apicali.

Prendendo ad esempio la scuola e la sanità, due settori storicamente a prevalenza femminile, Naddeo evidenzia come la scelta professionale sia spesso condizionata dalla presunta maggiore compatibilità con i ritmi della vita familiare. Uno stereotipo, questo, che però si va lentamente sgretolando.

Un passaggio centrale dell’intervista al Presidente riguarda l’imminente recepimento della direttiva europea sulla trasparenza retributiva e il contrasto al gender pay gap. Naddeo ritiene che il settore pubblico sia avvantaggiato rispetto al privato, anche grazie al percorso di “amministrazione trasparente” avviato da anni. Tuttavia, sottolinea come sarà cruciale evitare l’aggravamento degli adempimenti e giocare d’anticipo, senza attendere gli ultimi momenti per l’applicazione.

Determinante sarà il parere del Garante della privacy, che dovrà stabilire il perimetro della trasparenza: se le retribuzioni dovranno essere pubblicate integralmente online, con nomi completi o solo con mansioni e iniziali, e come trattare i dati in modo che siano significativi ma rispettosi della riservatezza. Naddeo sottolinea come, ad esempio, pubblicare solo l’ammontare della retribuzione non sia sufficiente: servono anche dati sull’orario di lavoro, per permettere un confronto equo e coerente.

Infine, secondo il presidente dell’Aran, il recepimento della direttiva rappresenta un’occasione per aprire un confronto strutturato con le parti sociali. Non si dovrebbe ridurre il tutto a un semplice obbligo normativo, ma trasformarlo in un’opportunità di crescita e autoanalisi del mondo del lavoro pubblico e privato. Solo così si potrà colmare davvero il divario di genere e costruire un’amministrazione moderna e inclusiva.


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“Riaprire i piccoli tribunali significa adottare logiche di consenso clientelari e danneggiare ancora una volta l’efficienza della giustizia. La decisione del governo di riaprire le sezioni distaccate già soppresse nel 2012, è disarmante. Mentre inquieta l’Intenzione di aprire un tribunale – Bassano del Grappa – dinanzi alla cui incomprensibile istituzione gli stessi avvocati di Vicenza avevano chiesto di soprassedere”.

Lo afferma la Giunta dell’Anm.“Dobbiamo denunciare – aggiunge la nota –  l’ennesimo spreco di risorse, che vanifica, come in un surreale gioco dell’oca, tutto lo sforzo profuso dai magistrati per offrire ai cittadini un servizio quanto più possibile efficiente e razionale e soprattutto rapido. Questa scelta rallenterà i tempi della giustizia e danneggerà la fiducia dei cittadini nelle istituzioni”.


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ROMA – Il Ministero della Giustizia ha ufficialmente pubblicato il bando di esame per l’abilitazione all’esercizio della professione forense – sessione 2025, come comunicato nella Gazzetta Ufficiale – IV Serie Speciale Concorsi ed Esami n. 56 del 18 luglio 2025. Il decreto ministeriale che indice la sessione porta la data del 30 giugno 2025 e conferma l’impianto ormai consolidato della prova di Stato per diventare avvocati, articolata in una prova scritta e in una prova orale.

Domande online dal 1° ottobre all’11 novembre

La presentazione della domanda di partecipazione sarà possibile esclusivamente in via telematica attraverso il sito del Ministero della Giustizia (www.giustizia.it) a partire dal 1° ottobre 2025 e fino all’11 novembre 2025. Per accedere alla piattaforma sarà necessario autenticarsi tramite SPID di livello 2, Carta d’identità elettronica (CIE) o Carta Nazionale dei Servizi (CNS).
È previsto il pagamento di un contributo di partecipazione pari a 78,91 euro, da effettuarsi tramite la piattaforma PagoPA.

La prova scritta: 11 dicembre 2025

La prova scritta unica si svolgerà giovedì 11 dicembre 2025 alle ore 9.00 presso le sedi delle Corti d’Appello indicate nel bando, tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Firenze e molte altre.
I candidati dovranno redigere un atto giudiziario su traccia ministeriale in una materia a scelta tra diritto civile, penale o amministrativo. L’elaborato mira a verificare la capacità argomentativa e tecnica nella redazione di atti tipici della professione forense.

La prova orale: tre fasi e focus sull’etica professionale

La prova orale si articolerà in tre momenti distinti:

  1. Discussione di un caso pratico, in una materia scelta dal candidato;
  2. Colloquio su tre materie giuridiche, di cui almeno una processuale;
  3. Domande sull’ordinamento forense, con particolare attenzione ai doveri deontologici e alla funzione sociale dell’avvocato.

Requisiti di ammissione

Possono accedere all’esame i praticanti che abbiano completato la pratica forense entro il 10 novembre 2025. È ammessa anche la candidatura di coloro che prevedano di completarla entro tale termine, a condizione di presentare apposita dichiarazione sostitutiva.

Misure per disabilità e DSA

Il bando prevede misure di sostegno specifiche per candidati con disabilità o disturbi specifici dell’apprendimento (DSA). Tra queste:

  • concessione di tempi aggiuntivi per lo svolgimento delle prove;
  • strumenti compensativi individuali;
  • supporti personalizzati, sia per la prova scritta che per quella orale.

Per ulteriori dettagli, l’intero testo del bando è consultabile nella sezione dedicata del sito del Ministero della Giustizia. Le informazioni ufficiali saranno costantemente aggiornate attraverso i canali istituzionali.


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“Un passo importante verso un impegno preso con gli italiani”, ha dichiarato la premier Giorgia Meloni commentando il voto di Palazzo Madama. Ma sotto l’apparente entusiasmo, serpeggiano incertezze e criticità: non solo per il contenuto della riforma, ma per la dinamica che rischia di legittimarla con una partecipazione elettorale limitata. In assenza di quorum, sarà sufficiente un’affluenza anche molto bassa per rendere valida la consultazione. Ed è già alto il rischio che a prevalere siano le posizioni più polarizzate.

Il cuore del conflitto: non solo le carriere separate

Sebbene il dibattito pubblico si sia concentrato soprattutto sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri – misura interpretata da molti come un tentativo di indebolire l’autonomia della magistratura requirente – la parte più controversa della riforma, secondo gli stessi magistrati, riguarda la ristrutturazione del Consiglio superiore della magistratura (Csm).

Lo ha denunciato anche Cesare Parodi, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, sottolineando che la previsione di un doppio Csm, con membri selezionati anche per sorteggio, potrebbe togliere garanzie ai cittadini e non riuscire affatto a eliminare il rischio di nuovi correntismi. “L’autogoverno – ha ricordato Parodi – non serve a proteggere i magistrati, ma a garantire un sistema che funzioni. E questa riforma rischia di indebolirne l’essenza”.

Il governo, invece, rivendica la necessità del sorteggio come unico mezzo per spezzare l’influenza delle correnti interne alla magistratura, che negli anni hanno eroso la credibilità e l’indipendenza percepita dell’organo di autogoverno.

Tajani e il richiamo a Berlusconi: strategia o boomerang?

Il vicepremier Antonio Tajani ha dichiarato che con questo progetto si realizza “un obiettivo storico di Silvio Berlusconi”, rivendicando con forza l’impronta politica della riforma. Ma proprio questo richiamo rischia di inasprire ulteriormente il fronte critico. Per molti osservatori, l’identificazione del provvedimento con l’eredità berlusconiana aumenta la diffidenza di una parte del Paese e rafforza l’opposizione della magistratura.

Come ha sottolineato Dario Franceschini (Pd), la scelta della maggioranza potrebbe rivelarsi “un boomerang”. Il referendum, infatti, cristallizza il dibattito su un tema altamente tecnico e delicato in una contrapposizione da campagna elettorale, dove vincono le semplificazioni e le bandiere ideologiche, non sempre le argomentazioni ponderate.

Un paese diviso sulla giustizia

La riforma della giustizia è rimasta l’unica grande bandiera riformatrice del governo ancora in campo. Ma rischia di diventare un terreno di divisione nazionale, proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di consenso largo su un tema fondamentale per il funzionamento dello Stato. L’alternativa, temono in molti, è che a decidere sul futuro della giustizia italiana sia una minoranza politicamente motivata, mentre la maggioranza silenziosa si tiene alla larga dalle urne.


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Via libera al piano carceri: 10.000 detenuti in uscita anticipata e quasi 10.000 nuovi posti entro il 2027

ROMA – Il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo piano carceri, un intervento strutturale e normativo per fronteggiare l’emergenza cronica del sovraffollamento penitenziario. L’obiettivo dichiarato del governo è duplice: ampliare la capienza delle strutture detentive e prevedere forme di detenzione alternativa per alcune categorie di detenuti, in primis tossicodipendenti e alcoldipendenti.

Il piano, presentato dai ministri Carlo Nordio e Matteo Salvini, prevede un investimento complessivo di 758 milioni di euro, di cui 335 già stanziati dal Ministero delle Infrastrutture. Gli interventi consentiranno la realizzazione di 9.696 nuovi posti letto entro il 2027, distribuiti in tre fasi: 1.472 nel 2025, 5.914 nel 2026 e 2.310 nel 2027. A questi potranno aggiungersi ulteriori 5.000 posti nel quinquennio successivo, nel tentativo di colmare un deficit strutturale stimato in almeno 15.000 posti disponibili nei 207 istituti italiani.

Nordio: “No alla liberazione automatica. Ma la detenzione va resa umana”

«Non chiamatelo svuotacarceri», ha precisato il Guardasigilli Nordio in conferenza stampa, respingendo con forza ogni parallelismo con provvedimenti passati di amnistia mascherata. Eppure, il piano prevede comunque una possibile uscita anticipata per circa 10.000 detenuti: si tratta di soggetti prossimi alla fine pena, che abbiano già presentato richiesta di liberazione anticipata e che risultino in possesso dei requisiti previsti dalla legge. Tuttavia, lo stesso Nordio ha evidenziato le criticità degli uffici di sorveglianza, spesso sottodimensionati e non in grado di evadere tempestivamente le istanze.

Il ministro ha ribadito la centralità della funzione rieducativa della pena, ricordando che oltre il 30% dei detenuti è tossicodipendente. Per loro, il piano prevede la possibilità di scontare la pena in comunità terapeutiche, purché non si tratti di autori di reati gravi e solo una volta nell’arco della carriera detentiva. Al momento, le risorse a disposizione permetterebbero di coprire solo 1.000 ingressi in comunità, ma, ha osservato Nordio, “sarei felice di dover aumentare i fondi, vorrebbe dire che possiamo curare più persone”.

Per il ministro, si tratta di una questione morale e civile: “La nostra coscienza si ribella di fronte a condizioni detentive disumane. Non possiamo accettare che la pena equivalga al degrado”.

Nuove strutture, più personale e maggiori diritti

Accanto agli interventi infrastrutturali, il piano prevede anche un nuovo istituto penitenziario: sarà costruito a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, a distanza di 14 anni dall’ultima inaugurazione carceraria. Sul fronte del personale, la premier Giorgia Meloni ha annunciato 1.000 nuove assunzioni nella polizia penitenziaria, ribadendo l’impegno del governo per una giustizia “più equa e credibile”.

Verranno inoltre aumentati i colloqui per i detenuti, che passeranno da uno a sei al mese, e raddoppiate le telefonate mensili per chi sconta pene per reati gravi, da due a quattro. Un segnale, secondo Nordio, della volontà di umanizzare la detenzione senza indebolire la sicurezza.

Meloni: “Adeguiamo le carceri, non i reati”

In serata, la presidente del Consiglio ha rilanciato il messaggio politico del piano: “In passato si è adeguato il numero dei reati alla capienza delle carceri. Noi invece crediamo che uno Stato giusto debba fare il contrario: adeguare le strutture alle esigenze della giustizia. È questo – ha concluso – che garantisce la certezza della pena”.

Le sfide che restano

Nonostante l’entità degli interventi annunciati, molti osservatori sottolineano che il piano non risolverà nel breve termine il problema del sovraffollamento, definito “insostenibile” dallo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La realizzazione dei posti letto richiederà anni e l’effettiva implementazione delle misure alternative dipenderà anche dalla disponibilità delle strutture territoriali.


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