L’oro si fa digitale: Londra scommette sui lingotti come collaterale finanziario

L’oro, da sempre bene rifugio per eccellenza, prova a reinventarsi come strumento finanziario hi-tech. A guidare questa trasformazione è il World Gold Council (Wgc), che ha annunciato per l’inizio del 2026 l’avvio di un progetto pilota destinato a rivoluzionare il mercato: i Pooled Gold Interest (PGI), una nuova forma digitale di lingotto, pensata per agevolarne l’utilizzo come collaterale da parte di banche e istituzioni finanziarie.

La sfida della City di Londra

L’obiettivo è chiaro: difendere il primato della piazza londinese, che resta la più liquida al mondo con scambi per oltre 930 miliardi di dollari, ma che oggi deve fronteggiare la concorrenza crescente di hub alternativi come la Cina e le incertezze legate alle politiche commerciali internazionali. Il Wgc punta quindi a un’infrastruttura innovativa, capace di superare i vincoli normativi che hanno finora limitato l’oro nel ruolo di collaterale, a differenza di titoli di Stato e altri asset classificati “sicuri”.

Dal lingotto alla frazione digitale

Il nodo principale riguarda le dimensioni e la gestione dei tradizionali lingotti da 400 once (oltre 12 chili), poco adatti a operazioni snelle e digitalizzate. Con i PGI, invece, un trust detenuto da banche o istituzioni del settore custodirà oro fisico, che verrà “frazionato” in unità digitali. Queste, pur rimanendo ancorate al metallo sottostante, saranno negoziabili come asset allocati, facilmente trasferibili e più appetibili sul mercato globale.

Effetti sul mercato e sulle banche

Secondo David Tait, ceo del Wgc, l’iniziativa aprirà opportunità enormi per il sistema bancario: “Potranno finalmente inserire l’oro in bilancio come collaterale – anche per obblighi di provvista – e questo significa nuove fonti di profitto”. L’impatto non sarà solo finanziario. Una maggiore domanda di oro allocato potrebbe spingere ulteriormente i prezzi, già raddoppiati negli ultimi tre anni e vicini ai massimi storici di 3.556 dollari l’oncia.

Oltre le criptovalute, un’infrastruttura regolata

Il progetto non riguarda le criptovalute ancorate all’oro, come Tether Gold o Pax Gold, che hanno già superato un miliardo di capitalizzazione. Qui si parla di un’iniziativa istituzionale, regolata e costruita per superare le rigidità di Basilea 3, che oggi penalizza l’oro non allocato considerandolo ad alto rischio.

La nuova frontiera del metallo giallo

Con il programma Gold247, il Wgc ha già introdotto strumenti di tracciabilità basati su blockchain per certificare l’origine dei lingotti. Ora, con i PGI, punta a un salto di qualità: trasformare l’oro in un asset digitale riconosciuto e spendibile nei circuiti finanziari internazionali. Se il progetto decollerà, l’oro non sarà più solo un rifugio nei momenti di crisi, ma una vera e propria infrastruttura silenziosa a sostegno della finanza globale.


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Quando l’IA misura l’ombra: alberi e tecnologia alleati contro il caldo urbano

Le estati sempre più torride hanno trasformato le città europee in trappole di calore. Le ondate registrate negli ultimi anni, con record di temperature e black-out elettrici, hanno riportato con forza al centro del dibattito una domanda cruciale: come raffreddare le metropoli senza peggiorarne le condizioni?

La risposta più immediata sembra essere l’aria condizionata. Ma i climatizzatori, se da un lato garantiscono sollievo, dall’altro rilasciano calore all’esterno, amplificando l’effetto “isola urbana” e creando nuove disuguaglianze: chi può permetterseli vive in ambienti freschi, chi no resta esposto a rischi per la salute, il lavoro e la qualità della vita.

La ricerca sugli alberi “climatizzatori naturali”

Un gruppo di ricercatori del Senseable City Lab del MIT, in collaborazione con università e città come Los Angeles, Amsterdam, Dubai e Boston, ha mappato per la prima volta con precisione l’impatto degli alberi sul microclima urbano. Grazie a modelli basati su intelligenza artificiale, è stato possibile quantificare il raffrescamento prodotto da diverse specie.

I risultati sorprendono: nelle ore più calde della giornata, la temperatura sotto la chioma di alcuni alberi può essere fino a 15 gradi inferiore rispetto alle aree asfaltate e prive di vegetazione. Non tutte le piante hanno però lo stesso effetto. Le palme di Los Angeles, ad esempio, hanno dimostrato un impatto minimo, mentre gli alberi ad alto fusto con chiome ampie e dense risultano i più efficaci. A Dubai, specie autoctone come il neem, resistenti alla siccità, hanno superato in prestazioni gli esemplari importati.

Ombra, traspirazione e pianificazione

Il raffrescamento non dipende solo dall’ombra. Con il processo di evapotraspirazione, gli alberi rilasciano umidità, abbassando la temperatura percepita e migliorando la qualità dell’aria. La collocazione è altrettanto cruciale: piantumazioni lungo strade strette o vicino agli edifici moltiplicano l’effetto refrigerante.

Per i ricercatori, il prossimo passo sarà costruire un vero e proprio “catalogo climatico” delle specie più efficaci, per aiutare urbanisti e amministrazioni a pianificare in modo consapevole il verde urbano.

La città del futuro affonda le radici nel passato

Naturalmente, gli alberi non sono privi di limiti: richiedono manutenzione, acqua, cura. Ma rappresentano un’infrastruttura “silenziosa” che, con investimenti mirati, può ridurre consumi energetici, rendere più vivibili le città e proteggere la salute pubblica.

In un mondo che si riscalda sempre più rapidamente, la soluzione potrebbe dunque non arrivare solo dalla tecnologia, ma dalla natura stessa. Per affrontare il futuro, forse occorre recuperare un’antica consapevolezza: la miglior difesa contro il caldo estremo è già sotto i nostri piedi, e cresce verso il cielo.


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Processo Grillo, il dramma personale del giudice ferma la sentenza

Tempio Pausania si è svegliata aspettando il verdetto sul caso di Ciro Grillo e dei suoi tre amici genovesi, imputati per violenza sessuale di gruppo. Ma in aula, alle 10.20, il silenzio ha preso il posto della pronuncia attesa da mesi: la notizia della morte del figlio ventiduenne di Marco Contu, presidente del collegio giudicante, ha fermato tutto. Una tragedia improvvisa – il giovane è deceduto a Roma, travolto da un treno della metropolitana, in circostanze che la polizia ipotizza come gesto volontario – che ha reso impossibile celebrare l’udienza.

Il dolore e la sospensione

La notizia si è diffusa rapidamente in tribunale, lasciando senza parole magistrati, avvocati e pubblico ministero Gregorio Capasso. A prendere la parola sono stati i giudici a latere, Alessandro Cossu e Marvella Pinna, che hanno spiegato la necessità di trovare una nuova data. In un primo momento si è ipotizzato un rinvio immediato al giorno successivo, anche per consentire a Cossu – prossimo al trasferimento ad Asti – di concludere il processo.

Ma i difensori hanno respinto con fermezza questa ipotesi: “È impensabile che un uomo possa sedere in udienza il giorno dopo aver perso un figlio”, ha detto l’avvocato Alessandro Vaccaro, difensore di Vittorio Lauria. L’aula si è fermata in un clima di rispetto e cordoglio, e la sentenza è stata rinviata al 22 settembre.

La polemica e il caso Csm

Le parole attribuite alla presidente del tribunale, Caterina Interlandi, secondo cui l’udienza si sarebbe potuta celebrare il giorno dopo, hanno sollevato polemiche. Vaccaro ha parlato di “ipotesi inaccettabile”, mentre altri avvocati hanno formalizzato il rifiuto di discutere in una simile condizione. La vicenda è approdata anche al Consiglio superiore della magistratura: il consigliere laico Enrico Aimi ha annunciato la presentazione di una richiesta di apertura di pratica, sottolineando come in gioco ci sia “uno dei requisiti primari che un magistrato deve possedere, l’equilibrio”.

Interlandi, da parte sua, ha respinto le accuse, chiarendo di non essere presente in aula e di non avere mai proposto un rinvio così ravvicinato: “Non faccio parte del collegio e non ho altro da aggiungere. Non cercate polemiche inutili”.

Verso la nuova udienza

Salvo nuovi colpi di scena, il 22 settembre sarà la data della sentenza. In aula non sono attesi gli imputati – Ciro Grillo, Vittorio Lauria, Edoardo Capitta e Francesco Corsiglia – mentre dovrebbe essere presente la giovane donna che li accusa, Silvia, decisa ad assistere alla lettura del verdetto.


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Manovra, la Lega alza la posta: pace fiscale e contributo dalle banche

La legge di bilancio entra nella fase più calda e la Lega prova a imprimere la propria impronta. Le richieste del partito guidato da Matteo Salvini puntano su due fronti principali: una nuova pace fiscale, con la rottamazione definitiva delle cartelle esattoriali, e un contributo straordinario da parte delle banche, da destinare a famiglie e imprese alle prese con inflazione e caro-mutui.

Il progetto, rilanciato nelle ultime ore anche con una nota ufficiale, prevede lo stanziamento di circa 8 miliardi da destinare a interventi di sostegno. “Difesa del reddito delle famiglie e rilancio dell’economia” sono le parole chiave della proposta leghista, che ricalca l’idea già avanzata due anni fa di chiedere un contributo al settore finanziario, oggi tornata d’attualità dopo i risultati migliori del previsto sulle entrate fiscali.

La partita della pace fiscale

Secondo le stime circolate al ministero dell’Economia, la rottamazione delle cartelle potrebbe interessare un numero elevatissimo di contribuenti, alleggerendo un sistema già appesantito da milioni di pendenze. La misura è vista dalla Lega come strumento non solo di equità, ma anche di efficienza amministrativa, con l’obiettivo di chiudere definitivamente pratiche di difficile riscossione.

Il nodo banche

Più delicata la partita sugli istituti di credito. Salvini spinge per una forma di contributo obbligatorio, “non un nuovo fondo NATO”, come precisano fonti leghiste, ma un prelievo mirato destinato direttamente a finanziare misure di sostegno. Un’ipotesi che non piace al mondo bancario, preoccupato per il rischio di nuovi oneri dopo la tassa sugli extraprofitti.

I conti della manovra

Le trattative avvengono mentre i tecnici del Mef lavorano a limare i saldi di bilancio. Le entrate superiori alle attese, circa 13 miliardi, offrono qualche margine, ma i vincoli europei e le spese obbligatorie riducono gli spazi di manovra. La quadra definitiva è attesa entro metà settembre, quando il testo dovrà approdare in Consiglio dei ministri.

Lo sfondo politico: il rebus Veneto

A complicare lo scenario, anche il capitolo interno alla Lega. Matteo Salvini ha definito il governatore del Veneto Luca Zaia “un valore aggiunto” per il partito, tentando di smorzare i contrasti che da tempo agitano il Nord. Zaia, dal canto suo, ha risposto con toni misurati: “Ci incroceremo”. Un messaggio che lascia intendere che il dialogo resta aperto, ma anche che le distanze politiche non sono ancora colmate.

La manovra, dunque, diventa non solo il terreno delle scelte economiche del governo, ma anche un banco di prova per gli equilibri interni della Lega. Con un Salvini intenzionato a intestarsi il pacchetto fiscale, mentre Zaia continua a rappresentare il volto più istituzionale e radicato nei territori del Nord produttivo.


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Divorzio con spunta blu: i messaggi WhatsApp diventano accordi vincolanti

Il diritto di famiglia entra nell’era delle chat. Con una decisione destinata a far discutere (sentenza n. 1620/2025), il tribunale di Catanzaro ha stabilito che un messaggio su WhatsApp può valere come patto prematrimoniale. Niente carta bollata, niente notaio, neppure la firma: basta un pollice che digita e una connessione internet.

Il caso riguarda una coppia separata. L’ex marito, via WhatsApp, si era impegnato a farsi carico interamente del mutuo della casa in cambio della rinuncia della moglie all’assegno di mantenimento. Un accordo informale, privo di timbri ufficiali, che i giudici hanno però ritenuto pienamente valido come “principio di prova scritta”. A rafforzare la decisione è arrivata anche la testimonianza del figlio adolescente, chiamato a confermare la consapevolezza familiare dell’intesa. Risultato: revocato un decreto ingiuntivo da 21mila euro nei confronti dell’uomo.

Dal “semplice indizio” al contratto digitale

Il salto di qualità rispetto al passato è evidente. La Cassazione, con la sentenza n. 1254/2025, aveva già ammesso che i messaggi potessero essere utilizzati come prove documentali, a condizione che fossero riconducibili a un dispositivo preciso, non manipolati e acquisiti tramite screenshot. Ma a Catanzaro la chat non è stata considerata solo una prova: è diventata un vero e proprio contratto.

Un precedente che apre la strada a scenari inediti. Il tribunale di Perugia, poche settimane fa, ha già applicato lo stesso principio ai prestiti privati: un impegno a restituire denaro espresso via chat è stato ritenuto sufficiente per obbligare il debitore al rimborso.

Le perplessità degli esperti

Non mancano però le critiche. “Si rischia di dare forza legale a messaggi rapidi, spesso ambigui, che mancano di chiarezza e struttura”, osservano diversi giuristi. In altre parole, un semplice “ok” potrebbe trasformarsi in un impegno vincolante. Con il pericolo di moltiplicare i contenziosi, visto quanto le conversazioni digitali siano soggette a errori, fraintendimenti e cancellazioni accidentali.

Il diritto liquido

Il fenomeno si inserisce in una trasformazione più ampia del sistema giuridico italiano, sempre più orientato a recepire strumenti e linguaggi digitali. Una “giustizia liquida” che guadagna in velocità e adattabilità, ma che porta con sé fragilità evidenti: la volatilità delle prove digitali, la dipendenza da device e piattaforme, la difficoltà di garantire certezza giuridica in un mondo governato da pixel ed emoji.

Il paradosso è chiaro: oggi, la memoria di uno smartphone può pesare più di una scrittura privata. E nel nuovo diritto 2.0, forse, il consiglio non è più solo “patti chiari, amicizia lunga”, ma anche “screenshot chiari, processo breve”.


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Professioni sotto la lente del Governo: parte la stagione delle riforme

Il Consiglio dei ministri apre ufficialmente il cantiere delle professioni. Sul tavolo di Palazzo Chigi sono attesi oggi quattro disegni di legge che promettono di ridisegnare in profondità il sistema ordinistico italiano: una riforma generale per tutti gli Ordini, un intervento mirato per i commercialisti, uno per l’avvocatura e un quarto pacchetto per le professioni sanitarie. In gioco ci sono regole elettorali, incompatibilità, modalità di accesso e nuove forme di esercizio della professione.

L’ultima riforma organica del settore risale al 2011, con il decreto legge 138 e il Dpr 137 del 2012, che fissarono principi generali su Albi, formazione continua e procedimenti disciplinari. Da allora, però, sono stati solo ritocchi a macchia di leopardo, mentre oltre 1,6 milioni di professionisti attendono da anni un intervento strutturale.

La riforma generale degli Ordini

Il disegno di legge delega predisposto dai ministeri del Lavoro e della Giustizia punta a un riordino complessivo del sistema ordinistico. Tra le ipotesi allo studio anche una revisione delle regole elettorali, con la possibilità che i futuri Consigli siano prorogati in attesa delle nuove norme. L’associazione “Professioni Italiane”, che riunisce 22 Ordini, ha già chiesto al Governo di intervenire su accesso, disciplina e potenziamento della sussidiarietà, ribadendo il ruolo sociale dei professionisti accanto allo Stato.

I commercialisti

La categoria guidata da Elbano de Nuccio spinge da tempo per modificare il Dlgs 139/2005. La riforma riguarderebbe tirocinio (anche retribuito), regole sulle aggregazioni, incompatibilità più flessibili e un nuovo sistema elettorale che darebbe spazio al voto diretto degli iscritti accanto a quello degli Ordini territoriali. Proprio questo punto ha sollevato tensioni interne: l’Associazione nazionale commercialisti (Anc) ha scritto al ministro Nordio chiedendo di sospendere l’iter almeno fino alle elezioni previste per gennaio 2026.

Gli avvocati

Il disegno di legge delega sull’ordinamento forense, elaborato a partire dal testo del Consiglio nazionale forense, intende aggiornare la legge professionale 247 del 2012. Le novità principali riguardano la possibilità di esercitare in forma di rete tra avvocati, in regime di collaborazione continuativa o monocommittenza. Inoltre, verrebbe allentato il regime delle incompatibilità: gli avvocati potrebbero assumere incarichi come amministratori di società di capitali. Una prospettiva che ha diviso la categoria: l’Associazione nazionale forense ha già diffuso una lettera aperta al ministro Nordio chiedendo di ritirare il testo e aprire un confronto con l’intera avvocatura.

Le professioni sanitarie

Il pacchetto dedicato ai sanitari affronta due temi delicati: lo scudo penale per i medici e la riorganizzazione della medicina territoriale. I giovani medici di famiglia, oggi liberi professionisti, potrebbero essere inquadrati come dipendenti, con l’obbligo di prestare alcune ore di servizio nelle case di comunità. Anche in questo caso le resistenze non mancano.

Un percorso in salita

Il condizionale resta d’obbligo: nelle ore precedenti al Consiglio dei ministri il lavoro di limatura è proseguito senza sosta, sotto la pressione di associazioni e sindacati di categoria. Non è quindi scontato che tutti e quattro i testi arrivino in giornata sul tavolo del Governo. Quel che è certo è che il settore delle professioni – fermo a regole di oltre dieci anni fa – è pronto a vivere una nuova stagione di cambiamento, tra attese di modernizzazione e timori di una riforma calata dall’alto.


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Google salva Chrome e Android, ma dovrà aprire i suoi dati ai rivali

Una vittoria a metà per Google e un passo importante per la regolamentazione del digitale negli Stati Uniti. La decisione di un giudice federale di Washington ha infatti respinto la richiesta del governo americano di costringere il gruppo Alphabet – la holding che controlla Google – a cedere il browser Chrome e il sistema operativo Android. Due asset considerati “strategici”, che il Dipartimento di Giustizia voleva separare dall’azienda per limitare il potere monopolistico nel mercato delle ricerche online.

Il giudice Amit Mehta, in una sentenza corposa di 230 pagine, ha riconosciuto che la cessione forzata avrebbe rappresentato una misura sproporzionata, dato che Google non avrebbe usato queste piattaforme per pratiche illegali di restrizione del mercato. Tuttavia, la sentenza introduce vincoli significativi: Mountain View non potrà più siglare accordi di esclusiva per la distribuzione dei propri servizi chiave – dalla ricerca web fino all’intelligenza artificiale di Gemini – e sarà obbligata a condividere parte dei dati del proprio motore di ricerca con i concorrenti.

In concreto, Google dovrà mettere a disposizione di aziende rivali come Microsoft (con Bing), DuckDuckGo e persino realtà emergenti dell’AI come OpenAI porzioni del suo indice di ricerca e informazioni sulle interazioni degli utenti. L’obiettivo: favorire la concorrenza e sostenere lo sviluppo di prodotti alternativi in un settore che rischia di restare troppo concentrato nelle mani di un unico attore.

La sentenza non vieta invece a Google di continuare a pagare colossi come Apple o Mozilla per mantenere i propri servizi preinstallati su iPhone e Firefox. Proprio i documenti processuali hanno svelato che la partnership con Cupertino vale miliardi di dollari l’anno, mentre per Mozilla i ricavi legati a Google rappresentano la principale fonte di sostentamento.

Rispetto al modello europeo, che obbliga gli utenti a scegliere il motore di ricerca preferito sui nuovi dispositivi, il giudice americano ha preferito una soluzione meno invasiva. Ma le implicazioni restano rilevanti: si tratta infatti del primo passo concreto dopo la sentenza del 2024 che aveva accertato il monopolio di Google nella ricerca online.

Non sorprende che i mercati abbiano reagito con entusiasmo: le azioni di Alphabet sono balzate del 7% nelle contrattazioni after-hours, mentre anche Apple ha guadagnato il 3%. Una conferma che, almeno per ora, Google ha evitato lo scenario peggiore.


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La deontologia forense si estende alla mediazione: il nuovo Codice degli avvocati tutela l’indipendenza e la correttezza professionale

ROMA – Il Consiglio Nazionale Forense ha aggiornato il Codice deontologico degli avvocati, estendendo le norme di comportamento professionale anche a tutti i procedimenti alternativi al processo. Le modifiche, approvate il 21 marzo 2024 e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale lo scorso 1° settembre, rappresentano un passo importante per adeguare la professione forense ai nuovi strumenti di risoluzione delle controversie.

Doveri professionali oltre l’aula di tribunale

Il principale cambiamento riguarda il Titolo IV del Codice, che da “Doveri dell’avvocato nel processo” diventa “Doveri dell’avvocato nel processo e nei procedimenti di risoluzione alternativa e complementare delle controversie”. Questa riformulazione sottolinea l’importanza della correttezza professionale anche in ambiti come la mediazione e l’arbitrato.

Le modifiche toccano sette articoli (48, 50, 51, 56, 61, 62, 62-bis), introducendo regole più severe e precise per garantire l’indipendenza e la lealtà degli avvocati in ogni fase del loro operato.

Le novità nel dettaglio: minore, arbitrato e negoziazione

Una delle novità più significative riguarda l’articolo 56, relativo all’ascolto del minore. La norma aggiornata stabilisce che l’ascolto è possibile solo se l’avvocato è stato nominato curatore speciale del minore, garantendo così una maggiore tutela e una figura di riferimento specifica.

Importanti modifiche sono state apportate anche all’articolo 61, che disciplina l’arbitrato. Il divieto di accettare la nomina ad arbitro in presenza di un conflitto di interessi, già previsto per i professionisti soci o associati, viene ora esteso a tutti i colleghi con cui si collabora in maniera non occasionale. Questa estensione, che include anche i rapporti professionali con le parti in causa, ha lo scopo di prevenire potenziali conflitti di interesse e di rafforzare l’imparzialità degli arbitri. A ciò si aggiunge l’obbligo per l’avvocato, in veste di arbitro, di rendere “con chiarezza e lealtà le dichiarazioni” previste dal Codice di procedura civile.

Infine, il nuovo articolo 62-bis estende specifici obblighi deontologici anche alla negoziazione assistita, ribadendo l’importanza dei doveri di lealtà e riservatezza.


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Giustizia, Pnrr e corsa contro il tempo: 500 giudici da remoto per smaltire l’arretrato civile

ROMA – La giustizia si prepara a una vera e propria rivoluzione “virtuale” per onorare gli impegni presi con l’Unione Europea nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). Il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) ha approvato una serie di delibere che segnano l’avvio di un’operazione complessa e ambiziosa: l’assegnazione di 500 magistrati “da remoto” per smaltire l’arretrato civile e ridurre la durata dei processi, con una scadenza fissata al 30 giugno 2026.

Le due velocità della giustizia 

La fotografia scattata dal CSM, come emerge dall’ordine del giorno del Plenum, rivela un Paese profondamente diviso. L’analisi mostra che le aree più critiche, le cosiddette “zone rosse”, si concentrano quasi esclusivamente nel Sud e nelle Isole. Tra i tribunali di primo grado, ben 38 sedi sono in piena emergenza, rappresentando il 50% in più rispetto a quelli che hanno già raggiunto o si avvicinano agli obiettivi. La situazione è particolarmente allarmante a Cagliari, Campobasso, Catanzaro, Firenze, Palermo, Potenza, Reggio Calabria e Taranto, che avranno la massima priorità nelle assegnazioni.

Al contrario, alcune corti d’Appello come Ancona, Bari, Genova, L’Aquila e Venezia hanno già superato i target, riducendo l’arretrato del 60% rispetto al periodo 2018-2022 e la durata dei processi del 40% rispetto al 2019. Anche le corti di Trieste, Milano e Trento mostrano performance virtuose, mantenendo il cosiddetto Disposition Time (la durata media di un processo) al di sotto di un anno.

Una chiamata alle armi per 500 toghe

Il piano del CSM si basa su un principio di volontariato e flessibilità. L’interpello si rivolge all’intera magistratura ordinaria, chiedendo ai giudici di rendersi disponibili per la gestione da remoto di un minimo di 50 fascicoli pro capite. Si stima che l’operazione possa portare allo smaltimento di 25mila fascicoli in meno di 300 giorni.

La sfida è notevole, soprattutto considerando che la platea dei potenziali candidati è di circa 2.609 magistrati, il che significa che circa un giudice su cinque dovrebbe farsi carico di un carico di lavoro aggiuntivo proveniente da altri distretti. La richiesta è estesa anche ai magistrati con incarichi direttivi, semi-direttivi o a quelli che operano nel settore penale, purché abbiano un’esperienza pregressa nel civile.

L’interpello si aprirà il 4 settembre e si chiuderà l’8 settembre, con l’applicazione effettiva che durerà fino alla scadenza del Pnrr, il 30 giugno 2026. La distribuzione delle toghe “virtuali” sarà guidata dai dati sulle necessità più urgenti: Napoli ne riceverà 67, Venezia 66 e Bologna 24, a riprova di come le assegnazioni siano mirate a compensare le carenze maggiori.


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Condomini, telecamere abusive nel mirino: l’amministratore ha l’obbligo di intervenire

ROMA – Un tema che genera da sempre tensioni nei condomini trova finalmente una risposta chiara da parte della giurisprudenza e dell’Autorità Garante della Privacy. L’installazione di telecamere di videosorveglianza senza l’approvazione assembleare non è solo un abuso, ma un illecito con pesanti conseguenze legali. E la responsabilità di intervenire ricade in maniera diretta sull’amministratore, che non può più limitarsi a prendere le distanze dal problema.

Le regole chiare della videosorveglianza condominiale

La legge non lascia spazio a interpretazioni: l’articolo 1122-ter del Codice civile stabilisce che l’installazione di un impianto di videosorveglianza su parti comuni di un edificio richiede una delibera assembleare approvata con la maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio. Qualsiasi impianto installato unilateralmente da un singolo condomino, quindi, è automaticamente fuori legge.

Dal punto di vista della privacy, le implicazioni sono ancora più serie. Le immagini riprese da un sistema non autorizzato rappresentano un trattamento illecito di dati personali. Mancano tutti i requisiti fondamentali: l’individuazione di un titolare del trattamento, un’informativa chiara, una valutazione d’impatto e una valida base giuridica per la raccolta delle immagini.

I doveri dell’amministratore e le conseguenze della negligenza

Fino a poco tempo fa, molti amministratori tendevano a disinteressarsi del problema, dichiarandosi estranei agli impianti abusivi. Ora, il Garante della Privacy e la giurisprudenza, come nel caso della recente sentenza 3445/2025 del Tribunale di Milano, hanno messo un punto fermo: l’amministratore ha il preciso dovere di agire tempestivamente per tutelare la riservatezza e i diritti dei condomini.

La mancata azione non solo lo espone a pesanti sanzioni pecuniarie da parte del Garante, ma può anche comportare una responsabilità personale diretta per eventuali danni causati. Inoltre, un comportamento passivo può essere considerato una “grave negligenza”, un motivo sufficiente per la revoca dall’incarico.

A riprova di questa linea dura, si ricorda un provvedimento del Garante risalente al dicembre 2022, in cui un condominio è stato sanzionato proprio per non aver regolarizzato un impianto installato abusivamente da alcuni residenti.


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