Corte Ue: tetto del 4% sulle provvigioni immobiliari legittimo, ma con limiti

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che il diritto comunitario non impedisce agli Stati di fissare un tetto massimo del 4% sulle provvigioni delle agenzie immobiliari. Tuttavia, tale misura deve essere giustificata da motivi di interesse generale e non devono esistere alternative meno restrittive per ottenere lo stesso risultato.

La sentenza nasce da un caso sloveno in cui la legge nazionale limita le commissioni al 4% del prezzo di vendita o di locazione, con un massimo pari a una mensilità d’affitto. La Corte costituzionale slovena, dubbiosa sulla conformità della norma alla direttiva Ue sui servizi, ha chiesto un parere ai giudici di Lussemburgo.

Secondo la Corte Ue, la misura non è discriminatoria e può favorire l’accessibilità agli alloggi e la trasparenza dei prezzi, proteggendo i consumatori, specialmente quelli più vulnerabili. Ora spetterà alla Corte costituzionale slovena verificare se il limite imposto sia effettivamente necessario o se esistano soluzioni meno restrittive.


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Notifica via PEC fallita: il tribunale deve ripeterla se la causa è ignota

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8361 depositata il 28 febbraio 2025, ha stabilito che in caso di notifica via PEC non andata a buon fine per cause sconosciute, il tribunale deve procedere a un nuovo invio. La decisione, che accoglie il ricorso di un uomo condannato per stalking, ribadisce la tutela del diritto di difesa rispetto alla sola efficienza del processo.

Secondo la V Sezione penale, la notifica dell’avviso di udienza al difensore dell’imputato, se non consegnata per motivi incerti, non può ritenersi valida. La giurisprudenza ha già chiarito che il difensore è responsabile della gestione della propria PEC, ma nel caso in cui la mancata consegna non sia riconducibile né al destinatario né alla cancelleria, la notifica si considera non avvenuta.

Richiamando la Corte Costituzionale (sent. n. 111/2022), la Cassazione sottolinea che il diritto di difesa dell’imputato prevale sulla celerità del processo. Per questo, in assenza di una causa chiara per il mancato recapito, la cancelleria dovrà rinnovare la notifica, sfruttando proprio l’agilità dello strumento telematico.


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Le microimprese pagano l’energia il 165% in più delle grandi aziende

Le microimprese – che costituiscono il 95 per cento del totale delle attività economiche presenti nel Paese in cui è impiegato, al netto del pubblico impiego, il 42 per cento circa degli addetti – nel primo semestre del 2024 hanno pagato l’energia elettrica oltre due volte e mezzo in più delle grandi imprese (pari al +164,7 per cento). Se agli artigiani, ai piccoli commercianti e alle piccolissime imprese con consumi inferiori ai 20 MWh all’anno il costo ha raggiunto, al netto dell’Iva, i 348,3 euro al MWh, le grandi imprese, con consumi che oscillano tra i 70mila e i 150mila MWh all’anno, hanno pagato “solo” 131,6 euro al MWh. A denunciarlo è l’Ufficio studi della CGIA.

  • Abbiamo le bollette della luce più care dell’Eurozona

A differenza degli altri Paesi dell’Area dell’Euro, il prezzo dell’energia elettrica in capo alle nostre microimprese è il più alto di tutti. Se in Italia nel primo semestre del 2024 il costo in euro per MWh era di 348,3, la media dei 20 paesi monitorati dall’Eurostat ha toccato i 294 euro per l’Italia è il 18,5 per cento in più).   Tra i nostri principali competitor, ad esempio, il costo per le piccolissime imprese è superiore a quello  tedesco del 5,8 per cento, al francese del 38 per cento e allo spagnolo del 43,2 per cento.

  • In tutta UE le micro pagano molto di più delle big company

La disparità di prezzo che viene applicata tra le micro e le grandi imprese non è una “distorsione” solo italiana. Anche nel resto d’Europa le differenze di costo premiano i grandi a discapito dei piccoli. Se, come dicevamo più sopra, da noi le microimprese pagano l’energia elettrica il 164,7 per cento in più rispetto alle big company, in Germania il differenziale è del +136,2 per cento, in Spagna del quasi +200 per cento e in Francia del +242 per cento. Detto ciò, va segnalato che rispetto ai nostri principali concorrenti, da noi il peso economico/occupazionale delle micro imprese è talmente elevato da non avere eguali nel resto d’Europa.

  • Perché in Italia i piccoli sono più penalizzati

 

In merito alle tariffe dell’energia elettrica, ad aver aumentato lo storico differenziale tra piccole e grandi imprese ha contribuito l’entrata in vigore nel 2018 della riforma degli energivori. L’effetto prodotto da questa novità legislativa, che prevede un costo agevolato dell’energia elettrica per le grandi industrie, di fatto ha ridotto notevolmente a queste ultime la voce “tasse e oneri”, ridistribuendone il carico a tutte le altre categorie di imprese escluse dalle agevolazioni.  E’ altresì vero che, a seguito delle misure messe in campo successivamente dal Governo Draghi, questo gap si è ridotto. Va altresì ricordato che nel mercato libero le offerte di prezzo possono interessare solo la componente energia; le altre voci di spesa – come le spese di trasporto, gli oneri di sistema, la gestione del contatore etc. – sono stabilite periodicamente dall’Autorità per l’Energia e sono uguali per tutti i fornitori.

  • Incidono le tasse e gli oneri

Rispetto agli altri paesi europei, ad appesantire le nostre bollette della luce sono, in particolare, il peso delle tasse e degli oneri che da noi incide, sul costo al MWh, per il 18,4 per cento, contro il 14,7 in Germania, l’8,5 per cento in Spagna e il 3,5 in Francia. L’incidenza media presente nell’Eurozona è del 9,6, poco meno della metà della quota presente in Italia. Se invece la comparazione la facciamo tra piccolissime e grandi imprese italiane, con il costo totale dell’energia elettrica pari a 100, l’incidenza delle tasse/oneri e anche dei costi di rete[5] in capo alle micro è tre volte superiore a quella riconducibile alle grandi realtà produttive.

  • Nel 2024 prezzi del gas e dell’energia in calo, ma in ripresa nel 2025

Rispetto ai dati medi registrati nel 2023, l’anno scorso sia il prezzo del gas (-13,8 per cento) sia quello dell’energia elettrica (-14,6 per cento) hanno subito una sensibile contrazione. Tuttavia, a partire dagli ultimi mesi del 2024 sino ad oggi, i prezzi sono tornati a salire costantemente; la media dei primi 25 giorni di questo mese ci segnalano che il costo medio del gas naturale ha toccato i 54 euro per MWh, mentre quello dell’energia ha raggiunto i 152 euro per MWh. Se confrontiamo questi dati con quelli relativi allo stesso mese del 2024, il primo è cresciuto del +93 per cento, il secondo del +73 per cento. Certo, nulla a che vedere con i picchi massimi toccati ad agosto del 2022 quando il gas raggiunse i 233 euro e l’energia elettrica i 543 euro.

  • Oltre 5 milioni di italiani in povertà energetica (PE). La metà è al Sud

Sono quasi 2,4 milioni le famiglie italiane in povertà energetica (PE). Stiamo parlando di 5,3 milioni di persone che nel 2023 vivevano in abitazioni poco salubri, scarsamente riscaldate d’inverno, poco raffrescate d’estate, con livelli di illuminazione scadenti e con un utilizzo molto contenuto dei principali elettrodomestici bianchi[6]. I nuclei familiari più a rischio sono costituiti da un elevato numero di persone, che si trovano in condizioni di disagio economico e le abitazioni in cui vivono sono in cattivo stato di conservazione. A livello territoriale la situazione più critica si verifica in Calabria, dove il 19,1 per cento delle famiglie, composte da quasi 349mila persone, si trovava in condizioni di PE. Seguono la Basilicata (17,8 per cento) il Molise (17,6 per cento), la Puglia (17,4 per cento) e la Sicilia (14,2 per cento). Le regioni, invece, meno interessate da questo fenomeno sono il Lazio (5,8 per cento del totale delle famiglie), Friuli Venezia Giulia (5,6 per cento) e, in particolare, Umbria e Marche (entrambe con il 4,9 per cento). Due anni fa, il dato medio nazionale era pari al 9 per cento. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA che ha elaborato i dati estrapolati dal Rapporto OIPE 2023.

  • Identikit del capofamiglia in PE: disoccupato, pensionato o autonomo

Le principali condizioni professionali del capofamiglia che si trova in PE sono, in linea di massima, tre: disoccupato, pensionato solo e in molti casi, sottolinea la CGIA, quando lavora lo fa come autonomo. Va infine sottolineato che i nuclei più a rischio PE, soprattutto nel Sud, sono quelli che utilizzano il gas quale principale fonte di riscaldamento. Coloro che invece utilizzano altri combustibili (bombole a gas, pellet, gasolio, legna, kerosene, etc.), presentano valori percentuali di rischio più contenuti.


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Social scoring: stop dall’AI Act per banche e assicurazioni

La Commissione Europea ha pubblicato il 4 febbraio scorso le Linee Guida per garantire la conformità all’articolo 5 del Regolamento AI Act, che vieta specifiche pratiche nell’uso dei sistemi di intelligenza artificiale. Tra queste, spicca il divieto di social scoring, ossia l’uso di algoritmi che valutano gli individui in base a caratteristiche personali o comportamenti sociali.

Il social scoring, noto per la sua applicazione controversa in alcuni Paesi, viene bandito nell’UE quando porta a trattamenti discriminatori o sproporzionati. Questo divieto riguarda anche banche e assicurazioni, che potrebbero essere tentate di utilizzare tali sistemi per valutare l’affidabilità creditizia o i premi assicurativi.

L’AI Act punta a prevenire l’uso improprio di questi sistemi, tutelando i cittadini da decisioni basate su valutazioni algoritmiche che potrebbero penalizzarli ingiustamente. Le Linee Guida dell’UE, sebbene non vincolanti, rappresentano un importante punto di riferimento per l’interpretazione della norma e preparano il terreno per futuri sviluppi giurisprudenziali in materia di intelligenza artificiale.

Questo provvedimento si inserisce in un contesto normativo più ampio che mira a regolamentare l’uso dell’AI in settori sensibili, evitando che tecnologie avanzate possano ledere diritti fondamentali o rafforzare disuguaglianze sociali.

Le nuove disposizioni sottolineano la necessità per le imprese di adeguarsi alle norme europee per evitare sanzioni e proteggere la fiducia dei consumatori.


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Ispezioni antiriciclaggio nel mirino della CEDU

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha emesso una sentenza destinata a fare storia in materia di antiriciclaggio, mettendo in discussione le modalità di ispezione della Guardia di Finanza. La decisione, resa nota il 6 febbraio scorso, evidenzia criticità nelle procedure ispettive adottate dalle autorità italiane, ritenute in contrasto con i principi fondamentali della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Il caso

Al centro della vicenda giudiziaria vi è l’operato della Guardia di Finanza nelle ispezioni fiscali condotte presso sedi aziendali e professionali. La Corte ha censurato l’eccessiva discrezionalità concessa dalle normative italiane (in particolare dall’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 e dall’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973), che permette alle autorità di accedere e sequestrare documentazione contabile senza adeguate garanzie procedurali.

La Corte ha rilevato l’assenza di un controllo giudiziario effettivo, sia preventivo che successivo, su tali operazioni, violando così l’articolo 8 della CEDU, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, anche nei luoghi di lavoro. Questa mancanza di tutele ha portato la Corte a dichiarare inadeguato il quadro giuridico italiano, evidenziando il rischio di abusi o arbitrarietà da parte delle autorità fiscali.

L’impatto sulla normativa antiriciclaggio

La sentenza non si limita alle ispezioni fiscali, ma ha implicazioni dirette anche sul settore antiriciclaggio. Infatti, le modalità operative della Guardia di Finanza in materia antiriciclaggio si basano proprio sull’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, richiamato dall’art. 9 del D.lgs. n. 231/2007. Questo collegamento normativo impone un adeguamento delle procedure ispettive, affinché rispettino i principi di legalità, proporzionalità e giusto processo sanciti dalla CEDU.

I principi violati e le conseguenze

Secondo la Corte di Strasburgo, la normativa italiana non garantisce sufficienti tutele procedurali per le ispezioni antiriciclaggio, in quanto:

  • La legge risulta poco chiara e accessibile, violando il principio di determinatezza (art. 7 CEDU);
  • Le autorità fiscali godono di un potere discrezionale illimitato, in contrasto con lo stato di diritto;
  • Manca un effettivo riesame giudiziario delle ispezioni, rendendo la difesa dei soggetti ispezionati inefficace.

Queste criticità rischiano di esporre l’Italia a ulteriori sanzioni internazionali se non si adotteranno correttivi normativi adeguati.

Un monito per il legislatore italiano

La sentenza rappresenta un chiaro monito per il legislatore italiano: le modalità di accertamento delle violazioni antiriciclaggio devono essere riviste per garantire il rispetto dei diritti umani, dalla presunzione di innocenza al giusto procedimento (art. 6 CEDU). In caso contrario, le ispezioni della Guardia di Finanza potrebbero continuare a violare il diritto sovranazionale, con conseguenti ripercussioni legali ed economiche per l’Italia.

La pronuncia della Corte Europea apre quindi a un necessario ripensamento dell’intero impianto normativo e operativo delle ispezioni antiriciclaggio, affinché siano rispettati i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU.


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Delaware: niente fair use per l’AI che si allena con dati protetti da copyright

La Corte distrettuale del Delaware ha recentemente emesso una sentenza destinata a far discutere nel mondo della tecnologia e della proprietà intellettuale. Nel caso che ha visto contrapposti il Thomson Reuters Centre GmbH e West Publishing Corp. contro Ross Intelligence Inc., il Giudice Bibas ha stabilito che Ross Intelligence ha violato il copyright di Thomson Reuters, respingendo la difesa basata sul fair use.

Il nodo della questione: come si allena un’Intelligenza Artificiale?

Le intelligenze artificiali necessitano di enormi quantità di dati per essere addestrate. In questo contesto, il text and data mining (TDM) gioca un ruolo cruciale, poiché consente l’estrazione di contenuti da opere creative preesistenti per creare copie a scopo di training. Tuttavia, questo processo solleva questioni spinose riguardo alle potenziali violazioni del diritto d’autore.

Fair use: perché non si applica in questo caso?

Negli Stati Uniti, la dottrina del fair use consente l’utilizzo di opere protette da copyright per scopi specifici, come l’insegnamento e la ricerca, senza necessità di autorizzazione da parte del titolare dei diritti. Tuttavia, nel caso del Delaware, il giudice ha escluso l’applicabilità del fair use poiché Ross Intelligence ha utilizzato il database di Westlaw per addestrare la propria intelligenza artificiale, competendo così direttamente con il prodotto di Thomson Reuters.

L’approccio europeo e le implicazioni globali

Diversamente dagli Stati Uniti, l’Unione Europea disciplina il text and data mining attraverso la Direttiva Copyright (n. 790/2019), che prevede eccezioni specifiche al diritto d’autore per consentire operazioni di TDM in contesti di ricerca e innovazione. Questa differenza normativa potrebbe spingere le aziende tecnologiche a rivalutare le proprie strategie globali di sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Quale futuro per l’AI?

La sentenza del Delaware potrebbe avere conseguenze significative sull’evoluzione del settore AI, soprattutto per le aziende che si affidano al TDM per addestrare i propri algoritmi. La necessità di ottenere licenze dai titolari dei diritti d’autore potrebbe rallentare lo sviluppo tecnologico o aumentarne i costi.

Questa decisione segna un punto di svolta nella giurisprudenza americana sul rapporto tra copyright e intelligenza artificiale, ponendo un interrogativo cruciale: fino a che punto sarà possibile allenare l’AI utilizzando dati protetti da copyright?


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Sciopero dei magistrati: mobilitazioni in tutta Italia “Contro la riforma e a difesa della Costituzione”

Manifestazioni, flash mob e assemblee pubbliche in tutta Italia: i magistrati hanno scioperato oggi contro la riforma della giustizia, proclamando un’astensione “a difesa della Costituzione” e contro la separazione delle carriere. L’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), promotrice dello sciopero, ha registrato un’adesione vicina all’80%, con picchi del 90% al Tribunale di Milano e dell’86,5% alla Procura di Torino.

Le ragioni dello sciopero

La protesta nasce dal dissenso verso la riforma costituzionale che prevede la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, oltre all’istituzione di un’Alta Corte. Secondo l’Anm, queste modifiche metterebbero a rischio l’indipendenza della magistratura e l’equilibrio dei poteri, violando i principi costituzionali.

In tutta Italia, i magistrati hanno organizzato eventi per sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli della riforma. A Roma, circa un centinaio di togati, con coccarde tricolori e Costituzione alla mano, si sono riuniti sulla scalinata della Corte di Cassazione per un flash mob. A Bologna, la protesta si è svolta davanti al Tribunale di via Farini, con magistrati che hanno ricordato l’importanza dell’indipendenza giudiziaria citando eventi storici come la strage di via d’Amelio.

L’apertura del Governo

Parallelamente allo sciopero, il Governo ha tenuto un vertice a Palazzo Chigi con il ministro della Giustizia Carlo Nordio, i vicepremier Tajani e Salvini, e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Da questo incontro è emersa un’apertura su due punti critici della riforma: il sorteggio temperato per il Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) e la riserva delle quote rosa. Il sorteggio potrebbe riguardare i membri laici, i togati o entrambe le componenti del Csm. La premier Meloni incontrerà l’Anm e l’Unione delle Camere Penali il prossimo 5 marzo per ulteriori confronti.

Le posizioni politiche

Sul fronte politico, il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, ha criticato duramente lo sciopero, definendolo “dal sapore eversivo” e affermando che “non bloccherà il cammino della democrazia”. Gasparri ha ribadito la volontà del Governo di proseguire con la riforma per garantire la separazione dei poteri e la certezza della pena, accusando i magistrati di voler ostacolare il processo democratico.

Di parere diverso il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, che si è dichiarato favorevole al sorteggio dei componenti del Csm, purché venga applicato in modo equilibrato e trasparente. Secondo Gratteri, questa misura potrebbe garantire maggiore imparzialità nella gestione della magistratura.

Mobilitazioni in tutta Italia

Le manifestazioni si sono svolte in molte città italiane:

  • Roma: Assemblea pubblica al Cinema Adriano e flash mob sulla scalinata della Corte di Cassazione.
  • Milano: Adesione quasi all’80% allo sciopero, con flash mob e incontri con i cittadini per spiegare i rischi della riforma.
  • Torino: Assemblea pubblica seguita dalla lettura di articoli della Costituzione in un flash mob al Palazzo di Giustizia.
  • Napoli: Oltre il 75% di adesione allo sciopero e incontri pubblici per sensibilizzare sull’importanza dell’indipendenza della magistratura.
  • Bologna: Manifestazione all’ingresso del Tribunale di via Farini, con magistrati che hanno evidenziato i rischi della riforma per le garanzie costituzionali.

Il ruolo del Csm

I consiglieri togati del Consiglio Superiore della Magistratura hanno espresso solidarietà alle ragioni dello sciopero, sottolineando che la protesta non riguarda interessi di categoria, ma la tutela dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario.

Prossimi sviluppi

Il confronto politico proseguirà nelle prossime settimane, con l’incontro programmato tra la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e le rappresentanze della magistratura. L’Anm continuerà a mobilitarsi per difendere l’indipendenza giudiziaria e i principi costituzionali, mentre il Governo intende andare avanti con la riforma per garantire l’efficienza del sistema giustizia e la separazione dei poteri.


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Spese di giustizia in aumento: gratuito patrocinio, intercettazioni e legge Pinto pesano sul bilancio

Nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2025, il Ministero della Giustizia ha presentato la Relazione annuale, rivelando cifre preoccupanti sui capitoli di spesa legati al gratuito patrocinio, alle intercettazioni e ai pagamenti previsti dalla legge Pinto.

Gratuito patrocinio: spese in costante aumento

Uno dei dati più significativi riguarda le spese per i difensori di soggetti ammessi al gratuito patrocinio, che nel 2023 hanno raggiunto i 493 milioni di euro, confermando un trend in crescita costante. Dal 2015, quando il costo annuo era di 215 milioni di euro, la cifra è più che raddoppiata.

Questa voce di spesa comprende anche i pagamenti per consulenti, periti, traduttori, custodi, giudici popolari, testimoni e trasferte per atti processuali. L’Organismo Congressuale Forense (OCF) ha recentemente chiesto al Ministero di separare la spesa per il gratuito patrocinio da tutte le altre voci, a causa dei ritardi nei pagamenti che si accumulano soprattutto nell’ultimo quadrimestre dell’anno.

Intercettazioni: costi in crescita dopo anni di calo

Anche le spese per le intercettazioni sono aumentate, passando dai 203 milioni di euro nel 2021 ai 239 milioni di euro nel 2023. Un dato che segna un’inversione di tendenza rispetto al decennio precedente, durante il quale i costi si erano ridotti progressivamente (dai 300 milioni del 2010 ai 200 milioni del 2019).

Legge Pinto: un debito che pesa sui conti pubblici

Ancora più complessa è la situazione dei pagamenti previsti dalla legge Pinto per l’eccessiva durata dei processi. A fine 2023, il debito arretrato ammontava a 403 milioni di euro. Nonostante l’implementazione del sistema informatico Siamm Pinto Digitale, volto a velocizzare le liquidazioni, i ritardi accumulati negli anni hanno portato a numerose azioni esecutive contro l’Amministrazione, con un aumento di spese e interessi passivi.

Per affrontare questa situazione, il Ministero ha annunciato il piano straordinario “PINTOPAGA”, con l’obiettivo di azzerare il debito nel corso del 2025.

Un bilancio da ripensare

Il Ministero della Giustizia ha sottolineato che non ha margine di intervento diretto su queste spese, rimandando al legislatore eventuali modifiche normative per ottenere risparmi. L’elevato impatto finanziario delle voci di spesa analizzate evidenzia l’urgenza di una riforma strutturale, necessaria per garantire la sostenibilità economica del sistema giudiziario italiano.


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Incontro Meloni – ANM, COA Roma: “Partecipino anche gli avvocati”

L’incontro fra i rappresentanti dell’ANM e la Premier Giorgia Meloni è fissato per il 5 marzo. Sul tavolo del confronto il tema ormai noto della separazione delle carriere fra giudici e pm,  contenuto nel disegno di legge costituzionale C.1917,  “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”.

“Appare evidente già dal titolo del disegno di legge un elemento che sembra essere stato completamente trascurato – commenta il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, Paolo Nesta – qui si parla di giurisdizione e di riforma della Giustizia, un tema sul quale anche gli Avvocati devono essere ascoltati”.

Di qui la proposta di Paolo Nesta, che guida l’Ordine forense più grande d’Italia, rivolta tanto all’interlocutore politico, quanto a quello giudiziario: “Sarebbe utile che all’incontro fossero presenti anche i rappresentanti dell’Avvocatura – penso ai vertici dell’OCF, che è organo di rappresentanza politica degli Avvocati – perché se è vero che giurisdizione è amministrazione della Giustizia, è altrettanto vero che nel nostro sistema costituzionale non esiste giurisdizione senza la presenza di un difensore”.

La proposta di Nesta arriva nel giorno dello sciopero del Magistrati in tutta Italia. “Leggo che ci saranno iniziative ed eventi in tutti i distretti d’Italia aperti alla società civile – conclude Nesta – E allora, quale segno migliore di apertura se non quello di accettare l’offerta di dialogo? Siano i Magistrati a chiedere che l’incontro a due diventi un incontro a tre: Politica, Magistratura e Avvocatura. Qualcosa di diritto la sappiamo anche noi Avvocati”.


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La questione (n. 4850/2025) è nata da segnalazioni presentate al Consiglio dell’Ordine di Civitavecchia da due avvocati, uno del foro di Brescia e l’altro di Firenze, che lamentavano il mancato pagamento del compenso per l’attività svolta come difensori domiciliatari.
Nel primo caso, il pagamento era stato tentato con un assegno risultato insoluto, ma l’azione disciplinare è stata dichiarata prescritta poiché erano trascorsi i sette anni e mezzo previsti dalla legge.

Nel secondo caso, l’avvocato non aveva ricevuto alcun pagamento. La Suprema Corte ha ricordato che l’articolo 43 del Nuovo Codice Deontologico Forense prevede che il dominus, ovvero l’avvocato che incarica un collega di esercitare funzioni di rappresentanza o assistenza, è tenuto a compensarlo se il cliente non lo fa. La violazione di questo obbligo comporta la sanzione della censura.
La Cassazione ha sottolineato come questa disposizione tuteli il rapporto di colleganza e promuova i principi di lealtà e correttezza professionale. Ha inoltre chiarito che l’illecito deontologico può essere considerato “permanente” fino a quando non viene sanata la situazione debitoria.

Conflitto di interessi: sospeso l’avvocato che ha difeso l’ex marito dopo aver assistito la coppia

Nell’ordinanza n. 4844/2025, la Corte di Cassazione ha confermato la sospensione per un anno di un avvocato accusato di conflitto di interessi. Il procedimento disciplinare era stato avviato dopo l’esposto di una donna che aveva scoperto che l’avvocato, che in passato aveva assistito lei e l’ex marito nella separazione, aveva poi assunto la difesa dell’ex coniuge contro di lei.
La Suprema Corte ha ricordato che il Codice Deontologico vieta all’avvocato di accettare incarichi contro una parte già assistita quando l’oggetto del nuovo incarico non è estraneo a quello precedentemente trattato. È altresì vietato utilizzare le informazioni acquisite in precedenza in controversie successive tra gli stessi soggetti.

In primo grado, il Consiglio Nazionale Forense (Cnf) aveva ridotto la sanzione di tre mesi considerando le circostanze attenuanti, come la successiva rinuncia ai mandati e l’assenza di precedenti disciplinari. Tuttavia, la Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la sospensione annuale in considerazione della gravità dell’illecito.


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