Anomalie Servizi PCT – Consultazione

Si comunica che a causa di anomalie da parte del Sistema Ministeriale (non di Servicematica), si stanno verificando delle interruzioni temporanee nei sistemi di consultazione dei fascicoli telematici.

Consigliamo di ripetere l’operazione in un secondo momento, se non dovesse andare a buon fine.

Non ci sono comunicazioni da parte del Ministero sulle tempistiche di risoluzione del problema.

Ricordiamo che sarà possibile depositare telematicamente con Service1 seguendo l’apposita guida al seguente link LINK GUIDE


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PagoPA, la piattaforma che agevola le PA ma complica la vita ai cittadini

Doveva essere lo strumento capace di modernizzare i pagamenti verso la Pubblica Amministrazione e garantire tracciabilità, sicurezza e trasparenza. Invece, a distanza di anni dalla sua introduzione obbligatoria, il sistema PagoPA continua a mostrare criticità e lacune che rischiano di scaricare disagi e costi sulle spalle dei cittadini.

A denunciare la situazione è chi quotidianamente si trova a fare i conti con bollette, tasse, contravvenzioni e tributi vari da pagare attraverso il sistema digitale centralizzato. Se da un lato l’amministrazione pubblica ha trovato un modo per standardizzare e monitorare le entrate, dall’altro il contribuente si scontra con costi aggiuntivi e — soprattutto — con una gestione delle ricevute di pagamento tutt’altro che funzionale.

IL PROBLEMA DEI COSTI AGGIUNTIVI
Uno dei primi nodi riguarda le commissioni bancarie. Se ormai da tempo la maggior parte dei bonifici bancari nazionali è gratuita per i correntisti, il pagamento tramite PagoPA comporta quasi sempre un costo aggiuntivo a carico del cittadino, variabile in base all’istituto bancario o al canale utilizzato. Si va da 1,50 a 1,95 euro per ogni singola operazione, una cifra apparentemente modesta che però, moltiplicata per le decine di micropagamenti obbligatori annui verso la PA, diventa un aggravio non trascurabile.

L’ASSENZA DI DATI ESSENZIALI NELLE RICEVUTE
La questione più spinosa, però, riguarda la mancanza di informazioni essenziali nelle ricevute bancarie rilasciate al termine delle operazioni su PagoPA. In particolare, mentre il sistema registra il pagamento collegato a un codice identificativo della bolletta o dell’avviso, non viene mai riportato il numero del verbale o della cartella a cui quel pagamento è collegato.

Una lacuna che potrebbe sembrare di poco conto, se non fosse che — come già avvenuto in diversi casi — a distanza di anni la Pubblica Amministrazione potrebbe contestare il mancato pagamento di una sanzione, e il cittadino non avrà alcun modo di dimostrare, attraverso il proprio estratto conto bancario o la ricevuta PagoPA, di aver effettivamente saldato quella specifica posizione. Il motivo è semplice: nell’estratto conto o nella ricevuta compare solo il codice bollettino e non il numero di riferimento del verbale, rendendo impossibile -o comunque molto difficile- ogni ricostruzione puntuale.

UN CASO TIPO: IL PAGAMENTO DI UNA MULTA
Per comprendere meglio la criticità, basta analizzare un pagamento standard. Supponiamo che un cittadino versi, tramite PagoPA, l’importo di una multa pari a 141,26 euro. Al termine della transazione la banca addebiterà anche una commissione di 1,95 euro, per un totale di 143,21 euro. Ma nella ricevuta digitale scaricabile o visualizzabile sull’home banking non comparirà alcun riferimento al numero del verbale o all’infrazione contestata. Solo un codice bolletta/avviso e la denominazione dell’ente creditore.

A distanza di tre o quattro anni, se l’amministrazione comunale dovesse inviare un sollecito sostenendo che quella multa non è mai stata pagata, il cittadino, consultando i propri archivi bancari o quelli di PagoPA, troverà un pagamento generico associato a una voce “Ministero Interno Dip.to Pubblica Sicurezza” e a un codice avviso. Ma senza il numero del verbale non sarà possibile collegare con certezza quel pagamento a quella specifica contravvenzione.

LA CONSEGUENZA: UN SISTEMA CHE AIUTA LE PA MA PENALIZZA I CITTADINI
Di fatto, la digitalizzazione dei pagamenti verso la PA è stata progettata per risolvere un problema di gestione interna degli enti pubblici — spesso incapaci di verificare con precisione i bonifici in entrata — scaricando però sugli utenti una serie di “rotture di scatole” burocratiche, come lamentano in molti. Se prima, con il tradizionale bonifico bancario, era possibile inserire nella causale il numero del verbale o del tributo pagato, conservando così una traccia storica personale consultabile anche a distanza di anni, oggi questa possibilità è preclusa dal sistema PagoPA.

Viene meno uno dei presupposti essenziali della digitalizzazione: eliminare il cartaceo e agevolare l’utilizzatore, non caricarlo di ulteriori oneri e complicazioni.

LA SOLUZIONE? UN SISTEMA DI RICEVUTE PIÙ TRASPARENTE

Ciò che manca è un obbligo per gli istituti bancari di restituire al pagatore una ricevuta completa, in cui oltre al codice bollettino compaiano anche i dati del verbale, dati specifici del tributo o della sanzione saldata. Oppure la possibilità di caricare direttamente, in fase di pagamento, il numero di riferimento dell’atto per cui si sta effettuando il pagamento.

Fino a quando non verrà risolta questa criticità, i contribuenti continueranno a pagare due volte: una in denaro e una in tempo e stress, costretti a conservare vecchie notifiche, avvisi cartacei e ricevute sparse per poter dimostrare, in caso di contestazione, di essere stati in regola.

 


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Caso Almasri, si incrina il fronte di Nordio: rischio dimissioni e pressing su Meloni

Roma — Il caso Almasri, il cittadino iracheno la cui consegna alla Corte Penale Internazionale è stata negata dall’Italia, continua a scuotere Palazzo Chigi e il ministero della Giustizia. E ora si profila anche un’azione legale per violazione del segreto istruttorio.

Giulia Bongiorno, avvocato difensore dei membri del Governo coinvolti nell’indagine del Tribunale dei ministri, sta infatti valutando una denuncia per la divulgazione di atti coperti da segreto e mai trasmessi alle parti interessate. Nel mirino, le indiscrezioni uscite nelle ultime ore — in particolare quelle che attribuirebbero alla capo di gabinetto di via Arenula, Giusi Bartolozzi, un ruolo di primo piano nella gestione riservata della vicenda.

Il nodo degli atti mai notificati e i sospetti sulla riservatezza violata
Alla base dell’irritazione della difesa c’è il fatto che, a distanza di mesi, gli atti d’indagine non sono ancora stati formalmente depositati. I termini di legge — scaduti il 27 aprile — erano stati prorogati di due mesi, ma anche la nuova scadenza, fissata per il 27 giugno, è ormai superata senza che i documenti siano stati messi a disposizione degli avvocati.
Una situazione definita da ambienti vicini al Governo «paradossale», con l’opposizione che chiede chiarimenti in Aula su un fascicolo di cui, formalmente, neppure i diretti interessati hanno piena contezza.

Nordio sceglie il silenzio, Bartolozzi nel mirino
In via Arenula si cerca di minimizzare. L’accusa rivolta a Bartolozzi viene liquidata come “pettegolezzi” o “veleni”, mentre il ministro Carlo Nordio si trincera dietro un rigoroso «no comment». Anche ieri, al Circolo degli Scacchi per una lectio magistralis, il Guardasigilli ha evitato accuratamente di entrare nel merito, mantenendo una linea di silenzio per evitare qualsiasi ombra d’interferenza su un’indagine ancora aperta.

La posizione più delicata resta però quella di Giusi Bartolozzi. Se da un lato Nordio le ha finora confermato la propria fiducia, dall’altro i segnali che arrivano da Palazzo Chigi parlano di una crescente insofferenza per una vicenda che sta assumendo contorni sempre più politici. Qualcuno ipotizza che, se servirà individuare un capro espiatorio per chiudere la questione, la capo di gabinetto possa essere la figura più esposta.

La regia di Palazzo Chigi e il nodo Mantovano
Un aspetto non secondario, e che in via Arenula viene fatto notare con forza, è che l’intera gestione della vicenda Almasri sarebbe stata pilotata direttamente da Palazzo Chigi. Non a caso, il Tribunale dei ministri era stato invitato dalla difesa a sentire il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, anziché il ministro della Giustizia, ritenendo che le decisioni più delicate — anche per le implicazioni di sicurezza e di ragion di Stato — fossero state assunte direttamente dalla Presidenza del Consiglio.

Le prossime mosse: Meloni osserva e valuta
Ora tutti gli occhi sono puntati sulla premier Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio non nasconde l’irritazione per la piega presa dalla vicenda e si interroga sulla tenuta della linea sin qui seguita. La possibilità di un cambio al vertice della segreteria tecnica di via Arenula o di un allontanamento di Bartolozzi — come gesto di discontinuità e segnale di controllo della situazione — viene considerata sempre più concreta, anche se ogni decisione è rimandata al deposito ufficiale degli atti, che dovrebbe avvenire a breve.

Solo allora, quando le carte saranno finalmente a disposizione della difesa e della presidenza del Consiglio, si capirà davvero se la linea di resistenza potrà essere confermata o se il caso Almasri si porterà dietro conseguenze politiche più pesanti di quanto finora ipotizzato.


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Autoriciclaggio, basta un deposito in banca: la Cassazione rafforza il concetto di “ripulitura” del denaro illecito

Roma — Depositare in banca denaro frutto di reato costituisce autoriciclaggio, anche se l’operazione è formalmente tracciabile e non comporta un cambio di intestazione. È quanto ribadisce la Cassazione penale nella sentenza n. 25348, depositata il 9 luglio 2025, con cui è stato respinto il ricorso di un imputato condannato a tre anni di reclusione e 7mila euro di multa per autoriciclaggio, per aver movimentato e investito somme di provenienza illecita attraverso una serie di operazioni bancarie e speculative.

Il principio della “fungibilità” del denaro e il suo effetto dissimulatorio
Secondo la Suprema Corte, il deposito di somme di provenienza illecita su un conto corrente determina automaticamente una ripulitura del denaro a causa della natura fungibile dello stesso: la banca restituisce infatti al cliente non il medesimo denaro depositato, ma il mero tantundem, ossia una somma equivalente. Lo stesso vale per trasferimenti successivi o per l’acquisto di titoli e altri strumenti finanziari.

Una circostanza che di fatto rende più difficile risalire alla matrice originaria delle somme e costituisce, agli occhi della Corte, una condotta idonea a integrare il reato di autoriciclaggio ai sensi dell’art. 648-ter.1 del Codice penale.

Non serve impedire del tutto l’identificazione: basta ostacolarla
A nulla è valsa, nel caso in esame, la difesa dell’imputato, secondo cui tutte le operazioni erano state eseguite tramite conti a lui intestati, risultando quindi perfettamente tracciabili e prive di intento dissimulatorio.
La Cassazione ha infatti ribadito che per configurare il reato di autoriciclaggio non è necessario che le condotte rendano assolutamente impossibile l’identificazione della provenienza illecita delle somme: è sufficiente che creino un concreto ostacolo agli accertamenti.

A rafforzare questo orientamento, la Corte richiama anche l’ampia formulazione legislativa dell’art. 648-ter.1 c.p., che punisce qualsiasi attività economica, finanziaria, imprenditoriale o speculativa idonea a ostacolare l’identificazione dei proventi delittuosi. Il legislatore, infatti, ha voluto colpire tutte le modalità di reimmissione nel circuito legale di denaro sporco, anche attraverso strumenti finanziari apparentemente trasparenti.

Operazioni speculative e infiltrazione dell’economia legale
Nella motivazione, la Cassazione sottolinea che il riferimento normativo alle “attività speculative” consente di includere nel perimetro del reato tutte le condotte che, attraverso una logica di profitto e analisi economica, mirano a occultare la provenienza illecita dei capitali, infiltrando l’economia legale.

Non è dunque il mutamento formale della titolarità né la dispersione materiale delle somme a qualificare la condotta, ma l’idoneità concreta di qualsiasi operazione finanziaria a ostacolare — anche solo in parte — l’identificazione del denaro illecito.

L’unica via per evitare il reato? L’uso diretto e personale
Secondo la Cassazione, l’agente può evitare la responsabilità penale solo se utilizza direttamente i proventi illeciti per esigenze personali senza porre in essere alcuna operazione idonea a ostacolarne l’identificazione. Diversamente, anche il semplice deposito o trasferimento bancario integra la fattispecie di autoriciclaggio.


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Abusi edilizi in zona vincolata: niente scappatoie tra inerzie comunali e sanatorie impossibili

Roma — In tema di abusivismo edilizio e vincoli ambientali, la Cassazione penale detta nuove regole di rigore e puntualizza i limiti invalicabili per chi tenta di aggirare le demolizioni o di sanare abusi con strumenti non consentiti. Con due sentenze depositate l’8 luglio 2025 — la n. 24990 e la n. 24980 — la Suprema Corte affronta il tema sia dal punto di vista della legittimazione ad agire contro l’ordine di demolizione sia sotto il profilo della sanabilità di manufatti realizzati in aree soggette a vincolo paesaggistico.

Chi perde il bene, perde anche il diritto di opporsi alla demolizione
Nel primo caso (sentenza n. 24990/2025), la Cassazione ha stabilito che l’autore di un abuso edilizio non può più opporsi all’ingiunzione di demolizione di un immobile ormai acquisito al patrimonio comunale.
Il ricorrente aveva tentato di bloccare l’esecuzione dell’ordine di demolizione emesso dal pubblico ministero, sostenendo, tra l’altro, che il manufatto fosse stato destinato dal Comune ad abitazione popolare. Ma la Corte ha ribadito un principio fermo: una volta acquisito il bene al patrimonio pubblico, il privato perde ogni diritto reale e interesse giuridico sullo stesso.

Non solo. La Cassazione sottolinea che il tempo trascorso tra il provvedimento del giudice penale e l’ingiunzione a demolire non può essere sfruttato dall’autore dell’abuso per invocare esigenze abitative proprie o di terzi. Se il Comune intendeva mantenere il manufatto, avrebbe dovuto approvare una delibera consiliare esplicita, che nel caso concreto non era mai stata adottata.

Sanatoria in zona vincolata? Solo con autorizzazione paesaggistica e doppia conformità
Con la seconda pronuncia (sentenza n. 24980/2025), la Suprema Corte ha affrontato la questione della sanatoria per opere abusive in area vincolata, chiarendo che il permesso a costruire rilasciato in sanatoria è valido solo se accompagnato dalla doppia conformità urbanistica ed edilizia e, soprattutto, dall’autorizzazione paesaggistica.

Nel caso di specie, il ricorrente aveva realizzato una cisterna interrata per la raccolta di acqua piovana senza il previsto deposito del progetto strutturale e senza il nulla osta paesaggistico, cercando poi di evitare la demolizione presentando una tardiva istanza di sanatoria.

La Cassazione ha ribadito un principio consolidato: la semplice richiesta di sanatoria non blocca automaticamente gli effetti della sentenza di condanna. Solo un accoglimento positivo dell’istanza, e quindi il rilascio di un permesso regolare, può impedire la demolizione.
Ma nel caso concreto, l’opera abusiva violava sia la normativa edilizia che quella paesaggistica, e la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica rendeva insanabile l’abuso, indipendentemente dalla conformità urbanistica.

Un segnale netto contro l’illegalità edilizia
Le due pronunce confermano l’orientamento restrittivo della giurisprudenza di legittimità in materia di abusivismo edilizio, inasprendo i presupposti per ottenere deroghe o sanatorie. La Cassazione richiama la funzione pubblicistica degli ordini di demolizione: strumenti indispensabili per il ripristino della legalità urbanistica e ambientale.

Nessuno — ammonisce la Corte — può avvantaggiarsi delle inerzie amministrative o di generiche destinazioni di interesse pubblico non formalizzate, e ancor meno aggirare vincoli paesaggistici confidando nel solo rilascio di un titolo edilizio in sanatoria.


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Mafia e abuso di potere: la Cassazione alza il livello di vigilanza sugli amministratori locali

Roma — Più strette le maglie per chi vuole amministrare la cosa pubblica dopo condanne gravi o coinvolgimenti in vicende di infiltrazione mafiosa. Con due pronunce depositate in data 8 luglio 2025, la Prima sezione civile della Cassazione interviene su due casi delicati, affermando con nettezza il principio per cui il buon andamento e la trasparenza delle istituzioni locali non possono essere sacrificati sull’altare della rappresentanza elettorale quando si accertano responsabilità incompatibili con il corretto esercizio di una funzione pubblica.

Il caso Platì: il sindaco rieletto e poi decaduto
Nella prima sentenza, la n. 18559/2025, la Cassazione ha respinto il ricorso dell’ex sindaco di Platì (RC) contro il provvedimento del prefetto che ne aveva dichiarato la decadenza dopo la rielezione avvenuta nel primo turno elettorale successivo allo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose.

Nonostante fosse in corso il procedimento per l’incandidabilità, l’ex primo cittadino era stato rieletto. Solo successivamente è sopraggiunta la sentenza definitiva che ha sancito la sua incandidabilità per le condotte pregresse. A quel punto, il prefetto ha avviato l’iter per farne dichiarare la decadenza.

La Suprema Corte, pur riconoscendo il valore costituzionale del diritto di elettorato passivo, ha ritenuto prevalente l’interesse pubblico a garantire l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione. «Non è accettabile — scrive la Corte — che l’amministratore ritenuto responsabile di condotte pregiudizievoli possa continuare a esercitare il proprio mandato nonostante una sopravvenuta sentenza definitiva di incandidabilità».

L’articolo 16, comma 2, del decreto legislativo n. 235/2012 (legge Severino), chiarisce la Cassazione, consente di ritenere che l’incandidabilità sopravvenuta comporti anche la decadenza dalla carica medio tempore riassunta, proprio per impedire che chi ha contribuito allo scioglimento per mafia possa tornare a ricoprire incarichi pubblici nello stesso comune.

La questione Sorrento: no ai consiglieri condannati per delitti colposi aggravati
Con la seconda pronuncia, la n. 18586/2025, la Cassazione ha confermato l’ineleggibilità di un candidato consigliere comunale di Sorrento, condannato in via definitiva per omicidio stradale plurimo aggravato dall’abuso dei poteri o violazione dei doveri connessi a una pubblica funzione.

La Suprema Corte ribadisce che l’articolo 10, comma 1, lettera d), del Dlgs 235/2012 è una norma di chiusura del sistema di prevenzione e garanzia: una misura di tutela del buon andamento e della trasparenza amministrativa. Non importa che il reato sia colposo; ciò che rileva è che sia aggravato dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri propri della funzione pubblica.

Secondo la Cassazione, questa previsione non introduce una disciplina innovativa ma si limita a rendere esplicito un principio di fondo: amministrare un ente locale è incompatibile con condanne di tale gravità.

Un sistema di garanzie sempre più rigoroso
Le due sentenze confermano la tendenza della giurisprudenza a presidiare con rigore i principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento delle amministrazioni locali, rafforzando gli strumenti di prevenzione contro infiltrazioni mafiose e gestioni irresponsabili.

Il legislatore e i giudici, sottolinea la Cassazione, hanno il compito di proteggere non solo la funzionalità delle istituzioni, ma anche la fiducia dei cittadini nella correttezza di chi le governa. E questo — ribadisce — vale anche a costo di sacrificare, in casi specifici, il diritto soggettivo all’elettorato passivo quando esso confligge con il superiore interesse collettivo alla trasparenza e legalità delle istituzioni.


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Avviso rilascio aggiornamenti sistemi Penali

Gentili utenti,

la presente per informare che nella giornata di giovedì 10 luglio 2025 sono pianificate attività di aggiornamento dei sistemi penali, con fermo dei sistemi APP, ReGeWEB, PNDR, PDP e DOCUMENT@ a partire dalle ore 16:00 fino a successivo ripristino, che avverrà entro e non oltre la medesima giornata. Con il presente aggiornamento vengono rilasciati sui suddetti sistemi sia interventi evolutivi che correttivi.

Gli interventi evolutivi riguardano:

  • L’introduzione di nuove funzionalità, dedicate al Pubblico Ministero e al Giudice, per la gestione delle sostituzioni del magistrato
  • L’aggiunta di nuove stampigliature automatiche per tracciare il momento del pervenimento delle NdR in Procura, il deposito degli atti presso le segreterie o cancellerie e la loro ricezione da parte degli uffici destinatari
  • L’implementazione della funzione di espunzione di un atto dal fascicolo per gli utenti degli uffici DIB/CAS
  • Il miglioramento dell’interfaccia nelle maschere di consultazione e firma, con layout semplificato e sezioni regolabili
  • L’ottimizzazione delle funzionalità del modulo Designer
  • L’ampliamento delle funzionalità relative alle deleghe d’indagine e alle iscrizioni delle notizie di reato
  • La visualizzazione delle sentenze in ReGeWEB per gli utenti degli uffici Corte d’Appello e Procura Generale
  • L’aggiunta di nuovi modelli per la redazione degli atti
  • L’aggiornamento delle voci di titolario in APP
  • L’integrazione delle voci di Titolario in Document@ al fine di garantire uniformità con il titolario di APP
  • L’introduzione sul PDP di nuovi atti depositabili come atti successivi e/o contestuali alle nomine

I principali interventi correttivi riguardano:

  • L’acquisizione al fascicolo del decreto penale di condanna anche a seguito della modifica delle QGF
  • La visualizzazione delle NdR relative ai reati di competenza del Giudice di Pace all’interno delle relative card
  • La visualizzazione delle deleghe d’indagine nell’apposita sezione di monitoraggio
  • L’eliminazione delle bozze degli atti in lavorazione e dei modelli creati dall’utente

Ringraziandovi per la vostra collaborazione e comprensione, si coglie l’occasione per porre i più cordiali saluti.

LINK ALLA NOTIZIA


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Rimborsi chilometrici ai professionisti associati: deducibilità integrale se documentati

Nuovo intervento della Corte di Cassazione in materia fiscale e, in particolare, sulla deducibilità dei rimborsi chilometrici riconosciuti ai professionisti associati. Con l’ordinanza n. 18364 del 5 luglio 2025, la Sezione Tributaria della Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui le spese di trasporto sostenute con mezzi propri dai singoli associati e rimborsate dall’associazione professionale possono essere dedotte integralmente, a condizione che siano strettamente inerenti all’attività esercitata e correttamente documentate.

La questione affrontata riguardava uno studio legale associato, che aveva corrisposto ai propri associati rimborsi chilometrici per l’utilizzo di veicoli privati nello svolgimento di incarichi professionali. L’Agenzia delle Entrate aveva contestato la deducibilità piena di tali spese, sostenendo che rientrassero nel limite del 40% previsto dall’articolo 164 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), applicabile ai mezzi di trasporto utilizzati per attività professionale.

La Commissione Tributaria Regionale aveva dato ragione all’Agenzia, rigettando il ricorso dell’associazione. A seguito di tale decisione, i professionisti interessati avevano presentato ricorso in Cassazione, evidenziando come la limitazione fissata dall’articolo 164 TUIR riguardasse solo i veicoli di proprietà dell’associazione e non i rimborsi spese riconosciuti per l’uso di mezzi personali.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, sottolineando che la norma invocata dall’Amministrazione finanziaria costituisce una disposizione speciale, riferita esclusivamente ai casi in cui i mezzi di trasporto siano nella disponibilità diretta dell’associazione. Obiettivo della norma è, infatti, limitare la deducibilità di costi legati all’uso promiscuo di veicoli intestati all’associazione e impiegati sia per fini professionali che privati.

Tale disciplina non può essere estesa, ha precisato la Corte, ai rimborsi spese erogati per l’utilizzo di veicoli di proprietà degli associati, quando questi ultimi sostengono direttamente il costo per spostamenti effettuati nell’ambito della loro attività professionale. In questi casi, trova applicazione la regola generale contenuta nell’articolo 54 del TUIR, secondo cui le spese sono deducibili se inerenti all’attività e adeguatamente documentate.

A supporto di questa lettura, la Cassazione ha richiamato anche precedenti giurisprudenziali, tra cui l’ordinanza n. 776 del 2022, ribadendo la distinzione tra costi sostenuti direttamente dall’associazione per i propri mezzi e rimborsi corrisposti ai professionisti associati per spese anticipate nell’interesse dell’associazione stessa.

Il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte chiarisce che, in presenza del requisito dell’inerenza e di una documentazione idonea a dimostrare il collegamento tra la spesa e l’attività professionale, i rimborsi chilometrici corrisposti per l’uso di veicoli privati devono considerarsi integralmente deducibili da parte dell’associazione. Resta fermo, però, l’onere della prova a carico del contribuente.

Tra i documenti richiesti per attestare l’effettiva inerenza figurano registri chilometrici, ordini di incarico, agende professionali, fatture e qualsiasi altra evidenza utile a dimostrare la diretta connessione tra l’attività svolta e la trasferta effettuata.

La decisione della Corte ha comportato l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di merito, che dovrà ora riesaminare la vicenda tenendo conto del principio di diritto formulato e verificare se la documentazione presentata dai ricorrenti sia sufficiente a dimostrare la deducibilità dei rimborsi contestati.

Oltre alla valutazione sul merito della controversia fiscale, il giudice dovrà anche pronunciarsi sulla ripartizione delle spese di lite relative a tutti i gradi del procedimento.


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Italiani fiduciosi nella magistratura, ma poca conoscenza del suo funzionamento

ROMA, 9 luglio – La maggior parte degli italiani si fida dei magistrati e crede che i pm possano svolgere il ruolo di giudice e viceversa senza problema. Sono due degli esiti del sondaggio realizzato da Youtrend pubblicato oggi da La Magistratura, rivista dell’Associazione nazionale magistrati. Il 58% degli italiani ha molta o abbastanza fiducia nella magistratura. Un dato nettamente superiore a quello destinato al Parlamento (35%) e al governo (34%). Superiore anche alla fiducia in istituzioni vicine ai cittadini come Comuni (54%) o Regioni (47%). E più alto della fiducia nei confronti dell’avvocatura (45%).

La possibilità di passare da giudici a pm e viceversa viene ritenuto il principale problema della giustizia solo per l’1% dei cittadini. Per quasi un cittadino su due (48%) il principale tema è invece la lentezza dei processi. Per il 20% la mancanza di personale e risorse per la giustizia. Seguono la politicizzazione dei giudici (9%) e la scarsa chiarezza delle leggi (8%).

E ancora: per il 60% dei cittadini un magistrato che per anni ha fatto il pm può “perfettamente occuparsi anche di magistratura giudicante, passando al ruolo del giudice”. Solo il 23% invece è in disaccordo con questa opinione.
C’è poi il dato sulla competenza dei magistrati: il 55% del campione è d’accordo con l’affermazione secondo la quale la magistratura è composta da persone competenti, perché selezionate con un concorso trasparente e altamente selettivo.

Dalla rilevazione di Youtrend emerge un altro elemento importante: solo il 17% degli intervistati dice di conoscere bene la differenza tra magistratura giudicante e requirente. Un quarto degli intervistati (26%) ammette di conoscerla orientativamente, mentre il 19% ne ha sentito parlare e il 38% non la conosce. Solo un terzo della popolazione (32%) sa che la magistratura requirente esercita l’azione penale e dirige le indagini nei procedimenti penali, dunque è consapevole del fatto che il pm appartiene proprio alla magistratura requirente.

Commenta così Lorenzo Pregliasco, founding partner di Youtrend: “Il sondaggio svolto delinea un contesto all’interno del quale, nella fiducia degli organi dello Stato italiano, subito sotto le FFOO e le forze armate, vengono la magistratura e i giudici. Una dinamica che colloca la fiducia nella magistratura e nei giudici sopra a quella nella politica e nei partiti. Bisogna invece segnalare come, tra gli intervistati, ci siano ancora importanti margini di miglioramento sulla conoscenza, in particolare sulla differenza tra magistratura giudicante e requirente. Il dibattito politico, spesso polarizzato sui mezzi di informazione, sembra rispecchiarsi soltanto in parte nell’opinione degli italiani, invece, più sfumata e moderata: soltanto una piccola minoranza (8%), ad esempio, esprime una opinione radicale, in forte disaccordo con la possibilità, per un pm, di svolgere anche il ruolo di giudice. Tra gli elementi su cui si registra una maggioranza rilevante di accordo nella cittadinanza, c’è il riconoscimento di livelli elevati di competenza tecnica e preparazione dei magistrati. Infine, per quanto riguarda il principale problema della giustizia italiana nella percezione dei cittadini, quasi un intervistato su due (48%) dichiara che la maggiore criticità risulta la lentezza dei processi con, a seguire, la mancanza di personale e risorse (20%)”, afferma Pregliasco.

NOTA METODOLOGICA SONDAGGIO
– Metodo campionario: C.A.T.I. (Computer Assisted Telephone Interview), C.A.M.I. (Computer Assisted Mobile Interview), C.A.W.I. (Computer Assisted Web Interview); Interviste totali realizzate: 1.509 casi; Interviste realizzate tra il 27 maggio e il 4 giugno 2025; Campione di riferimento: popolazione maggiorenne residente in Italia, indagata per quote di sesso ed età, stratificate per quote di titolo di studio e per area di residenza; Errore campionario: +/- 2,5%, intervallo di confidenza 95%


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