Cassazione: l’avviso di presa in carico non è un provvedimento, ma può essere impugnato in casi specifici

L’avviso di presa in carico non è un provvedimento amministrativo e, di conseguenza, non è annullabile di per sé. Tuttavia, può essere impugnato in situazioni particolari. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 6589 del 4 dicembre 2024, depositata il 12 marzo 2025, chiarendo i margini di impugnabilità di questo atto informativo nell’ambito del contenzioso tributario.

Un atto informativo, non un provvedimento

La decisione della Suprema Corte si concentra sulla natura dell’avviso di presa in carico, ossia la comunicazione con cui l’Agente della riscossione informa il contribuente della registrazione del debito fiscale. Secondo i giudici, questo avviso non rientra tra gli atti amministrativi previsti dall’art. 19 del D.lgs. 546/1992, che elenca i provvedimenti impugnabili nel processo tributario. Inoltre, non può essere assimilato a un’intimazione di pagamento, poiché privo di forza cogente e di effetti unilaterali sulla posizione giuridica del destinatario.

Una soluzione intermedia: quando è impugnabile?

Richiamando un precedente giurisprudenziale (Cass. n. 21254/2023), la Corte adotta una posizione intermedia: pur non essendo un atto provvedimentale, l’avviso di presa in carico può essere impugnato “solo in caso di mancata notifica dell’atto presupposto e nell’ipotesi di vizi propri”. In altre parole, se il contribuente non ha mai ricevuto la notifica dell’accertamento esecutivo o se l’avviso presenta difetti di legittimità, allora può contestarlo in giudizio.

Il caso specifico: ricorso inammissibile

Nel caso esaminato dalla Cassazione, il contribuente aveva contestato l’avviso di presa in carico sostenendo che fosse impugnabile. Tuttavia, la Corte ha respinto il ricorso perché l’atto contestato era stato preceduto dalla notifica di un’intimazione di pagamento relativa all’atto impositivo sotteso. Inoltre, il ricorrente aveva persino richiesto la rateizzazione del debito, riconoscendo così implicitamente la validità della pretesa tributaria.


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Il diritto di accesso agli atti prevale sulla privacy in caso di separazione

Il diritto alla riservatezza può essere sacrificato se è necessario accertare il patrimonio di un ex coniuge nell’ambito di una separazione giudiziale. Lo ha stabilito il Tar Marche-Ancona con la sentenza n. 103 del 15 febbraio 2025, che riafferma la prevalenza del diritto di accesso agli atti rispetto alla privacy quando l’ostensione dei documenti è essenziale per la tutela giudiziaria di una parte.

Il caso: l’accesso negato ai documenti edilizi dell’ex coniuge

La vicenda trae origine dal ricorso di un soggetto che aveva richiesto al Comune l’accesso ai titoli edilizi e alle pratiche amministrative relative agli immobili dell’ex coniuge. L’obiettivo era accertarne la reale consistenza patrimoniale per supportare la propria posizione nel giudizio di separazione in corso. Tuttavia, l’ente locale aveva respinto l’istanza, sia per l’opposizione dell’ex coniuge sia perché riteneva che la richiesta non fosse concretamente funzionale agli interessi dichiarati.

Il ricorrente ha impugnato il diniego davanti al Tar, che ha accolto il ricorso, ribadendo il principio secondo cui il diritto di accesso è preordinato alla tutela giurisdizionale e deve prevalere sulla privacy in casi come questo.

La decisione del Tar: l’accesso come strumento di difesa

Nella sua pronuncia, il Tar Marche ha chiarito che il diritto di accesso agli atti amministrativi è uno strumento essenziale per garantire la piena difesa in giudizio. Anche quando i documenti richiesti contengono dati sensibili, il diritto di accesso può essere limitato solo nella misura strettamente necessaria a proteggere tali informazioni, senza negarlo del tutto.

Secondo il Tar, il nostro ordinamento giuridico riconosce un’ampia tutela all’accesso documentale, soprattutto quando è funzionale a garantire il diritto alla difesa, tutelato dall’articolo 24 della Costituzione. La giurisprudenza amministrativa ha più volte ribadito che l’accesso agli atti non può essere negato per valutazioni di merito sulle ragioni del richiedente o sulla pertinenza dei documenti ai fini processuali.

I limiti all’accesso per dati particolarmente sensibili

L’unico limite all’accesso, ha precisato il Tar, riguarda i dati “sensibili” o “sensibilissimi”, come l’origine etnica, le convinzioni religiose, l’appartenenza politica o lo stato di salute. In questi casi, l’accesso è subordinato alle condizioni previste dall’articolo 60 del Codice della Privacy (D.lgs. n. 196/2003). Tuttavia, nel caso in esame, l’accesso riguardava esclusivamente documenti edilizi e patrimoniali, che non rientrano in tali categorie.

La sentenza conferma dunque un orientamento ormai consolidato: il diritto alla privacy cede il passo quando è necessario garantire la tutela effettiva in sede giudiziaria, specialmente in materia patrimoniale e familiare.


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Le regioni con più minori detenuti

Il fenomeno è particolarmente concentrato in Campania, Lombardia e Sicilia. Alla data del 15 febbraio 2024, la Campania registrava 48 minori detenuti (contro i 20 del 2021), la Lombardia 44 (erano 23) e la Sicilia 40 (rispetto ai 17 del 2021). Il Piemonte segue con 39 minori incarcerati, raddoppiando i dati del 2021.

Ma la situazione diventa ancora più allarmante se si considerano anche i minori collocati in strutture residenziali alternative, come Comunità ministeriali e private o Centri di prima accoglienza. Includendo queste misure, il numero totale di giovani sottoposti a restrizioni della libertà sale a 1.498 in tutta Italia.

L’impatto della legge Caivano

La Campania, oltre agli IPM, conta 142 minori collocati in comunità private, portando il totale regionale a 232 giovani detenuti o sotto misure restrittive. Un incremento che potrebbe essere legato al decreto legge 123/23 (detto “decreto Caivano”), convertito nella legge 159/23, che ha ampliato le ipotesi di ricorso al carcere per i minori in fase cautelare.

Dove la detenzione minorile è più rara

Non tutte le regioni registrano numeri allarmanti. Valle d’Aosta, Molise e Umbria presentano i dati più bassi: in Valle d’Aosta, nel 2024, non risultavano minori detenuti; in Molise era presente un solo caso, mentre in Umbria il numero si fermava a 8. Anche Liguria, Abruzzo e Basilicata mostrano un’incidenza inferiore all’1% sul dato nazionale.

Il ruolo delle comunità

Oltre al carcere, un altro mondo poco raccontato è quello delle comunità, che accolgono circa mille minori in alternativa alla detenzione. La Lombardia guida la classifica con 180 adolescenti in comunità private, seguita dalla Sicilia (173) e dalla Campania (142).

Di fronte a questi dati, la questione della detenzione minorile in Italia si impone come un tema urgente, che richiede risposte non solo sul piano repressivo, ma anche in termini di prevenzione e tutela dei diritti dei più giovani.


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Giustizia e riforme: il ritorno all’oralità per salvaguardare il ruolo dell’avvocato

La riforma Cartabia ha introdotto significative modifiche nel processo penale, tra cui il rito cartolare d’appello, che prevede la decisione in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti. Un meccanismo che, secondo il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia al Senato, rischia di compromettere il ruolo dell’avvocatura e di minare la collegialità delle decisioni giudiziarie. Per questo, insieme alla senatrice leghista Erika Stefani, ha presentato un disegno di legge per ripristinare il contraddittorio orale come regola generale nel giudizio d’appello.

Il rischio di un processo senza avvocati

Attualmente, l’articolo 598-bis del codice di procedura penale stabilisce che l’appello venga deciso sulla base degli atti, senza un confronto diretto tra le parti. Questa modalità, nata durante l’emergenza Covid-19, ha reso più rapidi i procedimenti ma, secondo Zanettin, ha anche ridotto le garanzie per gli imputati e depotenziato il ruolo dell’avvocato. “Non possiamo accettare che il difensore venga sostituito da un algoritmo”, afferma il senatore, evidenziando come la giustizia debba tornare ad essere basata sulla dialettica processuale.

Intercettazioni: la stretta sulle proroghe

Oltre al ritorno all’oralità, il senatore Zanettin è stato protagonista di un’altra importante riforma in tema di giustizia: la modifica del regime delle intercettazioni. La nuova norma prevede un tetto di 45 giorni per le intercettazioni telefoniche, prorogabili solo con una motivazione specifica. “Non si tratta di una tagliola, ma di una necessaria regolamentazione”, spiega, criticando il sistema attuale in cui le proroghe vengono concesse automaticamente, senza un reale controllo.

Le polemiche non sono mancate, con il procuratore di Napoli Nicola Gratteri che ha denunciato il rischio di agevolare la criminalità. Accusa respinta da Zanettin: “Non è vero che dopo 45 giorni i criminali potranno parlare liberamente. I reati più gravi, come mafia e terrorismo, restano esclusi da questo limite”. Il senatore difende la riforma come un punto di equilibrio tra esigenze investigative e tutela della privacy, ricordando l’articolo 15 della Costituzione, che garantisce l’inviolabilità delle comunicazioni.

Il garantismo come principio cardine

Zanettin, da sempre esponente dell’ala garantista della maggioranza, rivendica i risultati ottenuti in materia di giustizia. Oltre alla regolamentazione delle intercettazioni, ha promosso una legge per vietare l’ascolto delle conversazioni tra avvocati e assistiti, ritenendolo un principio fondamentale dello Stato di diritto. L’ultima parte della riforma riguarderà il sequestro degli smartphone e l’utilizzo dei Trojan nei dispositivi elettronici.

“Ora aspettiamo che il ministro Carlo Nordio si esprima sulla questione”, conclude Zanettin, auspicando tempi rapidi per l’approvazione di ulteriori misure. Nel frattempo, la battaglia per il ritorno a un processo più garantista e fondato sul contraddittorio continua.


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Errore di ChatGPT in memoria difensiva: nessuna condanna per lite temeraria

L’utilizzo di riferimenti giurisprudenziali errati generati da ChatGPT in una memoria difensiva non giustifica la condanna per lite temeraria. Lo ha stabilito la Sezione imprese del Tribunale di Firenze, affrontando per la prima volta il tema nell’ambito di un giudizio sulla tutela dei marchi e del diritto d’autore.

Il caso è nato da un procedimento per reclamo contro il sequestro di beni contraffatti. La parte vittoriosa aveva chiesto la condanna della controparte ai sensi dell’art. 96 c.p.c., sostenendo che la citazione di sentenze inesistenti avesse influenzato il giudizio del Collegio. Tuttavia, i giudici hanno respinto la richiesta, ritenendo che i riferimenti errati fossero stati inseriti solo per rafforzare una linea difensiva già delineata, senza alcuna intenzione di agire in malafede o con colpa grave.

Nella sentenza si evidenzia che il fenomeno delle “allucinazioni” dell’intelligenza artificiale – ossia la generazione di informazioni inesistenti ma apparentemente credibili – può portare a risultati fuorvianti. In questo caso, ChatGPT aveva attribuito numeri e contenuti a sentenze della Corte di Cassazione che in realtà non esistevano.

Il difensore della società coinvolta ha ammesso l’errore, spiegando che i riferimenti giurisprudenziali erano stati raccolti da una collaboratrice tramite IA, senza che il patrocinatore ne fosse a conoscenza. Dopo aver riconosciuto l’omesso controllo, ha chiesto lo stralcio delle citazioni inesatte, ribadendo che la strategia difensiva non mirava a ingannare il tribunale.

Il Tribunale ha richiamato la giurisprudenza della Cassazione, sottolineando che per applicare la responsabilità aggravata è necessario dimostrare sia l’esistenza del danno che la sua entità. Nel caso in esame, la parte reclamante non ha fornito alcuna prova di danni subiti a causa dell’errore, rendendo inapplicabile la sanzione prevista dall’art. 96 c.p.c. Inoltre, i giudici hanno escluso la possibilità di condanna d’ufficio, poiché non si è ravvisata una condotta processuale abusiva.

La decisione del Tribunale di Firenze segna un importante precedente sull’uso dell’intelligenza artificiale nel processo civile, evidenziando la necessità di un controllo attento delle informazioni fornite dagli strumenti di IA per evitare fraintendimenti e contestazioni processuali.


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Rispetto dell’oralità e del contraddittorio nel giudizio penale di appello: l’audizione dell’UNCP

Il presidente dell’Unione nazionale delle Camere Penali Petrelli è stato audito nei giorni scorsi in Commissione Giustizia del Senato sul DDL 1217 per “Modifiche al codice di procedura penale in materia di rispetto dell’oralità e del contraddittorio nel giudizio penale di appello”. In allegato le note depositate dalla Giunta UNCP per esprimere apprezzamento per il ripristino dell’oralità, e per auspicare che il principio generale del rispetto dell’oralità e del contraddittorio venga, analogamente, reintrodotto anche per il giudizio di cassazione.

La questione all’esame della Commissione attiene al più vasto problema di rapporti fra efficienza del processo e tutela dei principi dei diritti e delle garanzie ad esso connesse. Tale rapporto, squilibrato prima dai provvedimenti emergenziali relativi all’emergenza pandemica e, successivamente, dagli interventi della riforma “Cartabia”, deve essere necessariamente riequilibrato. A tal fine, occorre sottolineare come la più volte proclamata necessità di conferire “efficienza” al sistema processuale penale, tende a considerare esclusivamente il fattore “quantitativo” e “produttivo” mentre trascura del tutto la “qualità” del metodo e del risultato processuale.  La reintroduzione dei principi dell’oralità e del contraddittorio nel giudizio penale di appello si colloca certamente nell’ambito di un’elaborazione normativa di recupero del modello processuale accusatorio e del giusto ed equo processo, in linea con i principi generali indicati nell’art. 111 della Costituzione.

Abbiamo, infatti, assistito ad una progressiva svalutazione del valore della discussione del difensore, divenuta, nella sensibilità dei giudici, quasi un inutile “ornamento” o una inutile incombenza estranea all’economia del processo e alle dinamiche della cognizione, come dimostrano alcuni casi di cronaca (nei quali le decisioni sono state assunte senza dare la parola ai difensori).

Al contrario, l’oralità deve essere apprezzata quale elemento fondamentale della cognizione e come tale concorrente in maniera decisiva alla qualità complessiva del giudizio.

In una corretta logica di recupero della dialettica propria della fase della cognizione, il DDL conferisce il “giusto” rilievo all’oralità della discussione che, oltre ad assicurare il pieno esercizio del diritto di difesa, è anche garanzia della collegialità in quanto evita il rischio che le decisioni una volta cartolarizzate possano essere anche delocalizzate rispetto alla simultanea valutazione di tutti i giudici all’interno della camera di consiglio. Non vi è dubbio, infatti, che la cartolarizzazione dell’appello contribuisce ad una svalutazione della collegialità con il concreto rischio che il controllo assuma una gestione del tutto sostanzialmente monocratica.

Il DDL in esame pone, peraltro, un opportuno argine ad una scelta normativa emergenziale, successivamente confermata, destinata ad incidere in concreto anche sulla corretta individuazione del giudice naturale.

Un ulteriore elemento che rende opportuno l’intervento normativo in esame è quello relativo alla necessità di preservare la pubblicità delle udienze quale ulteriore elemento di garanzia e quale strumento di controllo democratico dell’attività giurisdizionale altrimenti del tutto inaccessibile alla pubblica opinione.

Una più attenta valutazione deve essere volta con riferimento alla lettera a) del dell’art. 1, comma 1, del DDL in esame, la quale prevede che il rito cartolare possa essere disposto esclusivamente su richiesta dell’imputato, specificando, al comma 2, che detta richiesta debba essere formulata “personalmente dall’imputato o per mezzo di procuratore speciale”.

Si ritiene, infatti, che il principio dell’oralità non dovrebbe subire alcuna deroga, come peraltro previsto per i casi di rinnovazione parziale (art. 2 lett. b) e per la relazione (art. 5), che non può mai essere omessa, neppure in caso di un accordo delle parti.

Tuttavia, laddove si ritenga opportuna una apertura in tal senso l’eventuale richiesta di trattazione cartolare dovrebbe essere consentita, oltre che all’imputato personalmente, anche al difensore, senza essere necessariamente munito di procura speciale.

Si tratta, infatti, di una regola eccessivamente formalistica che sminuisce le facoltà del difensore, equiparando, sostanzialmente, la richiesta di trattazione cartolare addirittura alla rinuncia all’impugnazione, ovvero alla rinuncia all’acquisizione della prova in contraddittorio (art. 111, co. 5 Cost.), a ragion veduta considerata un atto personalissimo dell’imputato.

Ci sono ulteriori facoltà già fisiologicamente attribuite alla discrezionalità del difensore quale, ad esempio, la rinuncia ai testimoni della difesa, ovvero all’acquisizione di atti di indagine che fanno propendere per una più agevole disciplina dell’accesso al rito cartolare in tutti quei casi in cui l’oggetto o le circostanze del giudizio consiglino un risparmio di risorse.

Conseguentemente, alla lettera a) dell’art. 1 del DDL in esame, dopo le parole “su richiesta dell’imputato”, andrebbe aggiunto l’inciso “o del suo difensore”, con la conseguente armonizzazione delle successive disposizioni relative alla legittimazione alla richiesta.

Quanto alla modifica dell’art. 602 c.p.p. con la quale si intende affermare la inderogabilità della relazione, essa appare coerente con la finalità di un integrale recupero di una corretta dialettica processuale, in considerazione del fatto che la relazione costituisce un momento fondamentale della costruzione dialogica del giudizio, ponendo il difensore e le parti in genere nella condizione di integrare i punti omessi dalla relazione, ovvero di correggere o sviluppare i temi indicati dal giudice relatore. Qualche dubbio, tuttavia, discende dalla introduzione di una sanzione di nullità derivante dalla omissione della relazione, anche in caso di accordo delle parti.

Si auspica, in ultimo, che il principio generale del rispetto dell’oralità e del contraddittorio venga, analogamente, reintrodotto anche per il giudizio di cassazione.

Roma, 26 marzo 2025

La Giunta UCPI


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L’IA che monitora lo stress sul lavoro: così aiuta aziende e dipendenti

Il 73% dei lavoratori ha sperimentato situazioni di stress o ansia legate al proprio impiego, secondo il Rapporto Censis-Eudaimon 2024. Un dato allarmante che non può essere ignorato. Per rispondere a questa emergenza, quattro giovani innovatori hanno sviluppato Myndoor, una startup italiana specializzata nel corporate wellness. Il software, basato sull’intelligenza artificiale, analizza le conversazioni su piattaforme come Teams e Slack, individuando segnali di stress e inviando alert alle aziende.

“Non si tratta di un sistema invasivo – spiega Francesco Finazzi, ex pilota militare e oggi CEO di Myndoor – ma di uno strumento di supporto che garantisce privacy e anonimato. Il nostro obiettivo è far emergere situazioni critiche prima che si trasformino in burnout”.

L’IA opera in background, esaminando la semantica dei messaggi e, in caso di rilevazione di stress elevato, propone soluzioni mirate: esercizi di rilassamento, incontri con psicologi o webinar di supporto. Non viene segnalato il singolo dipendente, ma si evidenziano tendenze collettive per permettere all’azienda di intervenire tempestivamente.

Myndoor è già attiva in circa 30 aziende, operanti in settori come finanza, assicurazioni e pubblica amministrazione. “Sempre più imprese stanno integrando il benessere psicologico nei loro piani di welfare – aggiunge Finazzi – e il nostro software può diventare un pilastro di questa strategia”.

Nata nel 2021, la startup ha già raccolto oltre 700mila euro di finanziamenti ed è entrata nel programma di accelerazione Redigital Health di Cassa Depositi e Prestiti. Con la crescente attenzione al benessere lavorativo, strumenti come Myndoor potrebbero rappresentare il futuro della gestione aziendale, ponendo l’IA al servizio della salute mentale dei dipendenti.


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Processo tributario: la Corte si pronuncia sulla nuova disciplina delle prove in appello

Con la sentenza numero 36, depositata oggi, la Corte costituzionale ha esaminato alcune questioni di legittimità costituzionale del decreto legislativo 30 dicembre 2023, numero 220 (Disposizioni in materia di contenzioso tributario) sollevate dalle Corti di giustizia tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia. Le rimettenti avevano censurato in particolare, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, l’articolo 58, comma 3, del decreto legislativo numero 546 del 1992, inserito dall’articolo 1, comma 1, lettera bb), del decreto legislativo numero 220 del 2023, ai sensi del quale, nel giudizio di appello «non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis».

La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione limitatamente alle parole «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti».

Nella sentenza si legge che la novella del 2023 ha optato per un modello di gravame ad istruttoria chiusa, temperato, però, dal riconoscimento della facoltà, per le parti, di introdurre in secondo grado prove nuove indispensabili ai fini della decisione o incolpevolmente non dedotte in primo grado.

La Corte ha, però, osservato che, rispetto a tale regola generale, sancita dal riformato comma 1 dell’articolo 58, il divieto assoluto di produzione delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere, sancito dal nuovo comma 3, non trova appiglio nelle caratteristiche oggettive dei suddetti documenti, non essendo rinvenibile in essi un elemento differenziale sul quale il legislatore possa costruire una disciplina diversificata. Inoltre, ha rilevato ancora la Corte, la nuova disciplina, là dove inibisce il deposito delle deleghe, delle procure e degli atti di conferimento di potere, pur quando ne sia stata incolpevolmente impossibile la produzione in primo grado, comprime ingiustificabilmente il diritto alla prova, posto che in tali ipotesi il processo di appello costituisce la prima e unica occasione per dedurre i mezzi istruttori che non siano stati introdotti in primo grado per causa non imputabile alla parte.

Per quanto concerne, invece, il divieto di produzione in appello delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità, pure sancito dall’articolo 58, comma 3, del decreto legislativo numero 546 del 1992, la Corte ne ha escluso sia la irragionevolezza sia la contrarietà agli altri parametri evocati dalle rimettenti.

Il legislatore, con il divieto censurato, ha inteso evitare che l’appello venga promosso al solo fine di effettuare un deposito documentale che, pur essendo da solo sufficiente per la definizione del giudizio, sia stato omesso in prime cure. Il divieto di deposito delle notifiche è stato ritenuto non contrario a Costituzione anche là dove include l’ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto depositare il documento in primo grado per causa ad essa non imputabile. Ciò in quanto «l’atto esiste, il procedimento tributario produce i suoi effetti tipici per mezzo della notificazione, sicché o la notifica – e quindi deve essere necessariamente conosciuta dall’amministrazione, sulla quale grava un dovere qualificato di documentazione del procedimento notificatorio e di conservazione e custodia dei relativi atti – prima che la pretesa impositiva venga azionata, oppure la stessa pretesa è da ritenersi inefficace ab origine e quindi non può essere fatta valere».

La Corte di giustizia tributaria della Lombardia aveva, poi, dubitato della legittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 2, dello stesso decreto legislativo numero 220 del 2023, là dove dispone che le nuove regole sulle prove in appello si applicano ai giudizi instaurati in secondo grado a far data dal giorno successivo all’entrata in vigore di detto decreto.

La Corte costituzionale ha ritenuto irragionevole la disciplina censurata, in quanto la novella, sebbene formalmente operi per il futuro, nella sostanza incide sugli effetti giuridici di situazioni processuali verificatesi nei giudizi iniziati nel vigore della precedente normativa e ancora in corso, così ledendo l’affidamento riposto dalle parti nella tutela di posizioni legittimamente acquisite. Pertanto, l’articolo 4, comma 2, del decreto legislativo numero 220 del 2023 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prescrive che le modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lettera bb), dello stesso decreto legislativo numero 220 del 2023 alla disciplina delle prove in appello dettata dall’articolo 58 del decreto legislativo numero 546 del 1992 si applicano ai giudizi instaurati in secondo grado a decorrere dal giorno successivo alla sua entrata in vigore, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo.


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Corte di Appello di Napoli, istituito Osservatorio distrettuale per gli Uffici del Giudice di Pace

Napoli, 27 marzo 2025 – È stato firmato un protocollo per l’istituzione dell’Osservatorio distrettuale permanente relativo agli Uffici del Giudice di Pace presenti nel Distretto della Corte d’Appello di Napoli, presieduto dalla Presidente della Corte d’appello di Napoli, Maria Rosaria Covelli. L’intesa è stata sottoscritta anche dai Presidenti dei Tribunali di Napoli, Avellino, Benevento, Napoli Nord, Nola, Santa Maria Capua Vetere, Torre Annunziata, dai Presidenti dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati del Distretto, dal Dirigente Amministrativo dell’Ufficio del Giudice di Pace di Napoli, dal Dirigente del C.I.S.I.A. sede di Napoli.
L’Osservatorio, che terrà riunioni periodiche assicurando costante interlocuzione e confronto, si pone quali obiettivi l’individuazione e l’analisi delle criticità, delle problematiche e delle buone prassi di tutti gli Uffici del Giudice di Pace del Distretto e l’elaborazione di strategie, iniziative e proposte condivise, volte a migliorare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia.
La potenzialità dell’Organismo è ampia. L’Osservatorio, infatti, non solo vede partecipare i massimi rappresentanti ed esponenti della Magistratura, dell’Avvocatura del Distretto di Napoli e della struttura amministrativa, ma si avvarrà, inoltre, del patrimonio di conoscenze tratte dall’interlocuzione diretta con gli Uffici e ogni altro soggetto, anche pubblico. Si tratta di una struttura che intercetta e analizza le esigenze concrete degli utenti della giustizia, dei singoli Uffici e dell’Avvocatura, anche ai fini di portarle a conoscenza del Ministero, del CSM e dei Comuni coinvolti.
La partecipazione del Dirigente del C.I.S.I.A. di Napoli, inoltre, consentirà di affrontare le rilevanti problematiche connesse all’introduzione del Processo civile telematico e ogni altra problematica informatica, anche sotto il rilevante profilo della formazione dei giudici e del personale amministrativo.
Nella prima riunione costitutiva dell’Organismo i lavori sono stati immediatamente avviati con l’individuazione delle principali problematiche e la predisposizione di una tabella di marcia serrata che, partendo dalla raccolta dei dati rilevanti e delle istanze più urgenti, condurrà all’individuazione delle linee d’azione.
Tutti i partecipanti hanno espresso grande soddisfazione per l’istituzione dell’Osservatorio. “E’ un’iniziativa a livello distrettuale, tesa al monitoraggio, miglioramento e rafforzamento della giustizia di prossimità, di fondamentale importanza nella tutela dei diritti. Questo nuovo organismo rappresenta un passo significativo verso una maggiore efficienza del sistema giudiziario, con strumenti di analisi e confronto sulle criticità degli Uffici del Giudice di Pace del Distretto” ha dichiarato Maria Rosaria Covelli.
La Presidente della Corte ha poi sottolineato come: “L’Osservatorio sarà un punto di riferimento anche per la qualità della funzione giurisdizionale valorizzando il ruolo dei Giudici di Pace all’interno del nostro ordinamento. Attraverso il dialogo costante tra Magistratura, Avvocatura, Istituzioni e operatori del diritto, si potranno promuovere soluzioni concrete e sostenibili”.

“Ringraziando tutti coloro che hanno reso possibile questa iniziativa – ha proseguito la Presidente – auspico che l’Osservatorio diventi un modello di collaborazione e innovazione, contribuendo a un sistema di tutela dei diritti sempre più efficiente ed effettivo”.


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Polizze catastrofali: obbligo per le imprese, scadenza il 31 marzo

Il conto alla rovescia è iniziato: le imprese italiane hanno tempo fino al 31 marzo 2025 per stipulare un’assicurazione contro i danni causati da eventi naturali catastrofali come terremoti, alluvioni, frane e inondazioni. L’obbligo, introdotto dalla Legge di Bilancio 2024, mira a rafforzare la resilienza del sistema economico nazionale e ridurre il peso finanziario delle calamità sulla finanza pubblica.

Cosa prevede la normativa

L’obbligo riguarda tutte le aziende con sede legale o stabile organizzazione in Italia, iscritte al Registro delle Imprese, con l’eccezione delle imprese agricole, che già beneficiano di un Fondo mutualistico nazionale per eventi meteoclimatici estremi.

Il recente Decreto n. 18/2025 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in concerto con il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ha definito le modalità attuative. Le polizze dovranno coprire beni materiali iscritti a bilancio, come fabbricati, impianti e macchinari, con esclusione di quelli già protetti da polizze analoghe o edifici costruiti in violazione delle normative edilizie.

Rischi coperti e determinazione dei premi

Gli eventi naturali inclusi sono sismi, alluvioni, frane, inondazioni ed esondazioni. Esclusi, invece, fenomeni come mareggiate o piogge torrenziali. Le assicurazioni potranno comunque offrire coperture opzionali per altri eventi e per i danni da interruzione di attività.

I premi assicurativi saranno stabiliti in base al rischio specifico, considerando la localizzazione dell’impresa, la vulnerabilità degli immobili e le misure preventive adottate. Per garantire la sostenibilità del sistema, interverrà SACE S.p.A. con una copertura riassicurativa fino al 50% degli indennizzi, con garanzia statale fino a 5 miliardi di euro per il 2025 e 2026.

Conseguenze per chi non si adegua

Le imprese che non stipuleranno la polizza obbligatoria potranno essere escluse da contributi pubblici e agevolazioni finanziarie. Il Governo ha già previsto che l’inadempimento venga considerato come criterio per l’accesso agli incentivi statali.

Le compagnie assicurative autorizzate al ramo danni saranno obbligate ad offrire tali coperture, pena sanzioni da 100.000 a 500.000 euro da parte dell’IVASS. Tuttavia, le imprese assicuratrici potranno stabilire limiti di rischio e, una volta superati, sospendere l’emissione di nuove polizze.

Un cambiamento strutturale per la gestione del rischio

L’obbligo assicurativo rappresenta un cambiamento epocale nella protezione del patrimonio aziendale in Italia. Se da un lato impone nuovi costi per le imprese, dall’altro rafforza il sistema economico contro i disastri naturali. Il settore assicurativo dovrà ora garantire un’offerta sostenibile, mentre le imprese sono chiamate a mettersi in regola per evitare sanzioni e perdite di opportunità economiche.


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