Vaccinazione ed assenza dal lavoro

Vaccinazione Covid-19: assenza giustificata o permesso?

L’Aran traccia le coordinate per la richiesta del permesso lavorativo a scopo vaccinale

Partecipare alla campagna di vaccinazione al Covid-19 significa spesso doversi assentare dal lavoro nel giorno prefissato per l’appuntamento.  In realtà, talvolta capita che tale assenza debba protrarsi anche al giorno successivo, per gli effetti collaterali. Quindi, come gestire questa necessità nell’ambito lavorativo? Si tratta di un’assenza giustificata o di un permesso?

Il certificato di vaccinazione è sufficiente come giustificazione per assenza o permesso.

In Italia, la campagna di vaccinazione al Covid-19 procede speditamente ed è ormai estesa ad una larga maggioranza della popolazione. Ma che cosa succede quando un dipendente della Pubblica Amministrazione deve assentarsi dal lavoro per partecipare alla campagna vaccinale? A tal proposito, esistono diverse possibili giustificazioni che si possono utilizzare, selezionabili a seconda dell’attività lavorativa svolta.

Infatti, da un lato vi sono i dipendenti degli enti locali che -per specifica necessità connessa all’attività svolta- si vaccinano per prevenzione. Tra questi compaiono: medici, personale sanitario, forze dell’ordine e personale educativo; per loro, una corsia preferenziale per la vaccinazione. Per questo motivo, la loro assenza è completamente giustificata ed equiparata allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Dall’altro lato si trovano tutti gli altri dipendenti degli enti locali -la cui necessità vaccinale non è connessa all’attività lavorativa. Per loro, l’Aran (Agenzia per la rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) applica le regole generali: a scelta del dipendente, il permesso è per ragioni personali, familiari, breve o a recupero. Infine -e questo riguarda tutti i dipendenti- per fornire la giustificazione dei suddetti permessi, è sufficiente il rilascio del certificato di vaccinazione.

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Perché la giustizia è rappresentata bendata?

L’iconografia della Giustizia muta nel tempo in rappresentanza delle epoche di riferimento

Nell’immaginario collettivo il termine “Giustizia” porta con sé vari, eterogenei significati, tra i quali l’immagine iconografica. Infatti, ad oggi, se si pensa alla raffigurazione di Giustizia, è pensiero comune immaginare una dea bendata, bilancia e spada alla mano. Ora, poiché suddetti elementi non compaiono casualmente, e non sono fissi nel tempo: qual è il loro significato?

La benda della Giustizia indica imparzialità, uguaglianza, capacità di non farsi influenzare

L’immagine iconografica della Giustizia ha subìto, nel corso degli anni, una complessa evoluzione, a seconda delle epoche e dello spirito comune. Infatti, in origine, la figura era connotata da estrema sacralità: per gli antichi greci era Dike, per i romani Iustitia. Tuttavia, a partire dalla fine del Medioevo inizia un lento processo di laicizzazione che conduce all’ormai consolidata iconografia.

Riguardo la bilancia, essa simboleggia equilibrio tra bene e male, misura, prudenza, ponderatezza ed equità. Infatti, questi sono alcuni dei compiti principali che la giustizia è tenuta a conservare, allo scopo di ristabilire ordine e armonia. Invece, la spada incarna il significato intrinseco del giudizio: forza e punizione, sanzione e severità della pena per chi non la rispetta.

Riguardo la benda: anche se inizialmente, la sua connotazione è negativa (sfiducia nell’idea stessa di giustizia), nel corso del tempo, essa diventa marcatamente positiva. Infatti, oggigiorno, l’idea è che non essendo in grado (e non dovendo) distinguere chi ha davanti, Giustizia tratti tutti allo stesso modo. In questo quadro, essa rappresenta imparzialità e uguaglianza: priva di condizionamenti o influenze essa compie il suo lavoro senza guardare in faccia nessuno.


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Legalità delle dashcam per auto

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Il disconoscimento dei filmati prodotti dalla dashcam non è un procedimento agevole

Piccole telecamere che aiutano a far parcheggiare, far manovra e proteggere l’auto da malintenzionati, le dashcam sono, ad oggi, uno strumento indubbiamente diffuso. Inoltre, anche se la legge non ne vieta istallazione né utilizzo, le forze di polizia possono sanzionare per un loro eventuale posizionamento scorretto. Infine, dal punto di vista della privacy, per essere utilizzato, il contenuto derivante dalla dashcam deve rispettare alcune regole precise.

Il Codice della Strada non vieta l’installazione né l’utilizzo delle dashcam

Se vi state chiedendo che cosa è una dashcam, sappiate che con questo termine inglese si definiscono quelle piccole telecamere installate in auto. Nello specifico, esse vanno posizionate sul cruscotto o vicino allo specchietto retrovisore e possono essere tanto piccole da non essere quasi visibili. Il loro utilizzo è volto tanto alla registrazione di immagini, quanto ad un aiuto pratico (parcheggi e manovre) e a protezione dell’auto.

Va detto che il Codice della Strada non disciplina l’utilizzo delle dashcam né il loro posizionamento all’interno dell’auto. Tuttavia, esse non devono andare ad ostruire o restringere il campo di visibilità e quindi limitare la sicurezza del veicolo. Quindi (art. 141 comma 2), in caso di posizionamento scorretto e allo scopo di garantire la sicurezza degli utenti stradali, la polizia può irrogare una sanzione.

Oltre a ciò, la dashcam ha valore probatorio in caso di incidente e -in questi casi- il suo disconoscimento è generalmente molto improbabile. Infine, la dashcam ha importanti risvolti anche in ambito di privacy; infatti, per essere utilizzato, il suo contenuto deve rispettare quattro regole precise. Insomma, è lecito riprendere il paesaggio però non i dati sensibili altrui e le immagini devono essere utilizzate esclusivamente a scopo personale.

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PAS non è teoria accoglibile servicematica

La PAS non è teoria accoglibile

Dopo il rigetto dell’Oms, ora anche i Tribunali dicono stop alla PAS

In materia di affidamento del minore e protezione dello stesso, inizia alla Camera l’esame della proposta di legge n.3148. A firma della deputata Boldrini, la proposta nasce per contrastare l’utilizzo improprio di teorie prive di fondamento scientifico nelle aule di giustizia. Dunque, tra le ipotesi, c’è l’eliminazione di fondamenti quali la sindrome di Münchhausen e la sindrome da madre malevola, o PAS.

Eliminare la PAS dai Tribunali per rinforzare l’insostituibile ascolto del minore

Nel corso degli anni, la PAS è divenuta criterio importante nell’ambito di affido dei figli nelle cause di separazione. Tuttavia, essendo priva di fondamento scientifico, quella dell’alienazione parentale è oggi una teoria eliminata dal Manuale diagnostico dei disturbi mentali, nonché rigettata dall’Oms. Così, anche sul piano legislativo si alzano voci per una sua eliminazione dalle aule dei Tribunali.

Da qui la proposta di legge che muove verso il distacco dalla teoria per un maggior ascolto del minore. Dunque, secondo la proposta giunta in esame della Commissione Giustizia alla Camera lo scorso 15 giugno, bisogna innanzitutto riconoscere il minore. In secondo luogo, ci si deve informare sulla responsabilità genitoriale (eventuali trascuratezze o abusi), e agire verso l’ascolto obbligatorio del minore.

Il quarto punto è la conseguenza diretta del terzo: dopo l’ascolto, il giudice deve tener conto del prioritario interesse della prole. Successivamente, qualora venissero riferiti episodi di violenza domestica o abusi, il figlio minore verrebbe affidato esclusivamente ad uno dei genitori. Gli art. 6, 7 e 9 si occupano della professionalità del personale implicato, mentre l’otto fornisce le linee guida in caso di affidamento a comunità.

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Anomalie Servizi PCT – Consultazioni

Si comunica che a causa di anomalie da parte del sistema Ministeriale (non di Servicematica), si stanno verificando delle interruzioni temporanee. Consigliamo di ripetere l’operazione in un secondo momento, se non dovesse andare a buon fine.

Ricordiamo che sarà possibile depositare telematicamente con Service1, creando un nuovo fascicolo ed inserendo il numero di RG.

Permesso legge 104

Permesso legge 104: abuso e licenziamento

I permessi legge 104 devono essere utilizzati solo per assistere il parente disabile

La Cassazione si pronuncia in merito all’utilizzo dei permessi riconosciuti sulla base della legge n.104/ 1992. Infatti, usufruendo della 104, è possibile ottenere permessi lavorativi allo scopo di assistere i/il parenti/e disabili/e. Tuttavia, che cosa accade se un lavoratore dipendente ottiene tale permesso ma lo utilizza per svolgere attività altre rispetto all’assistenza?

Utilizzo improprio legge 104: abuso di diritto e violazione principio della correttezza

Succede che ad un dipendente vengano concessi due giorni sulla base della legge 104, per assistere la madre malata. Succede inoltre che tale lavoratore invece di svolgere suddetta attività di assistenza, compia attività del tutto incompatibili con la legge 104. Quindi, egli viene scoperto dall’investigatore incaricato dal datore di lavoro e, a questo punto, scatta il licenziamento disciplinare.

In effetti, l’accertamento investigativo rivela che la giornata dell’uomo trascorre tra mercato, supermercato e gita al mare in famiglia. Inoltre, non avendo comunicato il cambio di residenza della madre, il datore è privato della possibilità di effettuare direttamente i controlli. Perciò, sia i giudici di primo che di secondo grado si dichiarano concordi nel confermare la legittimità del licenziamento del dipendente (art.54 del CCNL).

Dunque, il lavoratore ricorre in Cassazione: tra i cinque motivi sollevati compaiono il mancato avviso dei controlli ed una sproporzione della sanzione. Tuttavia, la decisione degli Ermellini è chiara: l’utilizzo improprio dei permessi è abuso del diritto, il licenziamento è legittimo. Per di più, la tenuta del lavoratore viola anche i principi di buona fede e correttezza nei confronti del datore.

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Avvocati ed assegno unico figli

Avvocati: assegno unico per i figli

Anche gli avvocati hanno diritto all’assegno unico per i figli minori

Dal 1° luglio al 31 dicembre 2021 anche gli avvocati, in quanto liberi professionisti, potranno beneficiare dell’assegno unico per i figli. Comunque, come ricorda la Cassa Forense, si tratta di una misura transitoria: limitata al secondo semestre 2021. Inoltre, l’assegno spetta -previa verifica dei requisiti- a decorrere dal mese di presentazione della domanda, con arretrati se presentata entro settembre.

L’importo dell’assegno unico decresce in rapporto al valore dell’ISEE

L’assegno unico è una misura inserita nel Decreto Sostegni bis, che sarà avviata per tutte le famiglie con requisiti dal 1° gennaio 2022. Inoltre, dal prossimo 1° luglio e fino al 31 dicembre, potranno beneficiarne i liberi professionisti e -dunque- anche gli avvocati. La condizione sine qua non è di avere un ISEE relativo all’anno di riferimento inferiore a 50.000euro.

A tal proposito, il CNF, all’apposita sezione “Info Cassa News” del suo sito, specifica che “la nuova misura è transitoria”. In effetti, è un assegno limitato al secondo semestre del 2021, che decorre dal mese di presentazione stessa della domanda. Inoltre, per le domande presentate entro il 30 settembre 2021, si ha diritto agli arretrati a partire dal mese di luglio.

E’ importante sottolineare che l’importo dell’assegno unico è inversamente proporzionale al valore indicato dall’ISEE. Quindi, con ISEE inferiore a 7.000euro e nucleo di 3 o più figli: 218euro a figlio. Invece, con 40.000euro e 1 o 2 figli: 30euro a figlio; comunque, tale assegno è maggiorato di 50euro per ciascun figlio con disabilità.

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Genitori separati e vaccini

Vaccino ai figli di genitori separati

Cosa succede nel caso di vaccino del figlio di due genitori separati, in disaccordo?

Affinché si possa effettuare il vaccino ad un minorenne è necessario avere il consenso di entrambi i genitori. Tuttavia, tale unanimità di consenso non è sempre semplice da ottenere, soprattutto nel caso di figli di genitori separati. A tal proposito, è necessario analizzare il punto di vista legale della vicenda anche nel caso di figli quasi maggiorenni.

Il Tribunale opta per l’opzione meno pregiudizievole nei confronti del figlio

Dallo scorso 2 giugno, in tutta Italia si è aperta la campagna vaccinale contro il Covid-19 anche ai minorenni. Nello specifico, affinché il minore sia vaccinato, è sufficiente presentare il consenso di entrambi i genitori. Tuttavia, soprattutto nel caso di figli di genitori separati –e spesso solamente per ripicca, tale unanimità non è poi così scontata.

Legalmente, il punto di partenza è la non obbligatorietà del vaccino anti Covid-19, proprio come contro papilloma virus e meningite. Tuttavia, in questi ultimi due casi, generalmente non si autorizzava la vaccinazione anche perché “non esisteva un grave pregiudizio vista la scarsa diffusione delle malattie sul territorio nazionale”. Cosa che -evidentemente- non vale per il Covid-19. Dunque, se la separazione è in corso, a giudicare la controversia è il giudice della separazione.

Invece, se separazione o affidamento sono già definiti, il genitore favorevole alla vaccinazione può proporre ricorso (ex art. 709 ter c.p.c.) al Tribunale territoriale competente. Infine, nel caso di figli quasi maggiorenni, la giurisprudenza tende a dare forte peso alla volontà del minore. Infatti, pur essendo ancora formalmente minorenne, la soluzione potrebbe trovarsi proprio nell’ascolto del ragazzo e nella sua volontà di autodeterminarsi.

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Legge mail ex servicematica

Ex spione condannato per due reati

Leggere email della ex e tentare di conoscerne il traffico telefonico è reato

Processo penale per l’ex marito che legge le email della moglie e accede al sito del gestore telefonico per monitorarne il traffico. La Cassazione definisce il reato in questione come violazione della corrispondenza e accesso abusivo ad un sistema informatico. In effetti, si tratta di reato anche se l’imputato è l’effettivo proprietario della Sim e ne conosce le credenziali.

La tutela della riservatezza prescinde da ragionamenti connessi al diritto di proprietà

L’ex marito legge le email della moglie e accede al sito del gestore telefonico della stessa per conoscerne il traffico telefonico. La Corte d’Appello (ai sensi dell’art.81 comma 2 artt. 615 ter e 616 c.p) qualifica il fatto in accesso abusivo a sistema informatico o telematico e violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza. In questo quadro, la pena viene definita in tre mesi di reclusione; quindi, l’imputato ricorre in Cassazione.

I motivi di ricorso sollevati dall’ex marito vanno dall’intervenuta prescrizione alla mancanza di violazione passando per l’eccessiva somma risarcitoria stabilita. In effetti, la Cassazione annulla i reati penali per prescrizione, però dichiara inammissibile per manifesta infondatezza il terzo motivo sollevato dall’uomo. Infatti, l’accesso abusivo ad una casella di posta elettronica protetta da password costituisce -parallelamente- delitto di accesso abusivo del sistema informatico e violazione di corrispondenza.

Nello specifico è in relazione all’acquisizione del contenuto delle email custodite nell’archivio che tale reato concorre con quello di violazione di corrispondenza,. Infine, si tratta di reato anche se l’imputato è l’effettivo proprietario della Sim e ne conosce le credenziali. Infatti, la tutela della riservatezza prescinde da ragionamenti connessi al diritto di proprietà: confermato l’importo di 1.500 euro a risarcimento del danno.

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