Obbligo vaccinale, è possibile fare ricorso?

Come fare ricorso per la sanzione dovuta all’obbligo vaccinale over 50?

Col decreto legge n. 1 del 7 gennaio 2022 l’obbligo vaccinale si estende non più solo al personale sanitario, ma anche a tutti gli over 50. Difatti, dall’art. 1 si evince che fino al 15 giugno 2022 tale misura si estende a tutti i cittadini italiani e altri residenti UE. Chiunque violi tale obbligo incorrerà in una sanzione di 100 euro, con possibilità di ricorso al Giudice di Pace.

Obbligo vaccinale: cosa prevede la Legge per la tutela della salute pubblica

Innanzitutto, specifichiamo che il fine annesso a tale misura è la tutela della salute pubblica e il mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza. Questo decreto si applica a:

  • Cittadini Italiani;
  • Residenti in Italia ma cittadini di altri Stati membri dell’UE;
  • Cittadini stranieri.

Come chiariscono gli artt. 34 e 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 riguarda i cittadini che abbiano compiuto il cinquantesimo anno d’età salvo ciò che gli artt. 4, 4 -bis e 4 -ter. prevedono.

In quali casi si incorre in sanzioni con multe da 100 euro per l’obbligo vaccinale over 50?

L’art. 4 sexies specifica che chiunque violi tale obbligo vaccinale incorrerà in una sanzione di 100 euro nei casi che elenchiamo:

  • Se alla data del 1° febbraio 2022 non si iniziava il ciclo vaccinale primario;
  • Qualora dal 1° febbraio 2022 non ci si sottoponesse alla dose di completamento del ciclo vaccinale primario. Nel rispetto delle indicazioni e nei termini della circolare del Ministero della Salute;
  • Se dal 1° febbraio 2022 non si effettuava la dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario entro i termini di validità delle certificazioni verdi COVID-19.

La multa dei 100 euro avverrà ad opera del Ministero della Salute tramite l’Agenzia delle Entrate Riscossione. Successivamente, tali enti provvederanno a indicare agli interessati un termine perentorio di dieci giorni dalla ricezione della sanzione. Ora, tali soggetti dovranno comunicare l’eventuale certificazione relativa al differimento o all’esenzione dall’obbligo vaccinale. Ovvero, una ragione di assoluta e oggettiva impossibilità.

Poi, se la ASL non conferma l’insussistenza dell’obbligo vaccinale o l’impossibilità di adempiervi, provvede a notificare un avviso di addebito. Tale avviso ha valore di titolo esecutivo e deve notificarsi entro centottanta giorni dalla relativa trasmissione.

Come fare ricorso per l’obbligo vaccinale over 50 dopo aver ricevuto la multa

Ora, se il trasgressore non intende pagare la sanzione entro il termine può fare ricorso entro 30 giorni al Giudice di Pace. A questi pagherà il contributo unificato dal valore di una quarantina d’euro. Inoltre, davanti al giudice si dovrà presentare da solo, senza assistenza dell’avvocato. Nello specifico, se si decide di fare ricorso conviene chiedere all’Agenzia di sospendere l’addebito dell’avviso.

A questo punto, si potrà accogliere o rigettare il ricorso. Tuttavia, il soccombente in caso di rigetto ha ancora una possibilità. Infatti, può impugnare la decisione del Giudice di Pace davanti al Tribunale nel termine di 30 giorni da quando gli si notifica la sentenza.

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In Tribunale con il Green Pass

Anomalie Servizi PCT – Consultazione

Si comunica che a causa di anomalie da parte del sistema Ministeriale (non di Servicematica), si stanno verificando delle interruzioni temporanee.

Consigliamo di ripetere l’operazione in un secondo momento, se non dovesse andare a buon fine.

Ricordiamo che sarà possibile depositare telematicamente con Service1, creando un nuovo fascicolo ed inserendo il numero di RG

Parlamento UE approva il nuovo Regolamento sui Servizi Digitali

Il 21 gennaio scorso il Parlamento Europeo vota e approva in plenaria la proposta del Regolamento sui Servizi Digitali (DSA). Al medesimo evento si elegge la nuova presidente del Parlamento europeo, si discutono le priorità della Francia per la Presidenza del Consiglio e infine si votano appunto le misure sui servizi digitali. Tuttavia, l’approvazione del DSA e la successiva versione adottata dal Parlamento non sembra adeguarsi agli obiettivi che ci si prefissava nel 2020.

Digital Service Act approvato dal Parlamento dell’Unione Europea: perplessità in merito alla versione

Innanzitutto, ricordiamo che il fine del DSA è principalmente quello di stabilire delle regole comuni per le piattaforme digitali. Nello specifico, è fondamentale la questione riguardo lo stabilire per tutti cosa sia illegale in ambito digitale, sia online che offline. Tuttavia, il DSA che il Parlamento approva prevede dei limiti che paiono indebolire la lotta all’illegalità invece che contrastarla con maggiore forza.

In effetti, tra le altre cose si decide di adottare un sistema di “notifica e azione” e una garanzia per la rimozione di prodottiservizi e contenuti. Inoltre, si rafforza l’obbligo di tracciamento dei commercianti, che per il momento riguarda solo i marketplace. Dunque, si tratta di una soluzione che ha una sua efficacia solo per quanto riguarda la lotta alla contraffazione ma non per i contenuti.

Invece, è necessario che i temi del negoziato riguardino anche i motori di ricerca, luogo ricco di link e contenuti illegali. Oltre a questo, si devono risolvere gli aspetti di dettaglio sullo stay down e un’apertura maggiore vero servizi di monitoraggio.

Le modifiche al DSA introdotte con l’approvazione da parte del Parlamento dell’Unione Europea

Ora, stiliamo un elenco delle modifiche in merito al nuovo Regolamento per i Servizi Digitali che il Parlamento UE approva:

  • Esenzione delle micro e piccole imprese da alcuni obblighi;
  • Scelta più trasparente e autonoma sulla pubblicità mirata. Nello specifico, sarà possibile rifiutare il consenso a un sito senza troppe complicazioni o giri di parole;
  • Proibizione di tecniche di targeting e amplificazione rispetto a categorie di soggetti vulnerabili;
  • Risarcimenti possibili per eventuali danni a seguito dell’inadempimento di obblighi di diligenza da parte delle piattaforme;
  • Divieto di tecniche ingannevoli o di nudging da parte delle piattaforme online che possano influenzare negativamente gli utenti;
  • Scelta maggiore in termini di classificazione su algoritmi. Ossia, la possibilità che piattaforme grandi forniscano almeno un sistema di raccomandazione non basato sulla profilazione;
  • Rispetto da parte dei fornitori di libertà d’espressione e di pluralismo dei media;
  • Nuova disposizione sul diritto di utilizzo e pagamento dei servizi digitali in maniera anonima.

Dunque, ciò che volge maggiormente le spalle al progresso è proprio un’azione efficace di contrasto dei contenuti illegali online. Paradossalmente, rischia invece di frenare le attività di lotta all’illegalità su vari fronti. Ad esempio, per quanto riguarda lo streaming illegale di contenuti; la diffusione degli stessi sulle piattaforme di messaggistica o la scarsa efficacia dell’intervento dei motori di ricerca.

Quindi, va alla presidenza di turno francese migliorare queste proposte.

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L’Avvocatura dice no alle sentenze da remoto

Spese legali a carico dello Stato. In quali circostanze?

Accesso alla giustizia come garanzia essenziale per i cittadini, a partire dai non abbienti. Da qui si parte nell’emanazione di una recente sentenza della Corte Costituzionale in merito alle spese legali a carico dello Stato. È lo Stato a farsi carico delle spese per i non abbienti, non solo nel processo ma anche nella mediazione obbligatoria conclusa con successo. Vediamo assieme perché.

Stato: spese legali nel processo e nella mediazione obbligatoria conclusa con successo

Una nota che l’ufficio stampa della Consulta diffonde illustra le motivazioni con cui la Corte Costituzionale dichiara illegittima la disciplina sul patrocinio a spese dello Stato. Nello specifico, si evince:

“là dove non prevede che questo beneficio possa essere riconosciuto ai non abbienti anche per l’attività difensiva svolta in loro favore nel procedimento di mediazione obbligatoria concluso con esito positivo”.

Si tratta di una decisione importante per il diritto alla tutela assicurativa dell’avvocato. Lo è nonostante riconoscere a tutti tale diritto pesa sull’equilibrio di bilancio. Infatti, si tratta di un’esigenza che:

“recede di fronte alla possibilità, per il legislatore, di intervenire, se del caso, a ridurre quelle spese che non rivestono il medesimo carattere di priorità”

Dunque, è lo Stato a doversi fare carico delle spese legali per i non abbienti non solo nel processo ma anche nella mediazione obbligatoria. Difatti, la Corte ricorda che si tratta di:

“una spesa costituzionalmente necessaria per assicurare l’effettività dell’inviolabile diritto al processo e alla difesa”

Il giudice Luca Antonini è il Redattore della sentenza (n. 10 del 2022), con la quale si afferma che l’attuale disciplina è dunque irragionevole e lesiva del dritto di difesa.

Lesivo non consentire ai non abbienti di avvalersi del patrocinio dello Stato per le spese legali

Nello specifico, l’incostituzionalità riguarda gli articoli 74, secondo comma75, primo comma, e 83, secondo comma, del Dpr n. 115 del 2002. Nella sentenza si spiega che è irragionevole imporre un procedimento in alcune materie per finalità deflattive ma non riconoscere anche la possibilità di ottenere il patrocinio a spese dello Stato.

Secondo il giudice delle leggi questo potrebbe indurre a non raggiungere l’accordo in fase di mediazione per rivolgersi al giudice stesso. Questo allo scopo di ottenere il pagamento a carico delle Stato delle spese difensive. Di conseguenza, si vanificano le finalità deflattive della mediazione obbligatoria.

Inoltre, secondo la Corte è lesivo del diritto di difesa prevedere come obbligatorio un procedimento che può condizionare l’esercizio del diritto di azione. E, non assicurare al contempo la possibilità per i non abbienti di avvalersi del patrocinio a spese dello Stato.

Corte Costituzionale: irragionevole e lesiva del diritto di difesa l’attuale disciplina

Ora, la pronuncia precisa che:

“quando una scelta legislativa giunge sino a impedire a chi versa in una condizione di non abbienza l’effettività dell’accesso alla giustizia vengono nitidamente in gioco il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.) e l’intero impianto dell’inviolabile diritto al processo di cui ai primi due commi dell’art. 24 Cost.”.

Infine, la Corte Costituzionale sostiene che:

“è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”.

Il valore della decisione è fondamentale in questo periodo. Infatti, il PNRR tende ad anteporre le ragioni dell’efficienza anche nel sistema giudiziario. Tuttavia, il rischio è quello di sacrificare la centralità della persona.

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Privacy ai tempi della pandemia, cosa dice il Garante

Che valore ha il diritto alla privacy nel periodo pandemico da Covid-19?

Tre sono in particolare le soluzioni che fanno sorgere dubbi ai cittadini in merito alla fine che fanno i propri diritti di privacy in questo periodo. Ossia, la Didattica a distanza (DAD), il Green Pass e ora il Super Green Pass. A tal proposito, il Garante Privacy nota come i dati personali nei confronti di tali soluzioni siano talvolta trattati in maniera fumosa.

La privacy durante il periodo di pandemia da Covid 19: l’opinione del Garante

Il 7 dicembre del mese scorso l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali esprimeva perplessità nei confronti dell’introduzione del Green Pass. Nello specifico, il Garante sottolineava e auspicava che questo strumento, ideato per la sicurezza personale, non si trasformi in strumento di sorveglianza di massa.

Inoltre, il Garante mostrava dubbi anche in merito alla consegna della Certificazione Verde da parte dei dipendenti al proprio datore di lavoro. In effetti, egli afferma che:

“La prevista ostensione (e consegna) del certificato verde a un soggetto, quale il datore di lavoro, al quale dovrebbe essere preclusa la conoscenza di condizioni soggettive peculiari dei lavoratori come la situazione clinica e convinzioni personali, pare infatti poco compatibile con le garanzie sancite sia dalla disciplina di protezione dati, sia dalla normativa giuslavoristica (artt. 88 Reg. Ue 2016/679113 d.lgs. 196 del 20035 e 8 l. n. 300 del 197010 d.lgs. n. 276 del 2003).”

L’intervento originario del Garante in merito al diritto di privacy durante la DAD

Il primo intervento del Garante Privacy dacché il Covid ha inizio risale a marzo 2020 in merito alla didattica a distanza. Al proposito, chi forniva la piattaforma era esente dalla ricezione di una nomina, ai sensi dell’art. 28 del GDPR. Effettivamente, la motivazione è che il servizio si rivolge direttamente agli utenti.

In quest’occasione, accade che uno studente si oppone all’utilizzo di tale servizio. In effetti, dato che si da libero consenso per l’uso del servizio, lo studente aveva il diritto di esprimere diniego. Tuttavia, tale possibilità non si prese in considerazione.

Garante in merito al diritto di privacy col piano vaccinale e le vaccinazioni nel luogo di lavoro

Successivamente, il Garante Privacy si esprime con Linee Guida anche in merito al piano vaccinale. Così come alla possibilità per i datori di lavoro di offrire il servizio di vaccinazione in loco. Le sue direttive sono contenute nel Documento “Vaccinazione nei luoghi di lavoro: indicazioni generali per il trattamento dei dati personali”.

Qui, si stabilisce che:

“il datore di lavoro, attraverso le competenti funzioni interne, potrà fornire al professionista sanitario indicazioni e criteri in ordine alle modalità di programmazione delle sedute vaccinali, senza però trattare dati personali relativi alle adesioni di lavoratrici e lavoratori identificati o identificabili”.

Tuttavia, a questa affermazione segue quest’altra eccezione:

“Resta salvo che ove dall’attestazione prodotta dal dipendente sia possibile risalire al tipo di prestazione sanitaria da questo ricevuta, il datore di lavoro, salva la conservazione del documento in base agli obblighi di legge, dovrà astenersi dall’utilizzare tali informazioni per altre finalità nel rispetto dei principi di protezione dei dati (v. tra gli altri, il principio di limitazione della finalità di cui all’art. 5, par. 1, lett. b), del Regolamento) e non potrà chiedere al dipendente conferma dell’avvenuta vaccinazione o chiedere l’esibizione del certificato vaccinale.”

La discussa questione dell’obbligatorietà del Green Pass e Super Green Pass in periodo di pandemia

Ora, torniamo nuovamente con la memoria all’audizione del Garante dello scorso 7 dicembre. Qui, l’Autorità cercava di giustificare le proprie scelte in aderenza ai principi europei sul trattamento dei dati personali. Nello specifico, lo fa con un esercizio retorico che si concretizza in una specie di “excusatio non petita” di prevenzione.

Questa posizione dell’Autorità ha fatto sì che scaturissero critiche nei confronti del suo contegno. Effettivamente, fino al 15 ottobre si impedivano specifiche sull’obbligatorietà del Green Pass per ragioni di tutela dell’individuo.

Dunque, le scelte in merito alla pandemia, le restrizioni, le certificazioni, saranno un compromesso senza ripercussioni? Sono il male minore che possiamo accettare? E cosa comporterà per il futuro la conoscenza della possibilità di uno strumento come il Green Pass?

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Truffa online dati sensibili clienti Treccani

Inchiesta alla Guardia di Finanza per una truffa delle liste di clienti Treccani

È nel 2019 che comincia l’inchiesta della Guardia di Finanza che vede ora finalmente la sua conclusione. Tutto cominciava con telefonate ai clienti dell’Enciclopedia Treccani, nelle quali l’identità dietro la cornetta conosceva tutto dell’altra. Ora, ai quattro indagati si contesta l’art. 167 del Codice della Privacy: ovvero, il trattamento illecito di dati. Vediamo assieme l’interessante caso.

Trattamento illecito di dati personali nella truffa del database ai clienti Treccani

Il caso coinvolge una cliente Treccani che riceve una telefonata da un call center che dimostra di conoscere molte cose su di lei. Ossia, sa i suoi dati anagrafici, quanto e cosa acquistava fino a quel momento dalla Treccani. Infine, la chiamata si conclude con una proposta: le chiede di incontrarsi per una rivalutazione delle opere d’arte che possiede a casa.

Ora, se l’incontro non aveva luogo, il contatto si concludeva con la telefonata. Invece, se i due fissavano appuntamento tale soggetto si presentava a casa e diceva di lavorare per una società X che propone le proprie opere d’arte. Dunque, non per la Treccani.

Come si anticipava, sono quattro gli indagati ai quali si prevedono diverse sanzioni amministrative. Ora, gli atti sono già al Garante per la protezione dei dati personali che farà un’istruttoria. Inoltre, deciderà quanto tutta la questione verrà a costare agli accusati. E, nel caso peggiore si potrà arrivare a una sanzione da 20 milioni di euro.

In merito, Treccani vuole specificare che la profilazione dei dati avveniva per database con informazioni che raccolsero nel passato. Invece, con gli attuali sistemi informatici questo non sarebbe più possibile.

Le specifiche del caso della truffa di dati della clientela Treccani

Nello specifico, dei quattro indagati uno è irreperibile e dal quale gli altri tre acquistavano i dati. L’acquisto avveniva con tanto di fattura emessa da una società londinese che in realtà non esiste. Tra l’altro, risulta che da questa società tra il 2020 e il 2021 siano stati trasferiti più di due milioni di euro. Sembra che la scelta non sia casuale, dato che il Regno Unito è ora extra-europeo è più difficile effettuare controlli.

In realtà, se si acquista all’estero una lista di clienti, qualsiasi società italiana dovrebbe effettuare controlli per verificare che il consenso sia reale. Invece, le indagini dimostrano che migliaia di generalità di clienti si sottraevano illecitamente, e poi si catalogavano e commercializzavano senza consenso.

Inoltre, sono due le società con sede a Milano che fanno capo agli indagati e che detenevano illegalmente le liste clienti. Ovvero:

  • Progetto Archivio Storico;
  • Assegnazione Arte.

Nei loro database, su 10.244 nominativi ben 5.373 si riconducevano alla Treccani e alla casa editrice EditaliaEntrambe società al 99% dell’Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, che vende opere d’arte e numismatica.

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Trasparenza, responsabilità e vigilanza: Camera dice sì alla Legge sulle Lobby

Il 12 gennaio 2022 la Camera approva la proposta di Legge che disciplina l’attività di lobbying. Il testo riceve 339 voti a favore, nessun contrario e 42 astenuti e contiene norme in favore di trasparenza, individuazione delle responsabilità e vigilanza. Ora, il testo si dovrà discutere e approvare in Senato.

Composizione normativa e finalità della Legge che disciplina l’attività di lobbying

La Legge in questione contiene le “Norme sulla trasparenza delle relazioni tra i rappresentanti di interessi particolari e i membri del Governo e i dirigenti delle amministrazioni statali”. Il testo si compone di 12 articoli ed è il risultato della fusione di diverse proposte che si presentavano nel corso del 2018-19, ovvero:

  • Deputata Madia, n.721;
  • Collega Fregolent, n. 196;
  • Deputato Silvestri, n. 1827.

Le finalità della Legge sulle Lobby sono differenti e si specificano nell’art. 1 del testo. Di seguito, li riportiamo:

  • Far sì che i processi decisionali si caratterizzino per la trasparenza;
  • Fare in modo che si conosca l’attività dei soggetti che influenzano i processi decisionali;
  • Rendere facile l’individuazione delle responsabilità delle decisioni;
  • Favorire la partecipazione ai processi decisionali da parte di cittadini e delle rappresentanze degli interessi;
  • Consentire che i decisori pubblici acquisiscano una più ampia base informativa sulla quale fondare scelte consapevoli.

Tuttavia, ad alcuni soggetti tale legge non si applica. Questi si evincono dall’art. 3 e tra essi figurano:

  • Giornalisti;
  • Rappresentanti dei Governi;
  • Partiti;
  • Movimenti e gruppi politici di Stati stranieri;
  • Rappresentanti delle confessioni religiose riconosciute.

La trasparenza della Legge sulle Lobby

Ora, per assicurare un lavoro di piena trasparenza si istituisce un Registro pubblico per la trasparenza dell’attività. Questo è visionabile in forma digitale e si suddivide in:

  • Parte che si riserva ai soggetti previ d’iscrizione così come alle PA;
  • Area pubblica e accessibile in modalità telematica attraverso l’impiego delle credenziali che si richiederanno.

Ovviamente, al registro devono iscriversi coloro che vogliono svolgere l’attività di rappresentanza di interessi. Poi, una volta completa l’iscrizione al Registro i rappresentanti d’interessi:

  • Godono di una serie di diritti come da art. 8;
  • Sottostanno a obblighi precisi e dovranno sempre essere consapevoli di cause di esclusione e incompatibilità, come da art. 9.

Tuttavia, a tale Registro non si potranno iscrivere una serie di soggetti, tra cui:

  • Minori;
  • Soggetti con interdizione dai pubblici uffici;
  • Dirigenti Pubblici.

Ora, si attende l’entrata in vigore del Registro con una pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Codice deontologico, sanzioni e comitato di sorveglianza

Sui processi decisionali pubblici vigilerà il Comitato di sorveglianza. Questo si istituisce presso l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato che si compongono da:

  • Magistrato della Corte di Cassazione;
  • Membro del consiglio nazionale dell’economia e del lavoro;
  • Magistrato della Corte dei Conti.

In merito, specifichiamo che a tali soggetti la legge non riconosce alcun compenso, né gettone di presenza o emolumento.

Tale Comitato si istituirà con DPR e i suoi compiti saranno:

  • Tenere il Registro;
  • Ricevere e pubblicare sul sito le relazioni annuali dei rappresentanti di interessi;
  • Redigere la relazione annuale sull’attività dei rappresentanti di interessi che poi si trasmetterà al Presidente del Consiglio dei ministri e alle Camere;
  • Irrogare le sanzioni ai rappresentanti d’interessi;
  • Raccogliere le segnalazioni riguardo l’osservanza della legge e del codice deontologico da emanarsi entro 4 mesi dall’entrata in vigore della legge.

Coloro che non rispetteranno le regole incorreranno in sanzioni di diversa natura in base alla gravità della violazione. Così, potranno incorrere in: ammonizionicensuresospensioni o persino cancellazione. Discorso simile si fa per chi non rispetti le disposizioni del Codice deontologico.

Infine, si prevedono sanzioni pecuniarie da 5000 a 15.000 euro per chi:

  • Omette di fornire informazioni;
  • Fornisce informazioni false all’atto d’iscrizione al registro;
  • Non le aggiorni periodicamente;
  • Violi l’obbligo di integrazione dei dati richiesto dal Comitato di Sorveglianza.

 

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Cartabia firma il decreto di delega al governo per la Riforma della Giustizia Civile

La Ministra della Giustizia Marta Cartabia firma il decreto costituzionale dei Gruppi di lavoro per l’attuazione degli schemi del decreto legislativo Legge 26 novembre 2021, n. 206Ovvero, la delega al Governo per l’efficienza del processo civile e la disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie. Si tratta di una delle riforme indicate tra gli obiettivi del PNRR.

Gruppi di lavoro per delega al governo sulla Riforma della Giustizia Civile

I gruppi di lavoro per l’elaborazione degli schemi del decreto legislativo sono 7 e lavoreranno in autonomia. Complessivamente, si coinvolgono ben 73 professionisti da impiegare nei diversi settori che la riforma prevede. Tra cui:

  • Professori universitari;
  • Magistrati;
  • Avvocati;
  • Tecnici dell’Ufficio Legislativo.

Come sono strutturati i vari gruppi di lavoro e quali sono i loro compiti all’interno del decreto

Ognuno di loro avrà il compito d tradurre i criteri di delega, che il Parlamento ha già approvato. Vediamo di seguito come si impiegano i vari gruppi di lavoro:

  1. Opera in materia di procedure di mediazionenegoziazione assistita e arbitrato;
  2. Si occupa dei principi generali in relazione al processo civiledigitalizzazione dello stesso e di ufficio per il processo;
  3. Elaborerà degli schemi di d.lgs. per il procedimento di primo grado (art. 1, commi 5, 6, 7, 10, 16, 17, 21 e 22);
  4. Si occuperà di giudizio d’appello e giudizio di Cassazione (art. 1, commi 8 e 9);
  5. Si impegnerà in materia di processo del lavoro, processo di esecuzione e di procedimenti in camera di consiglio (art. 1, commi 11, 12, 13 e 14);
  6. Produrrà schemi di decreto legislativo in materia di procedimento relativo a personeminorenni e famiglie (art. 1, commi 23 e 26);
  7. Elaborerà schemi di decreto legislativo sulla riforma ordinamentale ed istituzione del tribunale per le persone, per i minorenni e le famiglie (art. 1, commi 24 e 25).

In aggiunta, ai vari gruppi di lavoro parteciperanno con voto deliberativo anche il Capo di Gabinetto Raffaele Piccirillo e il Capo dell’Ufficio LegislativoFranca Mangano. Infine, Il coordinamento tra i gruppi di lavoro è affidato ai Vice Capo:

  • dell’Ufficio LegislativoFilippo Danovi;
  • di GabinettoGuido Romano.

A tal fine, gli stessi possono indire riunioni congiunte dei gruppi di lavoro.

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Se la PEC finisce in spam?

Cassazione su caso che coinvolge una PEC finita in Spam: la notifica è valida?

La Corte di Cassazione interviene su un caso che coinvolge l’invio di un decreto ingiuntivo tramite PEC che però finisce in Spam. Perciò, il destinatario fa notare la scarsa quantità di tempo a sua disposizione per la conoscenza della stessa. Difatti, l’impiegata non l’aprì per timore di danni al sistema, già avvenuti in precedenza. Vediamo il caso completo.

La Suprema Corte da parere professionale nei confronti del caso della PEC in Spam

A seguito del fatto sopracitato si decide di ricorrere in Cassazione. Dunque, quest’ultima risponde con l’ordinanza n. 17968/2021 in cui afferma che:

“I programmi di posta elettronica non sono in grado di individuare, con esattezza, i messaggi da qualificarsi come spam. Pertanto, rientra nella diligenza ordinaria dell’addetto alla ricezione della posta elettronica il controllo anche della cartella della posta indesiderata.”

Difatti, porta all’attenzione che in tale cartella si possono inserire automaticamente messaggi che provengono da mittenti sicuri e attendibili. Perciò, non conterrebbe alcun allegato pregiudizievole per il destinatario.

Poi, conclude:

“Le suddette cautele di attenzione sono note a chi opera professionalmente quale recettore dei messaggi di posta elettronica, strumento di notificazione telematica che ormai appartiene al know how di ogni operatore commerciale — e per lui, dei suoi ausiliari — stante la sua diffusione e il suo valore di comunicazione idonea a produrre effetti giuridici.”

Misure cautelative nel caso di un decreto ingiuntivo in PEC finito in Spam

Ora, ricordiamo che la giurisprudenza di legittimità si pronunciava già sull’argomento. Al riguardo, suggeriva che il titolare di un account di PEC ha il dovere di controllare con prudenza tutta la posta in casella d’arrivo. Perciò compresa quella che il programma gestionale considera come “indesiderata”.

A questo punto, prendiamo in considerazione la Cass. civ. n. 3965/2020 con l’art. 20 del D.M. 21/02/2011 n. 44. Qui, si disciplinano i requisiti della casella PEC del “soggetto abilitato esterno”. E, si impongono a costui una serie di obblighi col fine di garantire il funzionamento della casella di posta certificata così come della ricezione dei messaggi.

In particolare, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. 3 R.G. 25467/2018 m) del D.M. N. 44 del 2011 il “soggetto abilitato esterno” ha i seguenti doveri:

  • Deve dotare il pc con un software idoneo alla verifica di presenza o assenza di virus per i messaggi elettronici. Allo stesso modo, è necessario l’uso di software antispam idonei a prevenire a trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati;
  • Conservare le ricevute della consegna dei messaggi che si trasmettono al dominio giustizia;
  • Deve munirsi di una casella di PEC con uno spazio disco minimo così come lo definisce l’art. 34 comma 4;
  • Dotarsi di un servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta. Inoltre, dovrà verificare la disponibilità dello spazio disco ancora a disposizione.

Notifica valida? le conclusioni della Corte in merito alla PEC che finisce in Spam

Pertanto, nel caso di specie si ritiene verosimile che si potesse isolare la PEC che dava sospetto. Poi, sarebbe dovuta stare “in quarantena”. Ovvero, eseguire la scansione manuale del file, tramite l’azione del “software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio”.

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Decreto Milleproroghe ed esami avvocatura

Cassazionisti e avvocati in esame, il decreto Milleproroghe non prevede le vecchie regole

Il decreto Milleproroghe, in G.U. dal 30 dicembre scorso, contiene disposizioni urgenti in materia di termini legislativi. Tuttavia, tra i suoi 25 articoli nulla si dice rispetto a due proroghe che esistono da tempo. Dunque, il testo non prevede la proroga delle vecchie regole per iscriversi all’albo dei cassazionisti e per l’esame di abilitazione forense.

Albo dei Cassazionisti e abilitazione forense: non esiste la proroga per gli esami dell’avvocatura?

Dunque, Il testo del provvedimento per la prima volta in dieci anni non contiene le due proroghe sopra accennate. La prima, riguarda la possibilità di iscriversi all’albo dei cassazionisti senza la frequenza del corso e l’obbligo dell’esame. Invece, la seconda riguarda il rinvio dell’entrata in vigore delle nuove regole per l’esame di abilitazione forense, ex legge n. 247/2012.

Esami avvocatura: iscrizione all’albo delle giurisdizioni superiori

Effettivamente, il decreto Milleproroghe proroga di un altro anno i requisiti per l’iscrizione degli avvocati agli albi delle giurisdizioni superiori. Nello specifico, questi si prevedono nella vecchia legge RDL 27 novembre 1933, n. 1578 e R.D 22 gennaio 1934, n. 37.

Infatti, vediamo la proroga del comma 4 dell’art. 22 della legge n. 247/2012, modificato dal comma 5 bis art. 8 del Milleproroghe 2021. Qui, si rinvia di un anno la vecchia regola e si stabilisce che:

“Possono altresì chiedere l’iscrizione coloro che maturino i requisiti secondo la previgente normativa entro nove anni (invece degli 8 precedenti) dalla data di entrata in vigore della presente legge.”

Facciamo un passo indietro, a quando la legge professionale n. 247/2012 entrava in vigore il 2 febbraio 2013. Allora, si prevedeva una proroga di tre anni per consentire una graduale entrata in vigore della novità legislativa su corsi ed esami per l’iscrizione alle giurisdizioni superiori. Invece, dal 2015 e lungo il corso del tempo tale termine si allarga sempre più, sino a giungere col Milleproroghe da tre a nove anni.

Dove sono le proroghe del nuovo esame avvocatura del 2022?

Ora, passiamo alla seconda norma di cui non si fa proroga. Questa riguarda l’esame di abilitazione forense ordinario così come lo riforma la Legge n. 247/2012. E, prevede lo svolgersi delle prove scritte d’esame senza codici commentati. Data l’inattuabilità della prova con tali modalità d’esecuzione, la norma si deroga sempre attraverso il Milleproroghe.

Difatti, l’anno scorso si rinviava l’entrata in vigore della riforma per il 2021 grazie al Milleproroghe. Tuttavia, al momento per quest’anno non si prevede invece alcuna proroga.

Perciò, i giovani avvocati chiedono al legislatore una proroga del regime transitorio ritenendo quanto segue:

“ritenendo tale questione di assoluta importanza per la crescita professionale di numerosissimi giovani avvocati la cui legittima aspettativa di conseguire l’abilitazione al patrocinio innanzi alle Magistrature Superiori mediante il regime previgente – che prevedeva il requisito dei “dodici anni di anzianità” – è stata, di fatto, spazzata via da un norma che entrando in vigore in maniera indiscriminata a far data dal 2 febbraio 2013, si è posta – di fatto – come norma retroattiva, andando a disciplinare anche la situazione di soggetti iscritti all’Albo in costanza di una legge diversa, sicuramente più favorevole”

 

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