Due maxi multe ad Amazon: ha violato la privacy degli utenti

Amazon ha violato la privacy degli utenti per quanto riguarda la gestione dei dispositivi di sorveglianza Ring e dell’altoparlante Alexa. Dopo attente indagini, l’azienda è stata multata per più di 30 milioni di dollari, e dovrà pagarli direttamente alla FTC, la Federal Trade Commission, agenzia indipendente degli Stati Uniti.

Anche se per Amazon questa è una cifra irrisoria, d’ora in poi dovrà assolutamente rispettare le nuove regole che sono state imposte dalla Commissione in tema di privacy.

Per Amazon Ring, brand di citofoni smart di Amazon, sono stati disposti 5,8 milioni di dollari. Per la FTC, Amazon avrebbe concesso ai suoi dipendenti «pieno accesso a tutti i video dei clienti», disponibili anche per alcuni appaltatori di terze parti, che hanno potuto scaricare e condividere i video.

Si tratta di un’accusa pesante, che la Commissione riconduce ad «un atteggiamento lassista nei confronti della privacy e della sicurezza» da parte di Amazon. Ring, dopo le accuse, ha licenziato i dipendenti incriminati.

Ma la FTC accusa anche la compagnia di facilitare il lavoro dei cybercriminali consentendo agli utenti di utilizzare semplici password, quali 123456, che rendono possibile forzare in modo semplice l’account.

La Commissione fa notare che più di 55.000 utenti statunitensi hanno subito una violazione del profilo in un periodo compreso tra gennaio 2019 e marzo 2020, dimostrando scarsa attenzione della compagnia nei confronti della privacy dei clienti.

Per poter risolvere la situazione, dunque, Ring ha accettato il pagamento della multa, con l’istituzione di un programma per la tutela della sicurezza dei dati e per rivelare l’accesso che hanno avuto dipendenti e appaltatori alle informazioni sensibili.

La seconda multa, di 25 milioni di dollari, è stata disposta nei confronti di Alexa. La FTC ha sollevato la questione relativa all’utilizzo delle registrazioni delle voci dei bambini che interagiscono con il dispositivo.

Amazon Alexa, infatti, sembra essere molto utile per i bambini con disabilità o per bambini che non sanno scrivere. Per la Commissione, le trascrizioni delle conversazioni dei minori potevano essere conservate per un tempo ragionevolmente necessario, ma la FTC rivela che Amazon «ha conservato le registrazioni dei bambini a tempo indeterminato».

Con queste sanzioni, la Commissione spera di mandare un segnale forte ad Amazon, che si dimostra poco attenta alla privacy e alla sicurezza degli utenti.


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Netflix: abbonamenti in vendita a 2 euro nel dark web

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Netflix ultimamente ha fatto molto parlare di sé, a causa del blocco della condivisione delle password. Si tratta di una scelta controversa, che in Spagna ha portato alla perdita di più di un milione di abbonati soltanto nel primo trimestre dell’anno.

Sembra che siano tantissimi gli utenti, dunque, che non hanno intenzione di pagare per sottoscrivere ad un piano individuale. I cybercriminali non hanno perso tempo e hanno colto la palla al balzo: infatti, come riportato da Check Point Software, nel dark web sembrano esserci tantissimi siti che vendono illegalmente gli abbonamenti a Netflix.

Riferisce un portavoce della compagnia: «I criminali informatici spesso sfruttano i bisogni e i desideri degli utenti, allineando i loro attacchi con le tendenze in corso». I ricercatori di Check Point Software, infatti, hanno scovato alcuni canali Telegram che offrono l’accesso all’abbonamento Premium mensile disponibile nella piattaforma, a partire da 190 rupie indiane.

Si tratta di poco più di due euro, promettendo anche «piena efficacia e legittimità dell’accesso», per poter attirare al meglio potenziali clienti. Come possiamo facilmente immaginare, in realtà, gli account in vendita sono collegati ad ulteriori crimini informatici, che derivano principalmente dall’acquisizione illecita delle credenziali oppure dalla violazione degli account.

Dobbiamo considerare, comunque, che l’acquisto di un abbonamento Netflix nel dark web potrebbe essere semplicemente un’azione controproducente. La ricerca mette in evidenza come alcuni utenti non riescano affatto ad ottenere l’accesso all’account acquistato, mentre altri hanno riscontrato un blocco dopo qualche giorno, settimana o mesi.

Ora più che mai risulta fondamentale mettere in sicurezza il proprio account Netflix, riparandosi dai malintenzionati ed evitando che le proprie credenziali vengano vendute nel dark web. Scegliere una buona password, per esempio, aiuta moltissimo, oltre al monitoraggio degli accessi non autorizzati al proprio profilo ma dobbiamo anche prestare attenzione alla riproduzione insolita dei contenuti.


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Tina Lagostena Bassi: quasi cent’anni dalla nascita dell’avvocata che sfidò il maschilismo

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Tina Lagostena Bassi: quasi cent’anni dalla nascita dell’avvocata che sfidò il maschilismo

Sono passati quasi 100 anni dal 2 giugno 1926, il giorno in cui nacque Augusta Bassi, meglio nota come Tina Lagostena Bassi. Si faceva chiamare Avvocata, un titolo conquistato dopo tanti anni di battaglie.

Tina Lagostena Bassi nasce nel 1926 a Milano, da una famiglia agiata, anche se la guerra cambiò le carte in tavola. Infatti, la famiglia Bassi lascia l’Italia nel 1943 per rifugiarsi in Svizzera.

A 19 anni, Tina sposa un avvocato, Vitaliano Lagostena, un uomo che non intralcia affatto lo spirito anticonformista dell’avvocata. Si dice che Lagostena, dopo avere assaggiato i suoi “manicaretti”, abbia constatato che fosse meglio sostenerla nel suo percorso di studi.

Tina Lagostena Bassi decide di iscriversi all’Università di Genova per studiare Legge. Il carico di studio è intenso, e lo condivide con Paolo Villaggio, che lei definisce «un secchione nel vero senso della parola».

Durante gli studi, diventa mamma per due volte. «Pensavo che tutte le donne avessero gli stessi diritti, gli stessi privilegi di cui ho goduto io. Volevo studiare, ho chiesto di studiare, mio marito mi ha detto di sì, era contento, i miei mi aiutavano con i bambini. Era una vita felice, facilissima. Poi ho scoperto che non era così per tutte».

Una vita speciale

Nel 1951, Tina Lagostena Bassi si laurea in diritto penale, e diviene allieva di Giuliano Vassalli, il futuro presidente della Corte Costituzionale, ricordato anche per aver ideato l’evasione di Giuseppe Saragat e Sandro Pertini dal carcere di Regina Coeli durante la Resistenza romana.

A Parma, le viene offerta la cattedra di diritto della Navigazione, ma dopo un anno decide di lasciare l’incarico per dedicarsi a tempo pieno alla professione. «Ho pensato che era giusto che i miei privilegi venissero messi al servizio delle donne che privilegi non ne avevano, per aiutarle a conquistare i loro diritti».

Tuttavia, Tina si rende immediatamente conto del maschilismo presente nelle aule di giustizia. Nella sua autobiografia, Una vita speciale, racconta degli episodi emblematici. Durante un’udienza, per esempio, un collega asserì, dopo averla guardata con disprezzo, che «le donne dovrebbero stare a casa a fare la calzetta».

Il massacro del Circeo

Ma il trattamento peggiore era riservato alle donne vittime di violenze sessuali, considerate colpevoli a prescindere, sbagliate, adescatrici, libertine. Tina decide di combattere per loro, e crede fermamente nella necessità di riformare il codice Rocco.

Lo stupro, per l’avvocata, non deve assolutamente più essere considerato come reato contro la morale comune, ma come reato contro la persona.

In quegli anni ci fu il processo per il massacro del Circeo, e Lagostena Bassi assiste Donatella Colasanti, che si costituì parte civile. Un processo che si concluse con una sentenza storica, nonostante durante le udienze si sia tentato di screditare più volte la reputazione di Colasanti.

«Donatella ha avuto una vita così difficile da farmi pensare che forse era stata più fortunata Rosaria, la sua amica uccisa al Circeo», disse l’avvocata.

Il processo per il massacro del Circeo fu il primo in cui le donne erano presenti in aula, partecipando, interagendo, mobilitandosi. «Per me è stato un grande momento di presa di coscienza, sentire il modo in cui in tribunale venivano trattate le donne da quel mondo di avvocati e magistrati uomini. Sembravano quasi solidali con i violentatori perché cercavano di addossare la colpa alle vittime».

Processo per stupro

Da qui, nasce l’idea di documentare per la prima volta in assoluto un processo per stupro, per poter denunciare tutte queste aberrazioni. Il documentario fu trasmesso dalla Rai, e l’impatto sull’opinione pubblica fu fortissimo.

La vittima del processo era Fiorella, una giovane che accusò quattro uomini di averla violentata per un pomeriggio intero, dopo essere stata attirata in un casolare per sostenere un colloquio di lavoro.

Gli imputati dissero che Fiorella era una ragazza di facili costumi, che si offrì a pagamento: ma nulla di tutto questo era vero. «Se questa ragazza se ne fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente», sostenne la difesa.

Le arringhe di Tina Lagostena Bassi si infuocarono sempre più. «E’ una prassi costante: il processo alla donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale».

«Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliante venire qui a dire che non è una puttana. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare i processi per violenza».

I quattro imputati ricevettero una condanna irrisoria, per poi venire quasi subito rilasciati con la libertà condizionata. Ma l’avvocata ripara quei torti nel 1994, quando viene eletta alla Camera dei deputati con il Polo per le Libertà.

Dopo essere diventata membro della Commissione Giustizia e coautrice della legge contro la violenza sessuale nel 1996, continua a combattere contro il maschilismo e a lottare per la dignità delle donne, processo dopo processo, norma dopo norma.


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La professione dell’avvocato è in retromarcia: complice il reclutamento di professionisti nel mondo della PA, che avviene all’interno del quadro del Pnrr.

Nel primo trimestre del 2023, infatti, ci sono stati 2.336 provvedimenti di cancellazione da Cassa Forense, al quale dobbiamo aggiungerne 293 deliberati di recente. Gli associati sono scesi a 237.000: nel 2022 erano 240.000.

Bisognerà attendere la fine dell’anno per avere un quadro ben preciso per quanto riguarda l’andamento della platea, tenendo anche conto delle nuove iscrizioni legali, che potrebbero anche far risalire il numero complessivo.

Tuttavia, il fenomeno dell’abbandono dell’attività porta a riflettere anche sulle occasioni che derivano dall’implementazione di altri percorsi di lavoro, visto che «l’ambito di espansione risiede prevalentemente nell’area stragiudiziale e nella consulenza alla clientela», commenta Valter Militi, il presidente di Cassa Forense.

«Presumiamo che il dato degli abbandoni sia principalmente legato alle opportunità d’impiego nell’ambito pubblico», anche se le cifre trimestrali riguardo le uscite «non possono farci parlare di un cattivo stato di salute della categoria», continua Militi.

Nel dossier realizzato da Cassa Forense, in collaborazione con il Censis, leggiamo che al 31 dicembre 2022 la platea era composta da 240.019 professionisti, ovvero 4,1 per 1000 abitanti, con 8.257 nuove iscrizioni e con 8.698 cancellazioni.

Davanti ai dati del 2023, Francesco Greco, il numero uno del CNF, individua ben «due fattori all’origine di questa discesa: da un lato c’è l’insoddisfazione che, in questo momento, domina gli avvocati, e dall’altro, l’indizione dei concorsi per accedere ai ranghi della Pubblica Amministrazione. Quello che ci preoccupa, e su cui vogliamo intervenire, è il primo».

Prosegue Greco: «Le specializzazioni devono diventare un valore aggiunto per la professione, ma occorre rivedere quelle esistenti, permettendo, ad esempio, ai colleghi di dedicarsi compiutamente alla consulenza alle imprese, colmando la limitate esperienza in materia contabile».

L’impegno che si assume Greco è «far sì che il ceto forense riacquisti fiducia nel futuro. Gli avvocati rappresentano il seme della democrazia. E, se non ci sono, vuol dire che i diritti non vengono tutelati».

Francesco Paolo Perchinunno, invece, guida dell’Aiga, l’associazione italiana giovani avvocati, ritiene che l’ideale sarebbe la compensazione delle defezioni con delle «nuove iscrizioni, e soprattutto, con l’aumento della capacità reddituale dei legali, inseriti in ulteriori spazi di mercato».

Tale obiettivo si può ottenere con «la riconversione delle competenze, sui cui auspichiamo la nostra Cassa di previdenza investa di più per meglio intercettare le esigenze del mercato».

Sia Militi che Greco concordano sulle aggregazioni professionali: tuttavia, la tassazione funge da disincentivo. Per Gaetano Stella, presidente di Confprofessioni, dovrebbero essere sottoposte ad una «fiscalità di vantaggio, così come previsto per le start-up».


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Perché in Italia avvocati e magistrati indossano la toga nera? Perché lo dice la legge. Anzi, lo stabilisce un regio decreto, il n. 1683 del 1926, che recita:

Nelle pubbliche udienze delle corti e dei tribunali gli avvocati patrocinanti indossano le seguenti divise: toga di lana nera alla foggia di quella prescritta per i funzionari giudiziari, ma abbottonata sul davanti con maniche orlate di un gallone di velluto nero, rialzate e annodate sulle spalle con cordoni e nappine di seta nera; hanno il tocco di seta nera fregiato di un gallone di velluto nero, e il collare di tela batista.

I procuratori vestono toga di lana nera, abbottonata sul davanti, con maniche rialzate e annodate sulle spalle con cordoni di lana nera; hanno tocco di seta nera senza gallone, e collare di tela batista.

Firmato: Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della nazione.

Un po’ di storia

La storia della toga nera, in realtà, sembra essere ancora più antica, risalente all’epoca romana. I cittadini maschi e liberi del tempo, ovvero i cittadini non schiavi, quelli che svolgevano alcune funzioni di rilevanza sociale, avevano un drappo sopra la tunica. Questo era annodato sopra la spalla sinistra e passato al di sotto dell’ascella: un simbolo di potere, visto che chi la indossava esercitava funzioni pubbliche di grande importanza.

La toga bianca, invece, era indossata da chi si candidava alle elezioni, mentre la toga orlata, di color porpora, era indossata da cavalieri, senatori e magistrati. Il bordo inferiore era largo per i senatori e stretto per i cavalieri, che successivamente formarono la classe dei finanzieri e dei commercianti.

La toga virilis indicava la maggiore età, mentre la toga purpurea veniva indossata solo dall’imperatore; la toga marrone o grigia, quella più scura, veniva indossata nelle giornate di lutto.

Nel corso del Medioevo, invece, la toga diventò quasi un’uniforme: era indossata da professori, medici, notai e avvocati. Nel corso del tempo, la maggior parte delle professioni ha abbandonato l’uso della toga, eccezion fatta per gli avvocati.

Gli avvocati, infatti, dovrebbero indossare la toga durante le udienze pubbliche dei tribunali e delle corti, ma anche di fronte ai consigli degli organi rappresentativi del mondo dell’avvocatura: la pena è una sanzione disciplinare.

Fu scelto il colore nero principalmente per una questione pratica, visto che le tele colorate non erano così semplici da reperire.

Cordoniera

Anche la cordoniera ha un preciso significato simbolico: quella color oro e nero è esclusiva di avvocati cassazionisti, tutti gli altri ne hanno una color nero e argento. Gli avvocati non possono indossare cordoniere color oro puro, in quanto riservate soltanto ai magistrati. I magistrati di prima nomina hanno una cordoniera color argento, mentre quella rossa è riservata per gli avvenimenti accademici.

Ma la toga, per gli avvocati, va oltre il mero obbligo di legge. Avvocato sommo è colui che riesce a parlare in udienza colla stessa semplicità e la stessa schiettezza con cui parlerebbe al giudice incontrato per via: colui che, quando veste la toga, riesce a dare al giudice l’impressione che può fidarsene come se fosse fuori udienza, disse Piero Calamandrei.

Parrucche

Nel Regno Unito, gli avvocati, dal 1660, devono indossare anche le parrucche: le impose re Carlo II, dopo il restauro della monarchia a seguito del taglio della testa a Carlo I. Le parrucche, allora, venivano utilizzate da diversi membri dell’alta società: quelle più costose erano fatte di capelli umani.

Oggi sono in crine di cavallo, sono state eliminate nei paesi del Commonwealth come Canada e Australia ma resistono in alcuni paesi dell’Africa, così come nel Regno Unito, nonostante siano in molti a combattere contro la tradizione, sostenendo che la parrucca dà l’idea di un’eccessiva distanza tra avvocati e cittadini comuni.


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La Riforma Cartabia, come ben sappiamo, ha introdotto cambiamenti importanti per quanto riguarda l’applicazione del diritto all’oblio.

Secondo il nuovo art. 64 ter, sulle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, prevede che la persona per cui è stata pronunciata una sentenza di proscioglimento, oppure di non luogo a procedere, possa richiedere che venga preclusa l’indicizzazione oppure che venga disposta la deindicizzazione online dei dati personali che vengono riportati nel provvedimento o nella sentenza, attenendosi dunque all’art. 17 del Regolamento generale per la protezione dei dati.

Deindicizzare non significa cancellare

La procedura non è affatto complicata: la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento annota che è titolo esecutivo per «la sottrazione dell’indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell’istante»

La disposizione, tuttavia, non deve generare false illusioni, visto che deindicizzare non vuole dire cancellare. Dunque, in altri termini, il risultato ottenuto sarà soltanto quello che i dati personali che vengono inseriti nei motori di ricerca non verranno più associati a parole chiave inerenti al reato contestato.

Risulta sufficiente, infatti, eseguire una diversa ricerca, inserendo il nome di un coimputato, oppure quello del magistrato che ha condotto le indagini del caso: et voilà, ecco che la notizia deindicizzata ricompare. La normativa ha creato un bel mercato di società, infatti, che cancellano completamente dal web le notizie.

Dichiara Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, che ha lavorato moltissimo alla norma: «Non si poteva ottenere di più. È evidente che di un personaggio pubblico, coinvolto in una vicenda giudiziaria, anche se assolto, si troverà sempre traccia della notizia».

Anche Google parla chiaro in merito alla questione: se la notizia viene aggiornata agli sviluppi recenti della vicenda giudiziaria, dunque, all’assoluzione, potrà difficilmente essere “deindicizzata”. Inoltre, bisogna sempre valutare l’interesse alla reperibilità delle informazioni che vengono riportate, se si riveste un ruolo pubblico.

Anche la Corte di Giustizia e il Comitato europeo per la protezione dei dati indicano «la prevalenza dell’interesse generale ad avere accesso alle informazioni quando l’interessato esercita un ruolo pubblico, anche per effetto della professione svolta o delle cariche ricoperte».

Il Comitato europeo per la protezione dei dati chiarisce che «a titolo di esempio, politici, alti funzionari pubblici, uomini di affari e professionisti possono essere solitamente considerati come coloro che svolgono un ruolo nella vita pubblica. Vi è un argomento a favore del diritto del pubblico a ricercare le informazioni rilevanti rispetto al loro ruolo e alle attività pubbliche».

Per le Linee Guida del Comitato europeo per la protezione dai dati, invece, riguardo la natura giornalistica di un’informazione e dal fatto che venga pubblicata da un giornalista, che come lavoro deve informare, «costituiscono elementi a conferma del sussistente interesse pubblico alla notizia».


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Avvio della sperimentazione del PCT presso tutti gli Uffici dei Giudici di Pace

È cominciata la sperimentazione del deposito telematico presso i Giudici di Pace. L’attività coinvolgerà giudici, avvocati e cancellieri, al fine di sperimentare l’intero flusso del deposito telematico per gli Uffici del Giudice di Pace.

Come da circolare ministeriale, la sperimentazione verrà svolta con doppio canale, ovvero telematico e cartaceo.

Gli avvocati sperimentatori potranno procedere con il deposito telematico ed il perfezionamento dello stesso con la produzione del deposito cartaceo entro i termini previsti dal procedimento.

All’atto dell’accettazione del deposito telematico la cancelleria dovrà scaricare l’evento di deposito sull’applicativo di registro, SIGP. In questo modo l’evento risulterà associato al deposito telematico che verrà prodotto anche in cartaceo dagli avvocati.

Nell’atto depositato telematicamente deve essere attestata in calce la conformità all’originale cartaceo nella segreteria della cancelleria di pertinenza.

I depositi dovranno poi essere trasmessi attraverso gestionali o redattori atti che utilizzano gli schemi atto (xsd), come Service1.


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La scuola sta per finire, e tra poco cominciano gli esami di maturità. Ma c’è una scadenza molto importante cha si sta avvicinando nel mondo scolastico, ovvero il 30 giugno, ultimo giorno in cui possiamo presentare i progetti del programma Scuola 4.0, previsto dal Pnrr.

2,1 miliardi di euro di investimenti al fine di rendere le classi più moderne, dotandosi di tecnologie ed implementando i laboratori. Sono tantissimi soldi che la scuola non vedeva da tanto tempo, e che ora rischia di perdere – oppure di spendere a caso.

Piano Scuola 4.0

Il piano Scuola 4.0 distribuisce risorse a più di 8000 Istituti in tutto il Paese, ed è difficile stimare quanti di questi avranno fatto i compiti per casa entro il 30 giugno. Risulta significativo, comunque, che Antonello Giannelli, presidente dell’Anp (Associazione nazionale presidi), abbia inviato due richieste a Giuseppe Valditara, ministro dell’istruzione e del merito, chiedendo di dotare le scuole di personale qualificato per gestire i bandi del Pnrr e per posticipare di tre mesi la scadenza del Piano Scuola 4.0.

La scuola è uno degli ambiti che registra maggiori ritardi nel Pnrr, anche se i fondi sono già stati assegnati, e i presidi hanno in tasca mezzo milione di euro da spendere. Avverte Giannelli: «I dirigenti temono di essere inadempienti, perciò sussiste il rischio che comprino attrezzature non utili per assolvere all’obbligo di spesa».

Ambienti di apprendimento innovativi, connessi e digitali

Scuola 4.0 è una delle sei linee di investimento che il Pnrr ha deciso di destinare al mondo dell’istruzione, per la costruzione di nuove scuole, asili, nidi, palestre e mense. Per il ministero l’obiettivo è quello di «accompagnare la transizione digitale della scuola italiana, trasformando le aule scolastiche precedentemente dedicate ai processi di didattica frontale in ambienti di apprendimento innovativi, connessi e digitali e potenziando i laboratori per le professioni digitali».

Il piano mira alla creazione di 100mila nuovi ambienti per l’apprendimento e per migliorare i laboratori. E’ suddiviso in due fasi: la prima fase si chiama Classrooms, destinata a tutti gli Istituti scolastici per coprire la trasformazione digitale delle classi; la seconda fase si chiama Labs, si rivolge alla scuole superiori e in particolare ai laboratori.

Il piano è cominciato tra il 2021 e il 2022, e a novembre 2022 sono stati ripartiti i fondi tra i vari Istituti. A febbraio 2023 le scuole avrebbero dovuto comunicare, almeno genericamente, come spendere le risorse assegnate sulla piattaforma Scuola futura, istituita appositamente per la gestione dei fondi del Pnrr.

Ora c’è tempo fino al 30 giugno per mettere nero su bianco i progetti, che dovranno essere conclusi a dicembre 2024. Osserva Giannelli: «C’è grande preoccupazione in molte scuole perché i tempi sono compressi ed è a rischio l’operazione di individuazione dei contenuti».

Saranno le scuole a decidere in che modo spendere i soldi; ma il vero problema, secondo Massimiliano De Conca, segretario regionale della Federazione dei lavoratori della conoscenza della Lombardia, «è spendere questi soldi. La gestione amministrativa dei fondi del Pnrr sta deflagrando. Sono richieste incombenze burocratiche che hanno bisogno di tempo che le scuole non hanno».

Le scuole, nell’incertezza, cominciano a prendere contatti con dei potenziali fornitori di tecnologia, soprattutto per quanto riguarda il campo della realtà virtuale.

Osserva De Conca: «Il bando Scuola 4.0 è un’occasione unica, le scuole faranno di tutto per arrivarci». La palla ora passa al ministro Valditara, che dovrà decidere come giocare e se concedere maggior tempo ai progetti.


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In caso di divorzio, la spesa destinata al corso di studi della figlia fuori sede, nonostante sia particolarmente dotata e in una prestigiosa università privata, non ricade nella ripartizione al 50% delle spese straordinarie, in quanto oggetto di una quantificazione analitica dei costi.

Questo è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con ordinanza 15229 depositata martedì 30 maggio 2023, che ha accolto con rinvio il ricorso di un padre che sosteneva metà della spesa, anche se aveva chiaramente espresso una volontà contraria, vista l’impossibilità di fronteggiare i costi.

La Corte d’appello, dopo essere stata interpellata sulla congruità della ripartizione dei costi delle spese universitarie, ovvero le tasse e il canone di locazione per l’alloggio, si è così espressa: «Ravvisata la rispondenza della scelta all’interesse della figlia, in ragione del suo brillante percorso di studi e del progetto di vita sviluppato in ambito familiare, ha affermato che i genitori erano obbligati a concorrere alla relativa spesa secondo le proprie possibilità, che ha ritenuto sostanzialmente omogenee in ragione dell’attività lavorativa svolta come insegnanti, rilevando che il padre non aveva sufficientemente dimostrato l’impossibilità di sostenere l’onere relativo al pagamento della metà delle spese straordinarie per il costo di studi universitari della figlia».

Im padre, proposto ricorso, contesta alla Corte di merito di aver valutato «come analoghe le condizioni reddituali dei due genitori, senza considerare che il padre non poteva detrarre l’assegno di mantenimento per la figlia, non percepiva gli assegni familiari e non poteva detrarre le tasse universitarie, oltre ad essere gravato dal canone di locazione della sua abitazione».

Secondo la Prima Sezione Civile, si deve tenere in considerazione che «la quantificazione della contribuzione straordinaria, pur mutuando i criteri già indicati per l’assegno di mantenimento quanto alla comparazione dei redditi dei genitori ed alla opportuna proporzionalità della partecipazione, non assolve ad un’esigenza esclusivamente perequativa, come l’assegno di mantenimento, perché la contribuzione straordinaria ha la funzione di assicurare la provvista per specifiche esigenze dei figli, ritenute proporzionate al loro interesse, e ciò, evidentemente, tende a riverberarsi nello specifico apprezzamento che il giudice di merito deve compiere per stabilirne la ripartizione».

«Rimane fermo che», continua, «nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, spetta al giudice di merito verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore, commisurando l’entità della spesa rispetto all’utilità e alla sua sostenibilità in rapporto alle condizioni economiche dei genitori, salvo che l’altro genitore non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso».

Si tratta di principi generali che trovano piena applicazione anche relativamente alle «spese straordinarie dovute per il figlio maggiorenne, ma non economicamente autosufficiente, come incontestato nella specie».

Per questa ragione, «ferma ed incontestata la ricorrenza dell’interessa per la figlia a seguire il percorso universitario prescelto, la statuizione sulla commisurazione della partecipazione paterna e sulla relativa sostenibilità risulta essere fondata su una mera petizione di principio».

Proseguono i giudici: «In assenza di una concreta quantificazione delle spese straordinarie ritenute apprezzabili ed accoglibili, la valutazione sulla effettiva congruità della commisurazione della quota delle stesse con le capacità reddituali del genitore che aveva prospettato la propria incapacità alle maggiori spese connesse alla frequenza della specifica università privata in questione, fuori sede, risulta svolta in termini astratti, senza nemmeno che venga in considerazione la possibilità per l’uno o per l’altro genitore di godere di sgravi o detrazioni fiscali o altro, atte ad alleggerire l’impegno economico e da considerare nella concreta determinazione».


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A giugno, nella provincia autonoma di Trento, comincia la sperimentazione sul sistema di identità digitale europeo in Italia.

Infatti, il 25 maggio, su GitHub, piattaforma che ospita servizi per lo sviluppo di software, è comparso un progetto che ha subito colpito l’attenzione degli esperti, che riguarda le tecniche specifiche per lo sviluppo dell’app relativa al sistema comune di identità digitale.

Il test rientra all’interno del piano di Potential, un consorzio incaricato dalla Commissione per sperimentare il wallet, che dispone di 60 milioni di euro da investire in app di identità digitale. Potential conta di consegnare il suo pacchetto di servizi entro il 2025.

L’operazione è resa possibile grazie al Dipartimento per la trasformazione digitale, PagoPa, la società pubblica dei pagamenti controllata dal Mef (Ministero dell’Economia e delle finanze), Fondazione Bruno Kessler e Istituto poligrafico e zecca dello Stato.

Un contenitore di diversi documenti

Da un bel po’ di tempo, la Commissione UE coltiva l’ambizione di realizzare un’app, un wallet, nel quale i cittadini possano caricare i loro documenti personali, come carta d’identità, patente, tessera sanitaria e titolo di studio per condividerli in base alle necessità.

Bruxelles tiene molto a questo progetto, vista anche l’esperienza del green pass. Il wallet sembra essere una delle ricadute più pratiche della riforma del regolamento Eidas, che riguarda l’identità elettronica comunitaria.

Per questo, la Commissione ha già distribuito 37 milioni di euro per sviluppare e realizzare dei test, e per giugno conta di avere in mano un prototipo. In ogni caso, il wallet digitale europeo non andrà a sostituire i sistemi di identità nazionali, che in Italia sono Cie e Spid. Il wallet sarà semplicemente un contenitore di diversi documenti.

A giugno verrà lanciato ufficialmente Potential, e in Italia la sperimentazione comincerà nella Provincia Autonoma di Trento. Riguarderà la patente di guida digitale, l’identificazione e l’autenticazione per fruire dei servizi pubblici digitali e la ricetta medica elettronica. Grazie a PagoPA, sarà l’app Io a fare da wallet.


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Servicematica

Nel corso degli anni SM - Servicematica ha ottenuto le certificazioni ISO 9001:2015 e ISO 27001:2013.
Inoltre è anche Responsabile della protezione dei dati (RDP - DPO) secondo l'art. 37 del Regolamento (UE) 2016/679. SM - Servicematica offre la conservazione digitale con certificazione AGID (Agenzia per l'Italia Digitale).

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