Trojan di Stato, in bilico tra giustizia e diritti fondamentali

Trojan di Stato, in bilico tra giustizia e diritti fondamentali

Le notizie sul caso Palamara e la riforma delle intercettazioni hanno reso popolare un termine, Trojan di Stato, capace di suscitare in molti di noi fantasie degne dei migliori romanzi distopici.

È davvero così? Siamo tutti succubi di un’enorme controllo di massa perpetrato dalle istituzioni attraverso subdole modalità?

TROJAN E TROJAN DI STATO

Il Trojan è un un malware (virus informatico) che, proprio come suggerisce il nome, funziona come un Cavallo di Troia. Apparentemente sembra un innocuo file, ma una volta scaricato nel computer o nello smartphone consente al cybercriminale di accedere e modificare i dati (mail, foto, video, file, ecc) e spiare il proprietario dello strumento senza che questo se ne accorga.

Può assumere la forma di un software gratuito, di un allegato a una mail, di videogiochi o di una app.

I cosiddetti Trojan di Stato, o captatori informatici, vengono usati dalle forze dell’ordine per le intercettazioni durante le indagini, poiché consentono l’attivazione da remoto del microfono e della fotocamera del dispositivo su cui sono installati e permettono, tramite il gps, di rilevarne la posizione in tempo reale.

Il loro utilizzo a fini investigativi penali è stato regolamentato per la prima volta con il decreto legislativo n. 216 del 29 dicembre 2017, in attuazione della Legge delega 103/2017.

L’USO DEL TROJAN DI STATO

I Trojan a fini investigativi sono consentiti sia all’interno del domicilio dove l’intercettato vive, sia in altre dimore private in cui lavora,  studia o svolge altre attività.

Il monitoraggio è però soggetto a dei limiti:

  • – deve esserci un motivo fondato per credere che la persona stia commettendo un reato,
  • il reato deve rientrare in determinate categorie (es.: criminalità organizzata e terrorismo),
  • – il reato è compiuto contro la PA da pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico ufficiale.

La riforma delle intercettazioni prevede che le informazioni raccolte tramite Trojan di Stato possano essere utilizzate anche per inchieste diverse da quelle per le quali erano state previste, a patto che il loro contenuto sia rilevante per le indagini.

Una volta eseguite, le registrazioni vengono trasmesse dall’azienda fornitrice del sistema di monitoraggio al Pubblico Ministero che ne analizzerà il contenuto e sceglierà quelle davvero rilevanti, avendo cura di eliminare dai successivi verbali tutti i dati sensibili e le espressioni che ledono la reputazione delle persone intercettate.
Dopodiché, registrazioni e verbali vengono conservato in un apposito archivio digitale.

LA PRIVACY E LA DEMOCRAZIA

È facile intuire quanto i Trojan di Stato siano uno strumento che invade la privacy personale, non solo degli intercettati ma anche delle persone che interagiscono con questi. Il Garante ha più volte espresso dubbi sul loro uso (“Soro lancia l’allarme: «I trojan possono diventare mezzi di sorveglianza di massa»“).

Anche Giovanni Maria Flick, Presidente Emerito della Corte costituzionale, mantiene delle perplessità sulla costituzionalità delle scelte operate in materia.
Come dichiarato in un’intervista rilasciata a Il Dubbio: «le norme appena operative consentono un uso delle intercettazioni anche al di fuori della rigorosa cornice che in linea di principio dovrebbe regolarle: ossia anche per reati diversi da quello per cui si procede, per i quali dunque manca l’autorizzazione del giudice, e che non sono connessi a quello di partenza. Lungo una via simile rischiamo di mettere ulteriormente in crisi il sistema costituzionale».

Non è la Costituzione in sé ad essere a rischio, secondo Flick, ma «si è troppo sottovalutato l’articolo 15, posto dai padri costituenti a presidio della comunicazione del singolo con un’altra singola persona o con più persone determinate. Si tratta di una tutela a beneficio della personalità, dell’identità stessa del singolo che deve essere libero del proprio silenzio così come delle proprie parole. È un profilo di libertà parallelo e altrettanto rilevante rispetto alla libertà sancita all’articolo 21, relativa alla comunicazione pubblica».

Inoltre, «non possiamo escludere negligenza o peggio in chi abbia il compito di interrompere la registrazione e poi di riprenderla di fronte a situazioni non consentite […]. Con le nuove intercettazioni rischiamo di avanzare nella erosione di principi essenziali del nostro sistema, dei diritti inviolabili che dovrebbe tutelare».

[Per approfondire:
Come funzionano il trojan di stato” – Altalex; “Trojan: come sapere se sono spiato dalla polizia” – La Legge per Tutti; “Flick: «Con i trojan la nostra Costituzione è a rischio»” – Il Dubbio]

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Il reato di diffamazione consiste nell’offendere o screditare la reputazione di una persona comunicando le proprie opinioni negative ad altri soggetti.

Esiste anche il reato di diffamazione aggravata, contemplato dall’art 595 c.p. comma 3 che si configura quando «l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico».

La differenza tra diffamazione e diffamazione aggravata dipende dunque dal mezzo scelto e dalla vastità del “pubblico” raggiunto. Infatti, c’è una notevole differenza tra un’offesa condivisa all’interno di un gruppo di amici e colleghi e un’offesa pubblicata su un sito web o su un giornale.

E Facebook o Twitter, in quale punto di questa ipotetica linea di gravità si pongono? Come funziona la diffamazione sui social?

Secondo la Cassazione (sentenza n. 30737/2019) «la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere col mezzo della stampa, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico».

Rispetto alla stampa (o alla tv), i social hanno la potenzialità di amplificare la portata di un’opinione personale grazie alla più alta velocità con cui i messaggi vengono condivisi fra gli utenti, ma hanno una portata minore, poiché i messaggi tendono a circolare maggiormente all’interno di nicchie di pubblico precise.

Tutto ciò non significa affatto che il danno che potrebbe derivarne sia minore, soprattutto se si considera che si tratta di luoghi virtuali nei quali non è presente alcun controllo specifico e che molti utenti, protetti dall’anonimato, credono che vi si possa pubblicare qualsiasi cosa.

3 CASI DI DIFFAMAZIONE SUI SOCIAL

Sentenza n. 574/2019, Tribunale di Campobasso.
Una donna pubblica sul proprio profilo Facebook un post in cui accusa l’ex compagno di non provvedere al sostentamento economico del figlio, facendolo apparire agli occhi degli altri utenti come un cattivo padre. Inoltre, rincara la dose paragonando l’ex all’attuale compagno, a suo parere molto più abile nel ricoprire il ruolo paterno.
Il Tribunale ritiene che quanto affermato dalla donna, oltre a non essere in linea con la situazione reale, rechi danno alla
persona offesa anche perché si tratta di una condotta «potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone».

Sentenza n. 17944/2019, Cassazione.
Un uomo pubblica su Facebook una sua intervista nella quale, senza fare alcun nome, offende l’onore e il decoro di due soggetti, dichiarando che questi occupano le attuali posizioni non per i loro meriti professionali, ma per la capacità di aver fornito ai “potenti di turno” “signorine più o meno compiacenti”.
Secondo la Cassazione, il reato di diffamazione si configura anche se non vi è «indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone, e che, qualora l’espressione lesiva dell’altrui reputazione sia riferibile, ancorché in assenza di indicazioni nominative, a persone individuabili e individuate per la loro attività, esse possono ragionevolmente sentirsi destinatarie di detta espressione».

Sentenza n. 49506/2017, Cassazione.
Un operaio offende il proprio capo area pubblicando su Facebook post in cui riferisce di atteggiamenti autoritari di questo nei confronti dei sottoposti.
Secondo l’operaio i contenuti non presentano elementi offensivi, ma per la Cassazione «le frasi, riportate nel testo del provvedimento impugnato, fanno un chiaro riferimento al ruolo del [capo area], peraltro citato, sia pure per perifrasi, con un contenuto immediatamente offensivo, in quanto evocativo di una gestione autoritaria, ironicamente portata alle estreme conseguenze, in un apparente gioco delle parti».

NON SEMPRE È DIFFAMAZIONE

Poco tempo fa, un utente di Twitter ha definito Fedez e Chiara Ferragni come «idioti palloni gonfiati».
La coppia ha mosso querela per diffamazione, ma la Procura della Repubblica di Roma ha chiesto l’archiviazione poiché «la generalità degli utenti non dà peso alle notizie che legge» sui social e poiché sui social le «espressioni denigratorie» «godono di scarsa considerazione e credibilità» e risulterebbero quindi «non idonee a ledere la reputazione».

Questa decisione si colloca controcorrente rispetto a quelle citate in precedenza. La Procura, infatti, ritiene che i contenuti offensivi pubblicati sui social non cadano inevitabilmente all’interno dei confini del reato di diffamazione a causa della presunta mancanza di autorevolezza che differenzia i social dal mezzo stampa tradizionale.

Quello che possiamo dedurne è che sono proprio le differenze tra il mondo del web e i mezzi tradizionali a imporre nuove riflessioni sul concetto di immagine e di reputazione. Ne consegue che anche il perimetro del reato di diffamazione è, oggi, più mobile di quanto fosse in passato.

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Cassa Forense ricorre in Cassazione dopo la conferma della precedente sentenza che dichiarava illegittima la sanzione amministrativa pecuniaria applicata dall’ente previdenziale a un avvocato per omessa comunicazione dei redditi professionali.

IL RICORSO

Il ricorso presenta un unico motivo: il mancato riconoscimento dell’autonomia acquisita dagli enti previdenziali a seguito dei processi di delegificazione.

Cassa Forense sostiene che tale delegificazione concede agli enti la facoltà di deliberare anche in materia sanzionatoria (art.4 comma 6-bis, d.l. 79/1997), in deroga alla disciplina di cui alla legge 689/1981.

LA SENTENZA

La Cassazione ritiene che il motivo sia infondato.

La delegificazione a favore degli enti previdenziali è certamente un dato di fatto, ma l’autonomia acquisita è valida all’interno di alcuni limiti d’attribuzione, nonché dei vincoli costituzionali.

Ciò significa che è vero che gli enti possono «dettare disposizioni anche in deroga a disposizioni di legge precedente», ma che tali libertà sono state concesse per garantire l’equilibrio di bilancio dell’ente e non per permettere a questa di «far valere la sua pretesa sanzionatoria manifestandola al debitore per la prima volta attraverso il ruolo e i conseguenti atti dell’esattore, essendo pure sempre necessario che, ove le somme che si tratta di riscuotere non risultino da una precedente dichiarazione del debitore stesso, ci sia stato in precedenza un procedimento specificamente preordinato al loro accertamento, in cui sia consentito alla parte di avere contezza della violazione che le si attribuisce e di prospettare all’ente gli eventuali errori in cui sia incorso nel ritenere compiuta la violazione».

Nel caso oggetto della sentenza, è stata accertata l’omessa preventiva contestazione dell’addebito e ciò, in base all’art. 14, ultimo comma, legge 689/1981, comporta l’estinzione della sanzione.

Il contenuto della sentenza è molto approfondito ed esamina elementi non trattati in questo articolo ma molto interessanti. Pertanto, vi invitiamo a leggere il testo originale del sentenza n. 17702/2020.

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Il bonus pubblicità 2020 può essere una buona occasione per dare visibilità al proprio studio o la propria azienda in un momento di diffusa difficoltà, come quello che stiamo vivendo ora a causa degli scombussolamenti prodotti dalla pandemia di COVID.

COME FUNZIONA IL BONUS PUBBLICITÀ 2020

Il bonus funziona tramite credito d’imposta. La percentuale, inizialmente prevista al 70% della spesa, è stata abbassata al 50% dopo che è stata eliminata la clausola, presente nella modalità ordinaria, che prevede un aumento dell’1% dell’investimento in pubblicità.

SPESE AMMISSIBILI E NON AMMISSIBILI

Rientrano nelle SPESE AMMISSIBILI gli investimenti pubblicitari in/su:
emittenti radiofoniche e televisive locali, analogiche o digitali, iscritte presso il ROC, Registro degli operatori di comunicazione;
giornali quotidiani e periodici, nazionali e locali, in edizione cartacea o digitale, iscritti presso il competente Tribunale o il ROC, e dotati di un direttore responsabile;
– spazi pubblicitari su siti web di agenzie di stampa,

Sono considerate SPESE NON AMMISSIBILI:
– gli spazi pubblicitari su auto e apparecchiature;
– pubblicità tramite cartelloni, volantini, altre affissioni, display, schermi di sale cinematografiche;
campagne pubblicitarie tramite social (es.: inserzioni a pagamento su Facebook), piattaforme online e acquisto di banner su portali e siti web, altro.

BENEFICIARI E MODALITÀ DI RICHIESTA

Possono ottenere il bonus pubblicità 2020 coloro che hanno effettuato investimenti pubblicitari che rientrano nei canoni sopracitati durante l’anno precedente .

Sono esclusi:
– i soggetti che nell’anno precedente non abbiano effettuato investimenti pubblicitari ammissibili;
– i soggetti che hanno iniziato l’attività nel corso dell’anno per il quale si richiede il beneficio.

Per ottenerlo, è necessario compilare e inviare l’apposita comunicazione telematica.
È possibile visualizzare le istruzioni complete sul sito del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri e sul sito dell’Agenzia delle Entrate.

L’elargizione è vincolata alle risorse a disposizione.

Per informazioni più approfondite vi invitiamo a visionare le FAQ presenti sul sito del Dipartimento per l’informazione e l’editoria.

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Le difficoltà generate dalla pandemia di COVID hanno accelerato la digitalizzazione della giustizia, e il Ministro Bonafede ha tutta l’intenzione di non abbandonare la via intrapresa. Dal forum Forum Ambrosetti di Cernobbio, il Guardasigilli ha dichiarato che entro il 2020 il processo civile sarà solo digitale.

«IL PROCESSO CIVILE SARÀ SOLO DIGITALE»

Bonafede ha spiegato che la giustizia rappresenta un elemento decisivo per l’economia del paese e per tutela dei diritti dei cittadini.

Per rendere il sistema efficiente sono stati predisposti degli investimenti nell’infrastruttura «perché cercare di fare riforme a costo zero non ha mai portato da nessuna parte».

I principali investimenti riguardano le risorse umani, l’edilizia e, chiaramente, la digitalizzazione.

Dunque, il processo civile sarà solo digitale in tutti e tre i gradi di giudizio.

«Lo sviluppo delle tecnologie a supporto del processo telematico ha consentito, nel momento drammatico che abbiamo vissuto, di garantire, da un lato lo svolgimento dei servizi essenziali e dall’altro di accedere a soluzioni sperimentali […]. Il canale telematico sarà l’unico disponibile e non un’opzione». Un esempio di questo cambiamento  si vedrà nel divieto di notifica cartacea qualora il destinatario fosse in possesso di un domicilio digitale.

ANCHE IL PROCESSO PENALE DIVENTA DIGITALE

Per la prima volta verrà digitalizzato anche il processo penale. 

«Il primo settore su cui si interviene è quello delle indagini preliminari, rimodulando i tempi che vengono adesso verificati con criteri più rigidi che li rendono effettivi».

Tra le altre novità previste:
– la comunicazione da parte del giudice, a inizio processo, del calendario di tutte le udienze;
– la semplificazione dell’appello;
– il superamento di alcuni ostacoli (es.: il fatto che il cambiamento di un solo componente del collegio giudicante faccia ricominciare tutto il dibattimento dall’inizio).

L’OBIETTIVO FINALE

La digitalizzazione della giustizia si affianca alla riforma del processo civile, la riforma del processo penale e la riforma ordinamentale del Consiglio Superiore della Magistratura che sono ora all’esame del parlamento.

L’obiettivo finale, come dichiarato da Bonafede stesso, è la riduzione dei tempi dei processi.

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È settembre e ormai alle spalle abbiamo diversi mesi di udienze da remoto ed esperimenti di digitalizzazione della giustizia.

Come è naturale che sia, più un cambiamento è veloce e più alte sono le probabilità che vi siano resistenze e, infatti, lo svolgimento delle udienze telematiche ha sollevato obiezioni da più parti. La principale sostiene che l’uso delle tecnologie telematiche sia in contrasto con i principi di oralità e immediatezza che dovrebbero contraddistinguere i procedimenti.

È proprio così?
Per offrire una risposta, condividiamo con voi alcune riflessioni prendendo spunto anche da quanto espresso dall’Avv. Ione Ferrante nell’articolo “Udienze digitali: lo stato dell’arte a settembre 2020” pubblicato su Agenda Digitale.

DIGITALIZZAZIONE DELLA GIUSTIZIA E RIPRESA ECONOMICA

Il rapporto tra giustizia ed economia passa spesso inosservato. Eppure, la tutela del diritto rappresenta un fattore attraente per gli investitori esteri e favorisce l’imprenditorialità, poiché offre la garanzia di operare in un contesto in cui si è tutelati.

In tal senso, la digitalizzazione della giustizia non rappresenta affatto un ostacolo ma, anzi, favorisce la ripresa poiché permette un accesso alla giustizia più immediato, meno costoso e con tempistiche più veloci. Uno dei motivi è che la tecnologia compensa la cronica mancanza di personale che è una delle cause della lentezza della giustizia italiana.

LE DIFFICOLTÀ

Dunque, la digitalizzazione può favorire l’efficienza della giustizia e la crescita del paese. Ma questi risultati non sono affatto automatici; al contrario, possono verificarsi solo a fronte di investimenti specifici.

Questo è il vero punto debole sul quale l’Italia si blocca.

Un esempio è la recente introduzione della riforma delle intercettazioni, con la creazione di un archivio digitale presso ogni Procura, effettuata senza alcuno stanziamento.

Che digitalizzazione è se non si forniscono strumenti e formazione a coloro su cui ricade il cambiamento?

I principi di oralità e immediatezza, che alcuni ritengono minacciati, non verranno scardinati dalla digitalizzazione della giustizia, a patto che il sistema giudiziario venga fornito «delle necessarie infrastrutture tecnologiche, delle risorse finanziarie e umane che l’opera di informatizzazione presuppone».

L’IMPATTO SULLE PROCEDURE

La digitalizzazione della giustizia e le udienze da remoto superano la presenza fisica dei soggetti coinvolti nei processi. Allo stesso tempo, annullano le distanze tra gli stessi.

C’è da dire che, nonostante le grandi novità affrontate a causa di COVID, il processo telematico è ormai una realtà da qualche anno. Ciò significa che le regole procedurali del passato sono già state via via superate a favore di nuove: «i princìpi della oralità e della immediatezza, nel 2020, non possono avere il medesimo, identico significato che avevano agli inizi del 1900».

Va anche ricordato che la giustizia digitalizzata non sostituisce completamente quella tradizionale, ma vi si affianca: le udienze telematiche non hanno scalzato del tutto le udienze in aula, così come non tutti i processi possono essere telematizzati integralmente.

Tutto ciò dimostra una cosa tanto semplice quanto importante: la giustizia è un sistema vivo. E la sua evoluzione, che è un processo del tutto naturale, può far bene al Paese.

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La CTU è o non è "fatto storico"?

La CTU è o non è “fatto storico”?

La CTU è un atto processuale che permette al giudice di valutare meglio i fatti, ma quest’ultimo non è obbligato a tenerne conto. In sostanza, la CTU consente di ricavare “il fatto storico” evidenziato dal consulente, ma non è il “fatto storico”.

Lo chiarisce la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12387 del 24 giugno 2020.

LA CTU NON RAPPRESENTA “FATTO STORICO”

La Cassazione ha rigettato un ricorso mosso da:

  • – la presunta violazione e falsa applicazione degli  artt. 113115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 61 e 62 c.p.c., poiché il tribunale ha riconosciuto la validità della consulenza tecnica non ne ha accettato gli esiti senza dare alcuna giustificazione.
  • – la presunta nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., per aver omesso l’esame degli esiti della CTU, considerati dalla ricorrente un fatto decisivo per il giudizio.

I motivi del rigetto sono:

  • – la presunta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non è coerente con i contenuti normativi degli articoli.
    «La ricorrente si duole della valutazione della c.t.u., assunta ad elemento probatorio, operata dalla Corte territoriale, ma non già che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nell’art. 115 c.p.c., ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, ovvero ancora, quanto all’art. 116 c.p.c., che il giudice abbia disatteso il principio della libera valutazione delle prove in assenza di una deroga normativamente prevista, oppure, al contrario, abbia valutato secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. n. 11892/2016)».
  • – l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella vigente formulazione riguarda l’omesso esame di un “fatto storico”, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo.
    Nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, «il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua ” decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (tra le tante v. Cass., S.U., n. 8053/2014)».
    «Le doglianze si risolvono nella prospettazione di un vizio di motivazione non coerente con il paradigma attualmente vigente, nonché volta ad una nuova valutazione dei fatti e delle risultanze istruttorie, non ammissibile in questa sede».

La Cassazione ribadisce che il “fatto storico” è «accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti ed attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità ai sensi dell’art. 4, dell’art. 360 c.p.c.».

La CTU costituisce l’elemento istruttorio da cui è possibile trarre il “fatto storico”, ma non è “fatto storico”.

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Il Ministero della Giustizia ha diffuso il comunicato stampa con cui Poste Italiane annuncia che dal 23 settembre le notifiche degli atti giudiziari via posta tradizionale dovranno essere eseguite utilizzando i nuovi moduli.
Termina dunque il periodo di transizione previsto dopo l’introduzione dei nuovi modelli a seguito della Delibera AGCOM 155/19/CONS di maggio 2019.

I VECCHI MODELLI PER LE NOTIFICHE DEGLI ATTI GIUDIZIARI VIA POSTA TRADIZIONALE

I vecchi modelli di buste e moduli potranno essere utilizzati fino al 22 settembre. Superata questa data, le eventuali rimanenze non verranno né rimborsate né sostituite. Per questo motivo, è importante che i moduli non utilizzati vengano smaltiti e che i soggetti autorizzati procedano alla stampa in proprio dei moduli nel rispetto delle specifiche tecniche indicate su www.poste.it.
In alternativa, è possibile acquistare i moduli attraverso il il servizio “vendita stampati” disponibile nel medesimo sito.

Nel comunicato stampa ufficiale, Poste Italiane dichiara che «i clienti che presenteranno all’accettazione modulistica non conforme alle specifiche tecniche […] e quindi alla citata Delibera, a norma dell’art. 3 della l. 890/1982, saranno invitati a riconfezionare la spedizione utilizzando la modulistica conforme.
In caso di diniego, le spedizioni saranno accettate sotto la responsabilità del cliente e senza pregiudizio per la Società».

Potete visionare qui il comunicato di Poste Italiane e il comunicato del Ministero della Giustizia.

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Il phishing è una tipologia di truffa esercitata attraverso l’invio di mail che sembrano provenire da istituti di credito, enti o aziende, in cui vengono comunicati presunti problemi di utilizzo dei servizi online, di fatturazione, o la conferma di dati personali.

Per renderli più credibili, i messaggi contengono i loghi dell’istituto o dell’azienda e un link che solo apparentemente rimanda al sito web.
Se cliccato, il link porta in realtà a un sito falso il cui aspetto è però del tutto simile all’originale.

Una volta che l’utente inserisce i suoi dati nel form di accesso o di registrazione, il criminale può salvarli e utilizzarli per accedere al sito reale.   

In alcuni casi, il link rimanda davvero al sito reale dell’istituto o dell’azienda, precedentemente ‘hackerato’ dal cyber truffatore, il quale ha inserito un finto pop-up per la richiesta dei dati di accesso.

In altri, le mail contengono dei link che, se cliccati, attivano il download di ransomware che criptano il contenuto del computer. L’unica possibilità per riavere indietro i propri file è il pagamento di un riscatto.

Oltre alle mail, un mezzo di diffusione del phishing in crescita sono i social network, soprattutto Facebook.

Proprio la somiglianza dei messaggi di phishing con le comunicazioni ufficiali rende questo genere di truffa informatica particolarmente difficile da riconoscere. Molti utenti capiscono di essere caduti nella trappola troppo tardi, quando il loro computer è del tutto bloccato o a fronte di ingiustificati prelievi dal conto corrente.

Va notato che il phishing può essere esercitato anche via telefono. In questo caso, prende il nome di voice phishing o vishing.

PHISHING E COVID

Il phishing non è certo una novità, ma durante gli scorsi mesi si è registrato un aumento degli attacchi informatici in Italia.

Oren Elimelech, consulente del governo israeliano, ha spiegato come la paura generata dalla pandemia avrebbe «reso meno vigili gli utenti e innalzato il rischio per gli attacchi di phishing, anche grazie alla innata curiosità degli esseri umani, in questo caso spinta all’estremo dal costante bisogno di essere aggiornati sulla situazione».

Infatti, a differenza del phishing tradizionale che, come visto, si basa sull’invio di messaggi “commerciali”, il phishing durante il COVID ha visto un abbondante uso di mail apparentemente provenienti da fonti autorevoli (es.: OMS) contenenti link sull’andamento dei contagi o altre notizie sulla pandemia. Dati e notizie disponibili, ovviamente, solo a fronte della registrazione all’area privata di siti fasulli.

COME DIFENDERSI DAL PHISHING

Come ci si protegge dalle truffe e dai virus informatici? Esattamente come facciamo contro il COVID: curando l’igiene (informatico) e scegliendo le precauzioni più adeguate.

Ecco qui un breve elenco di buone pratiche da rispettare per difendersi dal phishing.

  1. Ricordatevi che banche, enti e aziende non chiedono mai dati personali tramite e-mail: diffidate da messaggi di posta elettronica che contengono un link per confermare i propri dati.
    Inoltre, il testo delle mail di phishing è molto generico e impersonale. Spesso, vi è la minaccia di sospendere i servizi nel caso in cui non si esegua quanto richiesto.
  2. Posizionate il puntatore del mouse sul link presente nella mail, senza cliccare, e in basso a sinistra del monitor vedrete comparire l’indirizzo Internet del sito indicato. Capirete subito se si tratta dell’originale o meno.
  3. Similmente, controllate l’indirizzo email di chi vi scrive: potreste accorgervi che non è l’indirizzo ufficiale.
  4. Diffidate dall’aprire eventuali allegati.
  5. Se continuate ad avere dubbi sulla veridicità della mail, contattate il mittente.
  6. Le mail di phishing arrivano soprattutto tramite spam. Assicuratevi che il vostro programma di gestione della posta elettronica sia dotato di filtri antispam che possano bloccare i messaggi potenzialmente pericolosi.
  7. Installate un antivirus che ti protegga anche dal phishing.
  8. Abbiate sempre delle password di accesso affidabili.
  9. Assicuratevi che la pagina in cui vi viene chiesto di inserire i vostri dati sia una pagina protetta. Per capirlo, basta guardare la barra degli indirizzi del browser: se l’indirizzo comincia con https e non http e/o compare il simbolo di un lucchetto, allora è una pagina protetta.
  10. Per connettervi a internet, soprattutto se volete visitare siti che richiedono i vostri dati (e-commerce, home banking), utilizzate solo connessioni sicure (no wi-fi pubblici). Le connessioni non sicure permettono ai cyber truffatori di reindirizzarvi più facilmente a pagine di phishing.

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Riforma delle intercettazioni: siamo pronti? Forse no…

 

Riforma delle intercettazioni: siamo pronti? Forse no…

Riforma delle intercettazioni: siamo pronti? Forse no…

Domani, 1 settembre 2020, dopo una lunga incubazione iniziata a maggio 2017, entra in vigore la riforma delle intercettazioni. Si applicherà a tutti i procedimenti iscritti dal medesimo giorno.

La principale novità della riforma riguarda la nascita di un archivio digitale presso ogni Procura nel quale verranno immagazzinate tutte le intercettazioni (telefoniche o tramite trojan), ma anche i video e tutti gli atti collegati.

Lo scopo di questi grandi archivi è garantire un maggior controllo sulle informazioni acquisite, evitarne la fuoriuscita e garantire la riservatezza dei soggetti coinvolti.

Di fondamentale importanza è il ruolo del PM, che deve assicurarsi che nei verbali derivati dalle intercettazioni non vi siano espressioni che ledono la reputazione dei soggetti coinvolti, dati sensibili o informazioni private scambiate tra difensore e assistito.

La polizia giudiziaria ha a disposizione 5 giorni per trasmettere alla Procura i contenuti raccolti tramite le intercettazioni. Una volta inseriti i verbali in archivio, la Procura deve dimostrare di non aver trattenuto alcun contenuto originale nei propri uffici e lo stesso dovranno fare le aziende che hanno fornito alla polizia gli strumenti per le operazioni di ascolto.

Il contenuto delle intercettazioni potrà essere esaminato dal giudice e i suoi ausiliari, dal pubblico ministero, dai difensore delle parti, dagli assistiti, dagli eventuali interpreti.
Sarà possibile farlo da remoto, ma ogni Procura dovrà predisporre delle sale con postazioni di ascolto il cui accesso dovrà essere controllato.

RIFORMA DELLE INTERCETTAZIONI: LE PERPLESSITÀ

La riforma delle intercettazioni e la creazione dell’archivio digitale rappresentano un passo ulteriore verso la digitalizzazione del processo penale ma, come prevedibile, possono funzionare solo a fronte di regole chiare e un valido assetto tecnologico.

Per quanto riguarda le prime, si tratta di un percorso in divenire. Basti considerare che i brogliacci rimarranno cartacei fintantoché non giungeranno indicazioni da parte del Ministero della Giustizia.

Per il secondo, sfortunatamente la riforma viene introdotta senza che sia stata prevista alcuna forma di sostegno economico che consenta alle Procure di affrontare diversi ostacoli: oltre alle carenze strumentali, vi è la mancata formazione del personale, la scarsità di questo, e l’assenza di spazi dove custodire i documenti cartacei o creare le postazioni di ascolto.

Molte Procure non sono affatto pronte e in molti se ne rendono conto.
Un esempio è il procuratore di Terni, Alberto Liguori, che, come riportato dalla rivista ‘Il Dubbio’ così si interroga: «Gli hardware scelti dal Ministero vengono utilizzati per la prima volta: se qualcosa non dovesse funzionare, cosa succederà ai dati? E la gestione del cartaceo?».

I dubbi non mancano, ma ormai è questione di poche ore prima di affrontare la realtà.

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